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1.3.1 «La loro lingua è la lingua della menzogna»: potere e corruzione linguistica

1.3.5 Ieri e oggi, la lingua della televisione

Si è visto come la desacralizzazione della realtà nell’ipermodernità appaia strettamente legata all’impatto dei mass media, e in particolar modo della televisione, sulla mentalità e le abitudini sociali degli italiani; il video davanti al quale, secondo Pasolini, «gli italiani confermano ogni sera la propria stupida idea di sé»128 è infatti naturalmente quello

dell’elettrodomestico che, proprio a partire dagli anni Sessanta, invade sempre di più l’intimità della famiglia media italiana, trasformandola un «un nucleo di ansiosi consumatori»129. Parallelamente a questo fenomeno, è evidente come, nel corso delle

riflessioni pasoliniane in merito alla «mutazione antropologica» e alla conseguente degradazione morale e intellettuale degli italiani, si radicalizzi sempre di più la sua critica in merito al ruolo svolto dalla televisione come fattore accelerante della progressiva omologazione di massa.

Se già nel 1958, infatti, in un articolo uscito su «Vie Nuove» con il titolo Neocapitalismo televisivo, Pasolini rilevava nell’«influenza ideologica della tv»130 una forma

culturale di neocapitalismo, osservando come essa avrebbe forse potuto costituire un mezzo di accrescimento del sapere (naturalmente inteso come cultura consacrata e diffusa dalla classe egemone) per l’ambiente piccolo borghese, mentre rischiava di precipitare le classi più basse in una condizione di ignoranza e inferiorità ancora più misera (dato che esse erano in grado di fruire solo delle proposte televisive di più basso livello), nelle ormai ben note Nuove questioni linguistiche del 1964 lo scrittore ribadisce il cattivo impiego, da parte della televisione, del proprio ascendente ideologico/culturale sulle masse della nazione: qui egli si sofferma infatti sul potere della televisione come agente di diffusione del nuovo italiano comunicativo, osservando come essa stia sempre più venendo meno all’abitudine di educare il pubblico all’uso di un «bell’italiano, grammaticalmente puro fino a un fondamentale purismo»131, per proporre invece una lingua piatta, monotona, caratterizzata

da una settaria selettività del lessico («un’alta percentuale di parole di una lingua è

128 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 130. 129 P.P. Pasolini, Il caos, Milano, Garzanti 2015, p. 266.

130 P.P. Pasolini, Neocapitalismo televisivo, in «Vie Nuove», XIII, 51, 20 dicembre 1958; ora in Id., Saggi sulla

politica e sulla società cit., p. 1554.

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esclusa»132), da procedimenti di eufemismo e reticenza e da una «normatività di

grammatica e lessico non più purista ma strumentale»133.

Due anni più tardi, in un intervento dall’eloquente titolo Contro la televisione, Pasolini afferma di trovare la televisione «infinitamente peggiore e più degradante di quanto la più feroce immaginazione facesse supporre»134; ai suoi occhi, essa appare in

grado di corrompere non solo chi la guarda, dall’intimità di casa propria, ma anche chi si presta ad apparire in video, che risulta trasfigurato anche fisicamente, ridotto a indossare la maschera di se stesso. Ciò che appare in tv non ha quindi più neanche la forma, l’illusione della verità. Tutto fa parte di un grande «spettacolo rappresentativo, tendente a spogliare l’umanità di ogni umanità»135: gli individui diventano personaggi, icone, la realtà

appare lontana e attutita e le parole perdono pregnanza.

L’importante è una sola cosa. Che non trapeli nulla mai di men che rassicurante. La televisione, della vita pubblica, delle vicende politiche e della elaborazione delle idee, deve […] operare secondo una selettività di scelta e una serie di norme linguistiche, che assicuri innanzitutto che «tutto va bene», ed è fatto per il bene.136

Ogni forma di scandalo è quindi allontanata, e insieme ad essa ogni parvenza di verità, dato che «la menzogna e la mistificazione presiedono ogni operazione linguistica.»137

Queste tematiche saranno riprese in un interessante lavoro del 1973, dal titolo L’Histoire du soldat138: si tratta della sceneggiatura (ispirata al racconto omonimo di Charles-

Ferdinand Ramuz e rimasta inedita) per un film mai realizzato, in cui Pasolini utilizza la vicenda fiabesca dell’incontro di un soldato disertore con il diavolo per trattare molte tematiche bruciante attualità, e in particolar modo la sua visione della televisione come vera e propria incarnazione del male.

