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In effetti, il proclama di Pasolini in merito all’avvento del neoitaliano tecnologico viene contestato sia dal punto di vista prettamente linguistico che sul piano socioculturale; i linguisti, primi fra tutti Cesare Segre e Maria Corti, sottolineano a più riprese la sostanziale fallacia della teoria pasoliniana, ribadendo che il linguaggio tecnologico, in quanto tale, non è che una delle molte varietà costituenti la lingua, fortemente caratterizzata dal punto di vista lessicale ma del tutto incapace di agire in profondità influenzando il complessivo, placido mutamento dell’italiano nel suo complesso.

Da più parti, poi, si tende a precisare la fondamentale divergenza fra «varietà tecnologica» e mentalità scientifica, quella sì in grado di influenzare la lingua in quanto emanazione di una cultura in rapida evoluzione, ma in un arco di tempo ben più ampio di quello considerato da Pasolini:

Il linguaggio tecnologico, nella sua consistenza immediata di elementi lessicali, non è che uno degli infiniti strati che si depositano […] sulla lingua, senza che questa venga fondamentalmente toccata nelle sue strutture. Tutt’altra cosa l’eventuale orientamento verso un modo più razionale (scientifico) di esprimere il pensiero: di cui finora non si colgono che poche tracce nella lingua comune, e che se si affermerà, si affermerà, nel quadro di una sistemazione

89 M. Corti, risposta all’inchiesta della «Fiera letteraria»: Come parleremo domani? Le nostre domande, in O. Parlangeli (a cura di), La nuova questione della lingua cit., p. 309.

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sistematica, e necessariamente lentissima, delle strutture mentali: dopo, e solo dopo, riflessa in quelle linguistiche. […]

Non sarebbe paradosso dire che il linguaggio tecnologico non esiste. […] I tecnicismi – almeno finché non si affermi una vera mentalità scientifica, e per ora non sembra che ciò accada – costituiscono, in seno al linguaggio comune, poco più che una ondata lessicale, la quale sopravviene alle molte altre che la lingua ha facilmente assimilato senza subirne trasformazioni di fondo.91

Sulla stessa lunghezza d’onda Maria Corti, che aggiunge un particolare fondamentale, ovvero la trasformazione che le unità del lessico tecnico scientifico (caratterizzate in origine dalla monoreferenzialità e dalla neutralità emotiva) subiscono entrando a far parte del serbatoio della lingua comune, dove «perdono la loro univocità, si caricano di significati esistenziali, divengono passibili di uso metaforico»92; resiste

dunque la dialettica comunicatività-espressività, (che Pasolini considera erroneamente come due elementi antitetici, in contrapposizione polare, dando per assodato l’imminente prevalere, nella neo-lingua tecnologica, del «fine comunicativo su quello espressivo») «sì da far apparire precipite verso l’astratto la figurazione di una lingua futura dissolventesi in puri codici»93; secondo la studiosa, infatti,

una lingua in via di unificazione ed unificata ha da mantenere il contrappunto dei linguaggi specializzati, con la loro forza centrifuga e il loro repertorio di alternative; una lingua unificata puramente comunicativa è prevedibile solo al limite del mutarsi della umana natura pertinente a chi parla o scrive94.

Come si già in precedenza sottolineato, è chiaro che il discorso pasoliniano, dai tratti iperbolici e provocatori, è stato spesso recepito, analizzato e contraddetto soffermandosi sui dettagli tecnici (talvolta solo abbozzati, lacunosi e imprecisi) piuttosto che sul quadro generale; in effetti, sia pur impiegando con una certa leggerezza termini come «diacronia», «comunicazione» o «espressività», Pasolini cerca di esporre nel modo più “scientifico” possibile ciò che egli avverte con i propri mezzi di scrittore, sforzandosi quindi di dimostrare oggettivamente il fulcro del suo discorso, ovvero la crisi della letteratura e della lingua tradizionale, specchio di una società e di un’umanità profondamente travagliate; di qui la sua fuga in avanti, la sua intuizione, certo azzardata e ancora nebulosa, di un mutamento culturale-linguistico che egli avverte come assai più incombente di quello che sia in realtà.

