• Non ci sono risultati.

1.1 «Cantare è esistere»: l’espressione linguistica come fonte di vita

1.1.7 Oltre la morte del dialetto: La nuova gioventù

Negli anni Settanta lo scrittore torna infatti al dialetto quasi con astio, per parlare di un mondo irrimediabilmente deturpato, per esprimere il suo rimpianto e insieme la volontà di portare avanti a oltranza la propria critica e la propria opposizione allo scempio dissennato operato dalla civiltà dei consumi.

Jo i mi vuàrdi indavòur, e i plans / i paìs puòrs, li nulis e il furmìnt; / la ciasa scura, il fun, li bisicletis, i reoplàns / ch’a passin coma tons: e i frus ju vuàrdin: / la maniera di ridi ch’a ven dal còur; / i vuj che vuardànsi intòr a àrdin / di curiositàt sensa vergogna, di rispièt // sensa paùra. I plans un mond muàrt./ Ma i no soj muaàrt jo ch’i lu plans.

Io mi guardo indietro / e piango / i paesi poveri, le nuvole e il frumento, / la casa scura, il fumo, le biciclette, gli aeroplani / che passano come tuoni: e i bambini li guardano: / il modo di ridere che viene dal cuore; / gli occhi che guardandosi intorno ardono/ di curiosità senza vergogna, di rispetto //senza paura: Piango un mondo morto. / Ma non son morto io che lo piango.222

Tuttavia, questo volume rappresenta anche un momento di riflessione che riguarda più da vicino la psicologia del poeta, la sua dimensione interiore: esso si ricollega infatti direttamente alla sua prima esperienza poetica, quella dell’incantata stagione friulana, rileggendola alla luce di un mondo radicalmente mutato, di speranze e progetti in frantumi, di una lucida disperazione.

A ben guardare, la riscrittura della Meglio Gioventù non è propriamente tale, è piuttosto una meta scrittura, volta a mettere in scena, con mortuario straniamento, l’impossibilità, e quindi di fatto lo scempio, dell’amato, antico idioletto friulano.

221 P.P. Pasolini, Il dì de la me muàrt, in Id., Tutte le poesie cit., I, p. 78.

55

Lo stesso bilinguismo della Nuova Gioventù (le «poesie italo-friulane», come le chiamò Pasolini nella sua Nota), lungi dal risultare in qualche connessione con il valore fondativo dell’antica contaminatio linguistico-espressiva, propria dell’ormai impraticabile poetica del realismo mitico, vale invece a sancire il carattere peculiare dei nuovi versi: il carattere di una poesia quasi prosa, suscitata e attraversata dal tetro entusiasmo, (titolo di una sezione della nuova raccolta) di un furore meta-discorsivo sempre più incomunicabile, sempre più fine a se stesso.223

La rilettura della Meglio Gioventù rappresenta per il poeta uno sguardo retrospettivo alle sue illusioni e ai suoi desideri giovanili, che egli reinterpreta con furia impietosa verso la parte di sé ancora viva in quei versi e in quella «pianta»224; quest’opera è «il libro della

distanza e della chiarezza rispetto al mito friulano, a cui egli è in realtà estraneo, condannato a esserne innamorato, e per sempre, di un amor de loinh»225:

I mi soj ingianàt / zujànt al piligrìn / ch’al riva coma un spirt / ta un mond contadìn. / Ma al era un zòuc tal zòuc, / e adès che duciu doj / a son finìs tal fòuc / distudàt da la storia, / i maledìs la storia / ch’a no è in me ch’i no la vuej.

Mi sono ingannato / giocando al pellegrino / che arriva come uno spirito / in un mondo contadino. / Ma era un gioco nel gioco, / e adesso che tutti e due / sono finiti nel fuoco / spento della storia, /maledico la storia / che non è in me che non la voglio. 226

Allora, nelle Poesie a Casarsa e in tutta la prima stagione dei versi friulani, il dialetto sembra funzionare in realtà come strumento di frattura, poiché maschera e dissimula l’identità del poeta: ergendosi a simbolo dell’amore per la madre, infatti, esso incarna allo stesso tempo i valori di un sistema arcaico estraneo al giovane Pasolini, facendo sì che egli rifiuti, insieme alla discendenza paterna, anche la propria estrazione sociale, trovandosi così fatalmente e tragicamente escluso da entrambi i mondi.

