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1.3.1 «La loro lingua è la lingua della menzogna»: potere e corruzione linguistica

1.3.6 Un doppio «gioco manipolatorio»

Nico Naldini osserva giustamente che «la televisione sarebbe stata magnifica nelle mani di Pasolini»151; è un «amore negato»152, il suo, proprio perché la sua profonda

consapevolezza dell’autoritarismo veicolato dalla televisione gli impedisce di approfittare liberamente delle sue potenzialità comunicative.

A Enzo Biagi, che nel 1971 lo intervista nel corso della trasmissione televisiva III B: facciamo l’appello, Pasolini dice infatti (suscitando una certa sorpresa irritazione da parte del giornalista) di non essere affatto libero di dire ciò che vuole in tv, anche se teoricamente gli sarebbe concesso, e questo perché egli non intende abusare dell’onnipotenza concessa a chi parla attraverso il video rispetto agli ascoltatori (inconsapevolmente) alla sua mercé:

Di fronte all’ingenuità e alla sprovvedutezza di certi ascoltatori, io stesso non vorrei dire certe cose, per cui mi autocensuro. Quando qualcuno ti ascolta in video, ha verso di te un rapporto

148 D. Cantone, Pasolini e le immagini cit., p. 65. 149 Cfr. P.P. Pasolini, Empirismo eretico cit., p. 265. 150 P.P. Pasolini, Il sogno del centauro cit., p. 4.

151 N. Naldini, Appunto estemporaneo, in A. Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 31.

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di soggezione, da inferiore a superiore, e questo è spaventosamente antidemocratico. L’insieme della cosa acquista sempre un’aria autoritaria, perché viene sempre come da una cattedra.153

Pasolini si rifiuta quindi di approfittare del mezzo televisivo per imporre dall’alto le sue idee al pubblico, non intende cioè «violentare chi guarda e ascolta, cioè chi sta davanti a quel tabernacolo delle immagini e delle parole che gli si offre come veicolo di verità, unico veicolo di verità»154.

In effetti, già l’anno precedente, nel corso del programma Cinema 70, Pasolini aveva affermato la sua intenzione di rivolgere le proprie opere cinematografiche, e in senso lato la sua intera produzione artistica e critica, solo a una immaginaria élite emergente dalla società di massa («proprio a questa élite mi voglio rivolgere, mica alla élite classica […] dei privilegiati, detentori del potere e quindi della cultura […] Io dico “per l’élite”, ma l’élite la cerco là dove la trovo. […] Intendo un nuovo tipo di élite, un fatto estremamente democratico, e che si decentra quindi dappertutto»155) che fosse disposta a

compiere un certo sforzo per penetrare i suoi ragionamenti e comprenderne la portata, elevandosi così naturalmente al di sopra dell’incosciente «sprovvedutezza» di quel popolo, un tempo tanto amato, ma ormai assimilato a una massa indistinta e corrotta dal potere.

Eppure, nei suoi ultimissimi anni, è questa stessa consapevolezza della pericolosa ignoranza di «certi ascoltatori»156 (in effetti, la maggioranza del pubblico televisivo), e della

loro passiva sudditanza al nuovo Potere, che suscita in lui la necessità di intraprendere une vera e propria crociata contro lo sfacelo civile e morale in cui versa l’Italia, il che lo spinge a tentare di raggiungere (e fustigare) un pubblico il più ampio possibile: in questa sua missione pedagogica Pasolini non si rivolge più a un’élite sui generis, che sia interessata alle sue argomentazioni e disposta a prestare la necessaria attenzione per interpretarle, ma pare intenzionato ad adattare il proprio linguaggio e il proprio stile comunicativo agli ascoltatori anche più lontani dal suo pensiero, quasi calandosi nel ruolo evangelizzatore di Cristo alle prese con la folla:

153 III B: Facciamo l’appello., intervista a cura di E. Biagi. Programma a cura di E. Biagi. RAI, Italia 1971. Tr2- 11-1975. Trascrizione dattiloscritta conservata presso il Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna.