Pasolini non intendeva certo dire, come taluni critici hanno creduto, che nel tempo il lessico tecnologico avrebbe finito col prevalere e col sostituirsi a tutto il lessico italiano. Ciò che allo scrittore interessa è il «principio di modifica», la capacità della lingua tecnologica di modificare

91 C. Segre, La nuova «questione della lingua» cit., p. 437 e 441-442.

92 M. Corti, risposta all’inchiesta della «Fiera letteraria»: Come parleremo domani? Le nostre domande cit., p. 306. 93 M. Corti, La nostra lingua: come funziona cit., p. 334.

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dall’interno gli altri codici linguistici: nel tempo […] anche gli altri codici avranno i caratteri della funzionalità e della strumentalità […] La strumentalità e la funzionalità sono caratteri pragmatici perché badano, più che al mezzo, al fine che si vuole ottenere. E il fine, nella società dei consumi, è il consumo: tutto viene piegato e plasmato per ottenere questo fine. Quindi non occorre neanche un’azione ideologica per giustificare il consumo: questo fine si giustifica da sé.95

Un altro nodo ampiamente discusso della riflessione pasoliniana è poi la supposta diretta derivazione dei processi omologativi della lingua da una nuova mentalità tecnologica tipica della borghesia neocapitalistica; si tratta in effetti di una questione, di tipo sociologico, su cui molti altri intellettuali hanno replicato a Pasolini, discutendo sia dell’equazione lingua tecnologica/borghesia neocapitalista che sull’esistenza di «un “pensiero” neocapitalista o neoborghese così originale e così espansivo da imporsi come modo di pensare unitario»96.

Mario Spinella, ad esempio, da un lato giudica «una linea di analisi sociologica del tutto insufficiente» quella che prevede la riduzione di tutti i processi, anche quelli «strettamente linguistici, all’egemonia borghese e capitalistica»97, dall’altro cita Marx,

secondo il quale «la lingua è l’espressione diretta del pensiero»98, per contestare la reale

esistenza di un solido pensiero neocapitalista di esclusivo appannaggio della classe borghese. Anche Cesare Segre condivide i suoi dubbi, quando afferma che:

il neocapitalismo ha una grande forza (quella economica) e una grande debolezza (quella delle idee: si pensi ai partiti in cui esso si esprime, ai giornali che finanzia, alle paure che nutre). Che esso possa divenire promotore di civiltà mi pare dubbio, e il dubbio mi rallegra)99.

Quest’idea di Segre è poi ripresa anche da Maria Corti, che ribadisce come le cause dei processi di standardizzazione e automatizzazione della lingua non siano tanto da ricercare nella realtà industriale/tecnologica, che può anzi farsi promotrice di una nuova e fertile mentalità tecnico-scientifica (questa sì in grado di «influenzare la “forma interna” delle varie lingue»100 funzionando da elemento unificante) quanto

nell’affermazione «di una cultura conformista di tipo standard le cui radici stanno in una penosa realtà sociale e politica.»101; evidentemente, però, la studiosa manca di cogliere il

nesso fra lo scenario sociopolitico a cui si deve questa «cultura conformista» e l’affermazione della borghesia neocapitalista, che mediante il controllo della vita politica e dei mezzi di comunicazione ha deformato i tradizionali rapporti sociali subordinandoli

95 F. Ferri, Linguaggio, passione e ideologia cit., p. 223-224. 96 M. Spinella, Linguistica e sociologia cit., p. 182

97 Ivi., p. 184. 98 Ivi, p. 182.

99 C. Segre, risposta all’inchiesta della «Fiera letteraria»: Come parleremo domani? Le nostre domande, ora in O. Parlangeli (a cura di), La nuova questione della lingua cit., p. 263.

100 M. Corti, risposta all’inchiesta della «Fiera letteraria»: Come parleremo domani? Le nostre domande cit., p. 307. 101 Ivi, p. 306.

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alle necessità del consumo, ha imposto un’unica forma di pensiero collettivo e ha sopraffatto e livellato tutte le culture particolari e le loro millenarie memorie.

Più ampia l’analisi di Angelo Guglielmi, che stabilisce una differenza sostanziale tra capitalismo e neocapitalismo: infatti, se il primo era stato in grado di produrre una sua cultura (anche se si era trattato di una cultura forgiata e imposta dall’élite dominante), il secondo non appare affatto in grado di sviluppare un pensiero e una cultura autonomi, ma solo capace di fomentare un’industria culturale, che provvede a creare modelli culturali e linguistici standard da imporre alla nuova tipologia di uomo medio nato nelle società neocapitalistiche. Questo è un soggetto vacuo e inconsistente, un uomo non reale, i cui bisogni non sono autonomi, ma vengono generati e soddisfatti all’interno del sistema sociale: il neocapitalismo infatti, in quanto avanzamento e degenerazione del capitalismo, non si limita più a suscitare nuovi bisogni ma arriva a produrli in proprio, privando gli individui non solo della curiosità intellettuale ma anche della consapevolezza di sé.