Tutta la poesia pasoliniana, in effetti, appare costruita attorno a questa «“ferita” insanabile»227, ossia la divaricazione fra mondo paterno e mondo materno, evidentissima

223 P. Voza, Dalla «Meglio Gioventù» alla «Nuova Gioventù», in G. Borghello-A. Felice, Pasolini e la poesia dialettale cit., pp. 85-86.

224 «La prima planta ch’i ài plantàt / – sensa né voli vei né crodi di dà / – sensa pòura di planzi/ – ma forsi doma par fami perdonà – // a era la Planta de la Passion: / li so fuèjs a luzèvin di plant, i so flòurs di ligria: du ’na puora busia. / Ma i erin di vierta par da bon. // La seconda planta ch’i ài plantàt / a è la Planta dal Zòuc: / a cres tal stes soreli de la prima/ e a fa ombrena tal stes lòuc. // Li so fuejs a luzin di plant / i so flòurs di ligria: i onès’c / a son sempri bausiars. Ma la vierta / a no puarta par me i so disselès’c.

La prima pianta che ho piantato / – senza né volerlo avere né cedere di dare / – senza paura di piangere / – ma solo forse per farmi perdonare – // era la Pianta della Passione: / le sue foglie luccicavano di pianto, / i suoi fiori di allegria; tutta una povera bugia. / Ma eravamo davvero in primavera. // La seconda pianta che ho piantato / è la Pianta del Gioco: / cresce allo stesso sole della prima / e fa ombra sullo stesso luogo. // Le sue foglie luccicano di pianto, / i suoi fiori di allegria: gli onesti / sono sempre bugiardi. Ma la primavera / non porta per me i suoi giorni celesti.»

P.P. Pasolini, Variante, in Id., Tutte le poesie cit., II, pp. 400-401. 225 F. Cadel, La lingua dei desideri cit., p. 204.

226 P.P. Pasolini, Tornant al paìs, in Id., Tutte le poesie cit., II, p. 420. 227 S. Agosti, La parola fuori di sé cit., p. 46.

56

anche nella frattura fra i rispettivi codici linguistici, dei quali Stefano Agosti propone una suggestiva interpretazione, descrivendoli rispettivamente come «Canto» e «Discorso»:

S’intenderà per lingua del Padre, la lingua della simulazione della verità, quale è rappresentata dall’insieme dei codici, delle ideologie e dei saperi costitutivi del Discorso e attraverso i quali si costituisce la storia e si afferma la legge: la legge, appunto, del Nome-del- Padre; mentre si intenderà, per lingua della Madre, la lingua del possesso della verità vera, la quale però non può essere formulata in termini di discorso ma solo balbettata o cantata (la verità “parla” al di fuori dei codici, nella lingua del canto, la più prossima all’origine), per cui la Madre, in quanto detentrice della verità, la sottrae nel contempo alla sua manifestazione diretta.228

Così, se nella produzione dialettale il cortocircuito fra codice paterno/materno è reso evidente dalla concezione pasoliniana del dialetto come ideale traduzione dall’italiano, sempre presente alle spalle della musica friulana, nelle tre raccolte maggiori in lingua (Le ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa) la Voce del poeta risulta parimenti sottoposta a una duplice pressione, ossia da un lato la complessità sintattica del Discorso, sviluppato in lunghe frasi che appesantiscono il canto fino a disfarlo, dall’altro la struttura formale del Canto, fatta di schemi metrici e di rime che si inceppano, non riuscendo mai a entrare nella misura del discorso: «“significati” dilapidati e “canti” non attuati rappresentano così il risultato cui perviene la Voce del Soggetto nella gestione del proprio dire.»229