154 I. Moscati, Prefazione a G. Policardo, Schermi corsari cit., p. 12.

155 Pasolini e il pubblico. Dibattito in studio con Pier Paolo Pasolini, a cura di A. Luna e O. Del Buono, regia di M. Curti Gialdino, rubrica Cinema 70. Produzione: RAI, Italia 1970. Trasmissione: 28 gennaio 1970. Trascrizione dattiloscritta conservata presso il Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna.

156 In occasione di una conferenza stampa tenuta da Pasolini il 9 maggio 1975 sul set del film Salò o le 120

giornate di Sodoma egli ripeterà ancora: «Tutte le implicazioni che ci sono in un film purtroppo è sempre

un’élite a capirle. Questo è fatale, ma lo è per qualsiasi cosa si faccia, non soltanto per il cinema, il teatro e la letteratura, ma anche per la politica. Quando Berlinguer dice qualcosa noi cogliamo tutte le implicazioni politiche, mentre la massa percepisce quelle venti-trenta cose un po’ stereotipate.»; P.P. Pasolini, Polemica

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Anche quando Cristo esplode nelle più terribili invettive contro gli Scribi e i Farisei (guide cieche, sepolcri imbiancati, ipocriti ecc. ecc.) non dispera di essere capito da loro e dalla loro fondamentale volontà di capire: argomenta cioè sempre quello che dice, «dialoga» anche nel momento della più appassionata violenza verbale. Egli insiste sempre, in modo quasi ossessivo, perché entri sempre nelle teste, talvolta un po’ rusticamente dure dei suoi apostoli, che bisogna parlare proprio a quelli che sono più lontani, i pubblicani, le peccatrici, le pecore smarrite.157

A questa sua volontà educativa, pedagogica, sono allora da ricondurre sia la sua collaborazione con Il Corriere della Sera (proprio il giornale dell’odiata borghesia italiana, che però può effettivamente contare su un bacino di lettori assai più ampio rispetto a quello di «Vie Nuove» o «Tempo») che la disponibilità a comparire più spesso in tv, prestandosi a interviste, programmi e ospitate. Questa maggiore presenza televisiva presenta però delle caratteristiche curiosamente controcorrente, in linea con il personaggio: l’approccio di Pasolini alla ribalta mediatica è infatti estremamente soggettivo e riconoscibile, poiché il suo modo di fare resta sempre colloquiale e diretto, sia che si rivolga a un interlocutore reale sia che immagini di farlo, e ciò si traduce in un atteggiamento sempre garbato, quasi ingenuo nella sua volontà di chiarezza e sincerità:

Verso il proprio interlocutore, chiunque fosse, Pasolini aveva sempre un rispetto sacrale e incondizionato; se questi dimostrava di non capire, o di ignorare volutamente il suo universo, egli portava il dibattito su temi a lui più congeniali […] con un tono gentile, di chi vuol esprimersi confrontarsi liberamente e – laddove possibile – «far capire» il proprio punto di vista.158

Ciò che colpisce particolarmente, infatti, nella sua accettazione dell’utilizzo della tv ai fini di un intervento più pervasivo nel tessuto sociale, è la sua capacità di sfruttarla non rinunciando a essere se stesso, a personalizzare i suoi interventi e il suo stesso messaggio, lungi dall’adeguarsi a un palcoscenico mediatico che tende a funzionare da «involucro anestetizzante»159, distaccando ulteriormente le persone dalle realtà, scollando

parole e immagini dalle cose cui si riferiscono (la tv è sempre, per lui, la «depositaria dell’odio per la realtà», anche quando contrabbanda «qualche suo prodotto con la formula del realismo»160).