Allora, anche l’unificazione linguistica in atto non fa che diffondere una lingua «apparentemente essenziale ma sostanzialmente povera, stereotipa, standardizzata»102, che

non costituisce affatto l’esito di un reale processo di unificazione culturale (avviato da una classe egemone ma derivante dall’interazione fra le differenti classi) , bensì l’ennesima opera mistificatoria dell’industria culturale (che si avvale del potere dei mezzi di comunicazione di massa e della pubblicità), creata per occupare «il vuoto rappresentato dalla notoria assenza di una cultura nazionale e quindi di una lingua nazionale»103.

Tutte queste riflessioni, che contraddicono o puntualizzano le tesi di Pasolini, sono poi concordi nello smentire la sua dichiarazione secondo cui «la nuova borghesia tecnocratica (con tendenza fortemente egemonica) sia insieme irradiatrice di potere economico, cultura e quindi lingua»104, alla quale si ribatte da più parti (Eco, Dallamano,

Spinella) riecheggiando il postulato marxista secondo cui «la lingua non è una sovrastruttura prodotta dalla base economica della società, per cui destinata a mutare quando cambi questa ultima»105; alla prospettiva pasoliniana si oppone quindi l’idea che la

lingua non venga imposta all’insieme della nazione da una classe egemone, ma derivi dall’interazione, anche conflittuale, fra le diversi componenti della società.

In realtà, l’ottica di Pasolini non è affatto quello di un meccanismo deterministico che lega la struttura alla sovrastruttura (sebbene gli sia stato rimproverato di fare un uso

102 A. Guglielmi, risposta all’inchiesta della «Fiera letteraria»: Come parleremo domani? Le nostre domande, ora in O. Parlangeli (a cura di), La nuova questione della lingua cit., p. 285.

103 Ibidem

104 P.P. Pasolini, L’italiano è ancora in fasce cit., p. 192 105 P. Dallamano, Gli orfanelli della lingua cit., p. 133.

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impoverito, scarnificato e deterministico delle categorie marxiste), ma al contrario si fonda proprio sulla constatazione della mancata realizzazione dello scambio culturale/linguistico fra le diverse classi, attribuibile da un lato alla cecità della borghesia risorgimentale e poi clerico/fascista, dall’altro al radicale mutamento socio-antropologico degli anni Sessanta, pronto a spazzare via tutti i modelli tradizionali dei rapporti umani e sociali.

La visione pasoliniana, dunque, lungi dal dimostrarsi parziale e semplicistica, si apre alla considerazione sociolinguistica di «un parlante immerso nella cultura linguistica nativa ed esposto a processi di omologazione straniante, ma dotato sia di adattabilità ambientale che di capacità reattiva»106; l’idea fondante della sua analisi linguistica e

sociologica è quindi la percezione di un travolgente mutamento culturale, le cui radici sono sì socioeconomiche, ma il cui carattere più sconvolgente è l’assenza di basi ideologiche, la perfetta autosufficienza, da cui discende la mostruosa capacità di «trasformare socialmente, psicologicamente e linguisticamente gli individui sociali.»107

Del resto non manca chi, come il linguista Tiziano Rossi, già al tempo delle Nuove questioni linguistiche riesce a sorvolare sulle imprecisioni formali contenute nelle dichiarazioni di Pasolini, cogliendo ciò che di più acuto e lungimirante il suo discorso può offrire. In questo senso, Rossi riprende l’idea pasoliniana (e gramsciana108) della

dipendenza dei fatti linguistici dalle direttive del potere, pur precisando come indubbiamente la lingua possieda una sua dinamica interna e una sua «relativa “rigidità”», per cui la corrispondenza fra la lingua e una classe sociale, sia pure egemone, non va intesa in senso meccanico (e questa è certamente un’opportuna precisazione del pensiero di Pasolini); nondimeno, la borghesia neocapitalistica e tecnocratica svolge (e potrà certo svolgere in futuro) un ruolo significativo nella promozione e accelerazione dell’unificazione linguistica della nazione,