Secondo Agosti, quindi, la Parola del Soggetto risulta sempre «portata fuori di sé», in una struttura del non-compimento (né sintattico, né formale) che manifesta una scissione del dire, della Voce; allora le iscrizioni della morte, presenti già a partire dagli scritti giovanili di Pasolini come ferita, lacerazione, si palesano in tutta la loro evidenza nella sua produzione poetica più tarda. Se da un lato, infatti, nei versi testamentari di Trasumanar e organizzar, al trionfo della lingua del Discorso si affiancano le inscrizioni della morte come cifra ossessiva, esplicita, del «programma narrativo del Soggetto […], confermando per altra via la dicotomia generativa – o antinomia – della scrittura pasoliniana»230, d’altro

canto in questo stesso orizzonte mortuario è possibile collocare le poesie della Nuova Gioventù, dove il poeta torna a impiegare il dialetto proprio in quanto “lingua morta”, perché solo la morte può consentire la sua resurrezione in chiave critica, rivoluzionaria, feroce («o esprimersi e morire o essere inespressi e immortali»231), ma sempre all’interno

di una dimensione linguistica «violentemente abitata […] dalla mortalità stessa»232.

228 Ibidem 229 Ivi, p. 30. 230 Ivi, p. 49.

231 F. Cadel, La lingua dei desideri cit., p. 251. 232 S. Agosti, La parola fuori di sé cit., p. 40.

57

Secondo Agosti, allora, solo in una dimensione postuma diventa possibile per Pasolini tornare all’Origine, a una primitiva condizione prestorica e prelinguistica, che sul piano individuale significa il luogo «prima-della-nascita», laddove l’identità era ancora integra.

Grazie a Dio si può tornare / indietro. Anzi, si deve tornare / indietro. Anche se occorre un coraggio /che chi va avanti non conosce / solo chi sa rassegnarsi sa anche / ribellarsi /233

Il ritorno all’Origine coincide allora da un lato con la fine del Discorso, con la «morte della storia del mondo», dall’altra, conseguentemente, con «la morte della storia del Soggetto»234, ossia con l’auto-annullamento; d’altra parte, come afferma altrove lo

stesso Pasolini, «è assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso.[…] Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve a esprimerci:».235

Nell’ottica esistenziale/artistica dell’autore l’idea stessa della vita appare così fondata su quella della morte, ed è anzi possibile affermare, con Bazzocchi, che «il suo amore per la vita passa proprio attraverso la morte»236: in effetti, nell’universo pasoliniano

la pulsione di morte è sempre equivalente e coincidente con una parallela attrazione per l’Origine, per l’esistenza prenatale, in una circolarità che salda sempre la fine a un nuovo inizio, a una dimensione virginale dell’esistenza: «ma è possibile amare /senza sapere cosa questo vuol dire? Felice te, /che sei solo amore, gemello vegetale, /che rinasci in un mondo prenatale!237»

È appunto in questa stessa prospettiva di una circolarità morte/vita che si può inscrivere il tardivo recupero pasoliniano del dialetto, la cui morte non fa che ravvivarne il mito: in effetti, «solo tornando arcaica e primordiale», come nella rappresentazione dialettale (o anche in quella cinematografica, capace di portare allo scoperto anche il lato più nascosto, primitivo e mitico della realtà, ma solo in quanto sopravvivenza, ombra/immagine della vita vera), «la realtà può ritornare sacra, in quanto morte che possiamo percepire essendo vivi, morte che ci illumina di una nuova conoscenza senza richiederci di morire»238.

La parola del poeta («definita spesso parola e luce, cioè rivelazione»239), allora, è

ciò che traghetta gli uomini oltre la morte, oltre la fine della storia, perché essa è ciò che

233 P.P. Pasolini, Poesia popolare, in Id., Tutte le poesie cit., II, p. 494-495. 234 S. Agosti, La parola fuori di sé cit., p. 47.

235 P.P. Pasolini, Empirismo eretico cit., p. 241.

236 M.A. Bazzocchi, La parte nascosta del mito cit, p. 61.

237 P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti 2015, p. 171. 238 M.A. Bazzocchi, La parte nascosta del mito cit., p. 61.

58

aggancia gli uomini all’infinito, oltrepassando il non-essere, l’irreversibilità del tempo e quindi la morte: essa sola, infatti, «costituisce il tenue legame che ci unisce, uomini, sopra la superficie di quel non-essere che si stende da ogni parte intorno a noi»240.