Intervistatore (biricchino): «Lei cosa ne pensa del Diavolo? Chi è?» Intervistato: «Il suo padrone»

[…]

Intervistatore: Come, come, in che senso, dica, dica… […]

132 Ibidem 133 Ivi, p. 92.

134 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 133. 135 Ivi, p. 135.

136 Ivi, p. 137. 137 Ivi, p. 138.

138 Dell’ampia sceneggiatura dell’Histoire du soldat si conserva, presso il Fondo Pasolini dell’Archivio contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux, il dattiloscritto completo, che riporta quali autori Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti e Giulio Paradisi e risale al 1973. (Le due versioni precedenti, dal titolo Il soldato, sono invece opera dei soli Citti e Paradisi). Di questa versione definitiva è stata pubblicata nel volume Per il cinema dei Meridiani solo la parte dedicata all’incontro di Ninetto con il Diavolo, sicuramente attribuibile a Pasolini e di cui, nella Cartella V del medesimo archivio, si conserva il dattiloscritto pasoliniano originale.

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Intervistato: «Il Diavolo è il Capo della Televisione, il burocrate più alto della Televisione, che so io, oppure, se c’è, un personaggio, magari non ufficiale, che regoli i rapporti della grande industria del Nord da una parte, e del Vaticano dall’altra, con la Televisione e gli altri mezzi d’informazione di massa. Se questo personaggio c’è, in carne e ossa, bene. Se non c’è, è una metafora. Ma va bene lo stesso. Il Diavolo può essere anche un concetto.139

In un altro passo si legge che «il Diavolo è il male in concreto, […] che si identifica con il Potere e la sua ideologia»140: la televisione, incarnazione di tale Potere, sarebbe infatti

colpevole di annientare il pensiero individuale promuovendo una visione del mondo e delle relazioni centrata esclusivamente sugli oggetti e sul consumo:

L’agire del Diavolo consiste nel divulgare l’ideale del benessere in tutti gli strati della popolazione, nel creare sia nei piccoli borghesi che nei proletari sogni puramente materialistici ed edonistici della vita. Nel trasformare l’uomo in consumatore.141

Questi contenuti riecheggiano anche in altri interventi pasoliniani di quegli anni, fra i quali è ormai celebre l’articolo Sfida ai dirigenti della televisione (poi confluito negli Scritti Corsari con il titolo Acculturazione e acculturazione), dove Pasolini ribadisce che la televisione è stata appunto il mezzo mediante il quale il nuovo Potere, ferocemente accentratore, ha assimilato a sé l’intera nazione, cui ha imposto «i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un uomo che consuma, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.»142

Il giudizio pasoliniano è senza appello: egli decreta infatti che la televisione incarna e rende visibile lo spirito del nuovo Potere, ossia, appunto, il male assoluto:

La televisione […] è il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.

Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun altro mezzo di informazione al mondo. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione) non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.143

In effetti, un giudizio così radicale sulla televisione, intesa naturalmente come luogo del potere, lo pone in una condizione di tormentosa contraddizione rispetto alla possibilità di impiegare o meno, ai fini del proprio discorso critico, l’eccezionale tribuna pubblica che essa rappresenta.

Se, da un lato, egli provava un innegabile e irrazionale astio verso un medium considerato proprietà della borghesia, quindi del Potere, dall’altro «in luce», […] non poteva che comprenderne

139 P.P. Pasolini, Per il cinema, Milano, Mondadori 2001, II, pp. 2501-2502. 140 Ibidem

141 Ivi, p. 2504.

142 P.P. Pasolini, Scritti corsari cit., p. 23. 143 P.P. Pasolini, Scritti corsari cit., p. 30.

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l’immensa potenzialità, ma al tempo stesso il pericolo, semplicemente per via dell’uso che di un medium di massa poteva essere fatto»144.

Si è visto infatti come Pasolini si dibatta, a partire dagli anni Sessanta, in una profonda crisi che lo induce a mettere in dubbio il suo ruolo e i suoi strumenti, portandolo a imboccare vie espressive inedite e a forgiare un nuovo e personale linguaggio; venuto meno, infatti, come egli stesso riconosce, il ruolo dell’intellettuale impegnato, guida spirituale e intellettuale dell’intera nazione, che aveva caratterizzato il periodo immediatamente successivo al secondo dopoguerra, anche gli strumenti che in passato gli erano riservati per raggiungere ed educare il suo pubblico (articoli, rubriche, saggistica) necessitano evidentemente di un ampliamento, che tenga conto di una realtà sociale completamente trasfigurata, dove la figura dell’intellettuale è omologata ai dettami dell’industria culturale, creatrice di nuovi spazi dedicati all’intrattenimento delle masse.