provocando cioè (tramite l’allargata base […] dei parlanti) l’ulteriore semplificazione dello strumento, il superamento delle varietà regionali, lo scioglimento delle ipertrofie sinonimiche e l’arricchimento lessicale di campi finora trascurati. Tramite il boom dell’auto, l’allargamento dei confini della lotta politica e fenomeni analoghi, i vari gerghi tecnici raggiungono un crescente numero di persone e penetrano così più facilmente nel linguaggio quotidiano: […] alle cose inedite (che sono oggi soprattutto quelle della tecnica) corrispondono parole inedite (si verifica cioè un ampliamento del vocabolario corrispondente all’ampliamento delle esperienze, ma non si compie certo una tecnicizzazione formale della lingua nella sua totalità. […] La rivoluzione tecnologica opera anche su un altro piano, cioè come fattore capace di allargare il numero e l’area dei parlanti (storici, differenziati). Costoro se avranno rapporti frequenti e concreti, potranno bruciare

106 A. Sobrero, L’italiano dopo mezzo secolo di tv cit., p. 100. 107 F. Ferri, Linguaggio, passione e ideologia cit., 224.

108 Secondo Gramsci, «ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale. (A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., Quaderno 29, par. 3, p. 2346).

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attraverso l’uso tanti doppioni linguistici ed elaborare con attività spontaneamente selettiva un linguaggio più economico e rapido. Se è poi vero che i nuovi utenti dello strumento linguistico coincidono con nuovi strati sociali capaci di agire concretamente e in modo creativo sulla realtà produttiva e politica […], essi potrebbero presto imprimere nuove direzioni a certe zone della lingua (il fenomeno tecnologico non è infatti qualcosa di definitivo e la lingua non è un monolito che si muova tutto insieme).109

Un intervento del genere è l’esempio di un riuscito tentativo di inquadramento, puntualizzazione tecnica e ampliamento degli stimoli pasoliniani, che non si focalizza rigidamente sulle osservazioni linguistiche dell’autore intese come ferree previsioni, ma ne coglie sia il sostrato contemporaneo che il dinamico quadro dei possibili sviluppi futuri.

Al contrario, ciò che è stato più insistentemente imputato a Pasolini è proprio la mancata realizzazione delle sue tesi in tempi brevi, e anzi una certa incongruenza fra le premesse sociolinguistiche da lui delineate nelle Nuove questioni linguistiche e la successiva evoluzione della sua riflessione in questo campo, incentrata più su questioni quali il declino dei dialetti o l’impoverimento espressivo conseguente all’italianizzazione di massa che sulla diffusione della lingua tecnologica o i tentativi di impiego letterario della neo- lingua comunicativa.

In questo senso, Claudio Marazzini osserva ad esempio come Pasolini abbia progressivamente abbandonato i propositi letterari di metà anni Sessanta, che lo vedevano impegnato nel tentativo di avvicinarsi alla neo-lingua tecnologica per metterla alla prova in senso espressivo (con il già citato progetto della Divina Mimesis, in cui lo scrittore sarebbe dovuto cimentare con l’utilizzo del moderno italiano comunicativo), dedicandosi a «nuove soluzioni […] in aperta contraddizione con i programmi del 1964»110 e non si sia

inoltre curato di motivare, nel corso delle sue irate lamentazioni riguardo al comportamento linguistico dei giovani, «come mai si sia instaurato il modello della gestualità e dell’afasia, laddove il pericolo pronosticato era quello della “comunicatività” e della “brutalità pragmatica”.»111 Altrettanto mal giustificato sarebbe il suo ritorno al

dialetto degli anni Settanta, dopo averne «verificato l’impossibilità oggettiva» già nel decennio precedente e averlo dichiarato «svuotato» e ormai «scomparso»112 proprio fra il

1973 e il 1974. Anche in questo caso, quindi, le pretestuose «ambizioni di oggettività»113

delle meditazioni sociolinguistiche dello scrittore sarebbero da ricondurre alle sue altalenanti esperienze personali e letterarie: tuttavia, a ben guardare, sono piuttosto la

109 T. Rossi, Dati statistici sull’unità della lingua, in O. Parlangeli (a cura di), La nuova questione della lingua cit., pp. 162-163, 165.