Se «la televisione, dunque, «trasforma i segni, gli elementi di espressione, in discorsi, ovvero modelli di interpretazione già preordinati, […] interpretati, egemonizzati da un potere che ne decide la struttura»161, Pasolini sfugge invece a ogni imposizione dettata

dalla cornice, cerca di parlare direttamente allo spettatore con il massimo della chiarezza

157 P.P. Pasolini, Le belle bandiere cit., p. 267. 158 G. Policardo, Schermi corsari cit., pp. 25-26.

159 M.A. Bazzocchi, Pasolini, la televisione e la perdita del sacro, in A. Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 35.

160 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 130. 161 D. Cantone, Pasolini e le immagini cit., p. 66.

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(anche semplificando le proprie modalità discorsive rispetto alle sedi scritte), utilizzando frasi dirette e un lessico peculiare, spesso innovativo, le cui parole-chiave egli si sofferma a spiegare più volte, come nell’intento di portare in tv, attraverso la sua lingua «corsara», quella realtà costantemente allontanata.

Eppure, proprio in questo atteggiamento di pedagogo, tanto paziente quanto determinato a far breccia nella psicologia del pubblico, sta la chiave dell’eco notevolissima che ebbero in quegli anni gli interventi televisivi di Pasolini, nei quali è chiaramente percepibile la profonda alterità della sua figura e del suo messaggio rispetto all’ambiente circostante.

La sua strategia consiste quindi nel combattere il degrado dello sviluppo italiano inoltrandosi nel territorio del “nemico” e adottando, in certi casi, proprio gli strumenti di comunicazione di massa della “borghesia trionfante”, ma per diffondere un pensiero di critica radicale e intransigente contro le forme e la prassi del processo di sviluppo.162

Allora, confermandosi ancora una volta come il campione della contraddizione, Pasolini accetta di utilizzare «quel mezzo così negativo» perché gli permette di «manifestare proprio la sua contrapposizione al sistema»163 nientemeno che dal suo stesso

centro; la sua volontà è appunto quella di cercare lo scontro corpo a corpo col Potere agendo al suo interno, parlando in tv ma al contempo sfuggendo alle sue «parole ridotte a puro suono»164, usando la televisione mentre lascia che essa lo usi: «io strumentalizzo la

produzione che c’è, la produzione che c’è strumentalizza me, e vediamo un po’, facciamo questo braccio di ferro e vediamo un po’ di chi sarà la vittoria finale»165.

Gioco manipolatorio da entrambe le parti, verrebbe da dire: la tv fagocita Pasolini che ne parla male, e lui sfrutta la tv per parlarne male. Pasolini accetta questo, perché rientra proprio in una logica di volontà di non morire. […] Quando qualcuno gli chiede: lei fa cinema utilizzando i mezzi del sistema capitalistico; oppure, lei scrive sul «Corriere della sera» che è la voce del padrone, la voce del sistema capitalistico ecc… Ecco, lui ribadisce sempre che questa è proprio la sua volontà: utilizzare il mezzo di comunicazione che abbia maggiori chanches di diffusione.166

Così, è proprio questa disponibilità di Pasolini ad accettare una sorta di compromesso con il mezzo televisivo, concedendosi al suo palcoscenico ma senza sottostare alle logiche del suo potere, che gli fornisce la chiave per innestare al suo interno una dimensione «altra» (che rimanda alla sua nostalgia del sacro), dove possano ancora esistere «parole vere, immagini vere»167 (si veda ad esempio la sua partecipazione alla serie

162 R. Chiesi, Pasolini e una televisione della realtà, in A. Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 181. 163 S. Casi, «L’Histoire du soldat» (Sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini per un film, 1973), in A. Felice (a cura di),

Pasolini e la televisione cit., p. 204.

164 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 131.

165 Pasolini e il pubblico. Dibattito in studio con Pier Paolo Pasolini cit. 166 S. Casi, «L’Histoire du soldat» cit., p. 204.