L’egemonia culturale, che per circa un ventennio è stata detenuta dal Pci, è passata nelle mani dell’industria. […] L’intellettuale è dove l’industria culturale lo colloca: perché e come il mercato lo vuole. In altre parole, l’intellettuale non è più guida spirituale di popolo o borghesia in lotta (o appena reduci da una lotta), ma per dirla tutta, è il buffone di un popolo e di una borghesia in pace con la propria coscienza e quindi in cerca di evasioni piacevoli. L’autorità dell’autore come guida spirituale, compagno di lotta ecc. è scaduta, declinando col periodo storico in cui è nata […] , mentre l’autorità dell’autore come cantastorie per la borghesia è un fatto ignobile»145.

È chiarissima qui la delusione di chi ha dedicato la propria arte e la propria vita alla ricerca di una connessione profonda con la società, e che ora vede naufragare questa missione nella marea indistinta della cultura di massa, di cui la televisione è al contempo produttrice e strumento di diffusione:

La «nuova assurda strada»146 intrapresa da Pasolini lo conduce allora verso il

cinema, dove la dimensione artistica, sebbene indubbiamente legata a quella industriale ed economica, è ancora ben presente, mentre sembra annullarsi completamente in quella dittatoriale del potere televisivo. Se il cinema, infatti, «è una tavolozza d’artista»147, la

televisione appare fin dall’inizio come un luogo sottoposto a molteplici pressioni, in cui

144 G. Policardo, Schermi corsari. Pasolini e la televisione, Roma, Bulzoni 2008, p. 21. 145 P.P. Pasolini, Il caos cit., p. 12.

146 «Come un naufrago, che esce dal mare, e si aggrappa a una terra sconosciuta, mi voltavo indietro, verso tutto quel buio, devastato, informe: la fatalità del proprio essere, dei propri caratteri natali, la paura di cambiare, il timore del mondo: a cui a nessuno fu mai possibile scampare, portando a salvamento la propria interezza. Mi riposai un poco, non pensai, non vissi, non scrissi: come un malato: poi ricominciai a andare (è la vecchia storia). Su per la scesa deserta, dove veramente potevo dire di essere solo. Solo, vinto dai nemici, noioso superstite per gli amici, personaggio estraneo a me stesso, arrancavo verso quella nuova assurda strada, arrampicandomi per la china come un bambino che non ha più casa, un soldato disperso»; P.P. Pasolini, La divina mimesis cit., pp. 10-11.

147 I. Moscati, Tutte le televisioni possibili di Pier Paolo Pasolini, in A. Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 44.

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la libertà espressiva è fortemente limitata, e l’effetto di ogni gesto o parola terribilmente amplificato.

Anche la televisione opera attraverso le immagini. Ma lo fa in modo diverso da quanto fa il cinema. Nel cinema, c’è un problema di espressione. Una soggettività particolare, quella del regista cinematografico, scrive attraverso il film la propria visione della realtà. Egli entra nel film con il suo stile, con il suo sguardo particolare sulle cose. […] Nella televisione, invece, la questione è diversa. A più riprese Pasolini sottolinea come la televisione sia una sorta di pulpito: chiunque vi parli, qualunque cosa dica, gode di una posizione autoritaria. […] A differenza del cinema, la televisione insegna, e quindi si mette su un piano diverso rispetto allo spettatore, in un rapporto come quello appunto fra maestro e discepolo.148

Mentre il cinema, infatti, «scrive la realtà», ossia mette per iscritto, riproducendolo, il linguaggio stesso della Realtà149, la televisione adultera e manipola la realtà fino a crearne

una propria, alternativa, depositaria di una nuova mentalità e di nuovi significati: il problema, però, è che nella percezione degli utenti avviene esattamente il contrario, ossia il cinema possiede uno statuto di «finzione» che la televisione non ha, offrendosi anzi agli spettatori come una finestra diretta sulla realtà, e in quanto tale portatrice assoluta di verità. Di qui i dubbi e i tormenti di Pasolini, combattuto fra la propria insopprimibile vocazione critica e pedagogica, che lo spingerebbe a utilizzare ai propri fini questo palcoscenico potentissimo, e la repulsione verso un luogo che ai suoi occhi appare dotato di «un’orrenda autorità»150, rendendo visibile e operante lo spirito del nuovo Potere.