110 C. Marazzini, Pasolini dopo le «Nuove questioni linguistiche» cit., p. 65. 111 Ivi, p. 59.

112 C. Marazzini, Pasolini dopo le «Nuove questioni linguistiche» cit., p. 63. 113

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contraddizione e l’incongruenza ad apparire superficiali, se si considera come in realtà, nella prospettiva pasoliniana, l’omologazione linguistica degli italiani in senso brutalmente comunicativo e il conseguente l’annichilimento delle loro facoltà espressive si sarebbe effettivamente realizzata all’altezza degli anni Settanta, seppur con modalità in parte diverse (e ancora più drammatiche) di quelle preventivate nel 1964.

In un’intervista per «Panorama» del marzo 1973, infatti, Pasolini ribadisce con sicurezza le sue opinioni del 1964, trattando come realtà ormai assodate i fenomeni di cui aveva percepito le avvisaglie dieci anni prima:

Oggi si assiste a un fenomeno nuovo e madornale: alla guida dell’italiano non c’è più una lingua della sovrastruttura, ma una lingua dell’infrastruttura. Cioè la lingua delle aziende, del mercato. Quest’ultima è una lingua comunicativa, e semplicemente comunicativa. Chi deve offrire della merce deve farsi immediatamente capire da chi la richiede; chi deve produrre, deve farsi immediatamente capire da chi deve consumare. Nell’ambito della fabbrica, dirigenti e tecnici devono immediatamente capirsi fra loro.

Inoltre, se ci si rivolge alla ‘massa’, il discorso deve essere assolutamente comprensibile: non solo, ma non deve neanche porre il problema della comprensibilità. Dev’essere cioè perfettamente normale (come sono sempre infatti i discorsi nei giornali e soprattutto alla televisione). Se dunque la lingua-pilota è questa, tutto lo spirito dell’italiano tenderà a perdere particolarismi ed espressività per acquistare in comunicatività pura. Si tratta certo di un impoverimento, di una ‘perdita di umanità’.

Quanto ai giovani essi stanno perfettamente adottando questo modo di parlare omologato e tutto uguale: anche coloro che si battono contro la società che lo esprime.114

La tanto detestata lingua della borghesia, contro cui Pasolini si scaglia ferocemente ancora negli anni Settanta, non è altro, infatti, che la lingua della produzione e del consumo, dotata proprio di quelle caratteristiche di brutale comunicatività da lui profetizzate dieci anni prima:

Il linguaggio dell’azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo: i «luoghi» dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene «applicata», sono cioè i luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano fra loro un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende ad espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d’affari assolutamente chiaro.115

In assoluta continuità con questa riflessione saranno poi le addolorate riflessioni sull’affievolirsi della vitalità espressiva del popolo, ridotto a pallido emulatore degli abiti culturali e linguistici piccolo borghesi, così come la polemica in merito alla brutalità pragmatica dei giovani, estrema degenerazione di una condizione linguistica in cui ogni fermento espressivo appare ormai perduto.

114 P.P. Pasolini, Interviste corsare cit., p. 206. 115 P.P. Pasolini, Scritti corsari cit., p. 12.

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Nelle riflessioni posteriori alle Nuove questioni linguistiche, quindi, sebbene Pasolini non torni esplicitamente sui dati da lui illustrati nel 1964, la transizione dell’italiano a lingua comunicativa viene presentato come un fatto ormai compiuto, e inquadrato nel grande processo socioeconomico che ha traghettato l’Italia verso l’era consumistica.

Ciò che Pasolini deve invece constatare suo malgrado è piuttosto l’impossibilità di impiegare tale lingua impoverita e disumanizzata come strumento letterario sperimentale, tanto che, specialmente negli ultimi anni, egli tornerà con sempre maggiore convinzione all’impiego della lingua della «tradizione letteraria e umanistica»116 (in realtà mai

abbandonata), come egli stesso dichiara in apertura alle Lettere luterane, rivolgendosi al suo ideale discepolo Gennariello, emblema di quella fresca gioventù popolare un tempo tanto amata, e ormai drammaticamente scomparsa.

Il mio sogno, nel nostro rapporto pedagogico, caro Gennariello, sarebbe di parlare napoletano. Purtroppo non lo conosco. Mi accontenterò dunque di un italiano che non abbia nulla a che fare con quello dei potenti e degli oppositori ugualmente potenti. L’italiano di una tradizione colta e umanistica: senza temere una certa «maniera», che in un rapporto come questo nostro, è inevitabile.117