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Io e…, curata da Anna Zanòli per la RAI, in cui diversi artisti erano chiamati a parlare di opere d’arte selezionate per la loro emblematicità; l’intervento dello scrittore/regista, dal titolo Pasolini e… la forma della città, è ancora una volta «corsaro», e si trasforma nella denuncia dello scempio urbanistico perpetrato ai danni della città di Orte, in cui egli inserisce anche un frammento di un cortometraggio del 1971, Le mura di Sana’a, che aveva girato in forma di appello all’UNESCO per salvaguardare la bellezza del mondo antico dall’aggressione della modernità).

Così, «all’irrealtà della sottocultura televisiva, che imponeva un modello di vita – di linguaggio, di comportamento, di rituali – prettamente piccolo-borghese e consumistico»168, Pasolini oppone la concretezza di un mondo fatto di luoghi e oggetti

reali, che le parole e le immagini (concepite sempre come “rivelazioni”) si sforzano di riprodurre nella loro sostanza, senza ridurli a feticci deformati ai propri fini («la falsificazione, la menzogna è presente in ogni scelta che viene operata all’interno dei media»169) ma neanche limitandosi a lambirne la superficie (l’inquadratura, o la descrizione,

spesso selezionano solo una parte da mostrare escludendo automaticamente il contesto globale). «Probabilmente tale approccio lo immunizza dalla parola televisiva, in cui le conversazioni sono svuotate, girano intorno a forme vuote»170, consentendogli di restare

fedele a un uso vivo e diretto della parola, a cui egli cerca di restituire il suo potere di lettura del reale anche in un contesto pericolosamente deviante qual è la cornice televisiva, dove in genere «non va pronunciata una parola di scandalo», anzi «praticamente non può essere pronunciata alcuna parola vera»171

Rispetto a questo scenario, dove il mezzo televisivo, pur ferocemente condannato da Pasolini come strumento di repressione (al punto di a paragonarla a un campo di sterminio: «delle idee, delle coscienze, della sensibilità»172) prevedeva comunque spazi in

cui egli poteva esprimersi liberamente, perfino contro di essa, appare evidente l’odierna deriva catastrofica di una televisione gridata, scandalistica e dominata dal più mediocre populismo (deriva contemporanea del nuovo Potere) che, nei suoi tratti più deteriori, sembrerebbe meritare le infuocate critiche pasoliniane assai più di quella conosciuta dallo scrittore, vissuto nell’epoca della cosiddetta “paleotelevisione”:

168 R. Chiesi, Pasolini e una televisione della realtà, in A Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 184. 169 G. Barberio Corsetti, L’Histoire du soldat (Sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini per un film, 1973). Adattamento e

regia teatrale di Gigi Dall’Aglio, Giorgio Barberi Corsetti e Mario Martone (Avignone, 1995), in A Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 242.

170 L. Virgolin, Il rito del degrado. Pasolini e la televisione (Italia, 1963-1975) a cura di Roberto Chiesi e Luigi Virgolin

(50’), in A Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 200.

171 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 141.

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Limitata nell’offerta e sorvegliatissima nei contenuti, è una televisione che oggi suscita ammirazione e tenerezza […]. È luogo di sperimentazione linguistica e di divulgazione culturale[…], di intrattenimento misuratissimo e castigato […] di informazione paludata, di sceneggiati che ricalcano il grande romanzo ottocentesco[…], e di contributi d’autore che vanno nelle direzioni più disparate.173

Se si considera che le sue critiche si rivolgevano a un panorama del genere, a maggior ragione ci appare chiaro come lo sguardo di Pasolini sia andato oltre la tv del suo tempo, (in realtà assolutamente lontana dall’attuale «trionfo del kitsch, del trash, della volgarità», che oggi sembrano «vomitarci addosso deformazioni immonde della nostra realtà»174), ma non in senso prettamente cronologico, sbilanciandosi cioè in previsioni

all’epoca impensabili, data la natura del tutto nuova del mezzo, quanto nell’intuizione dell’essenza più profonda della tv, alla quale egli già attribuiva un potere di dominio assoluto sulle menti.