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1.3.1 «La loro lingua è la lingua della menzogna»: potere e corruzione linguistica

1.3.2 Fra le rovine della Dopostoria

Il mondo descritto da Pasolini è il mondo della «Dopostoria»25, il teatro dell’irrealtà

neocapitalistica, dove solo chi si omologa sopravvive: nelle Lettere luterane lo scrittore afferma infatti che «il consumismo ha distrutto cinicamente un mondo “reale”, trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile fra male e bene»26;

per Pasolini, allora, si fa sempre più pressante la necessità di distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, di tematizzare cioè la sua personale verità per opporla all’indeterminatezza ideologica e morale della massa.

Egli è ormai perfettamente consapevole dell’impossibilità di un accesso diretto alla realtà in questo mondo di finzione (nel 1975, scrive l’Abiura della Trilogia della vita, dove dichiara che «se anche volessi continuare a fare film come quelli della Trilogia della vita, non lo potrei. […] Anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata,

22 P.P. Pasolini, Una disperata vitalità, in Id, Poesia in forma di rosa cit., p. 746. 23 P.P. Pasolini, Lettere luterane cit., p. 73.

24 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 33. 25 P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa cit., p. 24. 26 P.P. Pasolini, Lettere luterane cit., p. 185.

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manomessa dal potere consumistico»27), per cui dedica tutto se stesso a un tentativo di

penetrazione linguistica della realtà esterna, fiducioso nel potere ancestrale della parola. Essa, infatti, con la sua sacralità, può infatti ancora risemantizzare la realtà, renderla in qualche modo comprensibile, interpretabile, affrontabile, così da poter agire efficacemente su di essa per combatterne la «convenzionalizzazione incombente»28.

Negli interventi degli ultimi anni, infatti, Pasolini torna a più riprese sulla questione della falsità/trasparenza del linguaggio, rivendicando una funzione forte della parola («le cose vanno dette non solo chiaramente, ma anche sinceramente»29) rispetto a una lingua

che, nei salotti borghesi, si fa invece chiacchiera, incultura, pettegolezzo, moralismo, conformismo.

Egli scorge in questa lingua “finta”, dominata dall’allusività e dalla reticenza, gli stessi elementi di irrealtà che caratterizzano la società moderna, asservita al pensiero borghese: si tratta di una lingua che, per citare Calvino, «serve più a non dire che a dire»30,

dove i significati sono sempre lontani e sfuggenti, nascosti sotto un cumulo di perifrasi, tautologie, frasi fatte e tecnicismi che hanno ormai perso qualsiasi pregnanza semantica.

Di questa «lingua della menzogna» egli ravvisa il modello esemplare nella lingua dei politici, un vaniloquio repellente al servizio esclusivo del «nuovo Potere»:

I potenti democristiani che in questi anni hanno detenuto il potere dovrebbero andarsene, sparire, per non dire di peggio. Invece non solo restano al potere, ma parlano.

Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non la si può ascoltare. Bisogna tapparsi le orecchie31.

È proprio a partire da testi del genere, dove la denuncia del disfacimento sociale e culturale passa attraverso un’acuta sensibilità linguistica, che è possibile evidenziare la straordinaria capacità, mostrata dallo scrittore, di cogliere il nesso strettissimo che esiste fra un codice linguistico e la vita sociale e intellettuale di una comunità; per lui, infatti, la lingua è sempre «la spia dello spirito»32, il fulcro della vita stessa, individuale e collettiva,

oltre che lo strumento primario di intervento nella realtà.

27 Ivi, p. 85.

28 C. Benedetti, Pasolini contro Calvno cit., p. 179. 29 P.P. Pasolini, Interviste corsare cit., p. 260.

30 I. Calvino, Una pietra sopra, Milano, Mondadori 1995, p. 152. 31 P.P. Pasolini, Lettere luterane cit., p. 41.

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Così, all’intellettuale/poeta, ritardatario rispetto agli sviluppi della modernità e unico superstite di passato dimenticato, è demandato il ruolo di «creare artificialmente lo stato d’emergenza contro la normalità»33:

Il primo dovere degli intellettuali, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni loro parola, di ribrezzo e di condanna. In altre parole, il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione soffocano […] l’Italia.

La regressione e il peggioramento non vanno accettati […] Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile.34

Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani […] Il rifiuto, per funzionare, deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o su quel punto, “assurdo”, non di buon senso.[…] 35

Allora, esponendosi sempre in prima persona, da artista molto più che da moralista, egli condanna, denuncia ma soprattutto spiega, ripete, torna ancora e ancora sugli stessi temi, accumula affannosamente parole su parole in un’ansia nomenclatoria che sembra rispondere al bisogno primario di definire il reale per renderlo di nuovo vicino, comprensibile, tangibile.

Negli ultimi anni, infatti, un’oratoria enfatica travolge tutti i suoi testi, da quelli giornalistici a quelli poetici, in una «sterofonia di voci»36 che, nel profondo, paiono

convergere nella composizione di un ultimo, struggente «inno alla vita»37, pur all’interno

di una spietata denuncia sociale e di una rappresentazione apocalittica del presente.

Gli Scritti corsari, le Lettere luterane, gli altri articoli pubblicati postumi con il titolo (d’autore) Descrizioni di descrizioni, assieme a Petrolio e a Salò, sono i singoli e solidali tasselli di un’immagine del mondo che può scaturire solo dalla capacità di rimettersi in gioco, di non servirsi mai di quello che già è stato fatto per pregiudicare ciò che ancora resta da fare. Come tutti sappiamo, questa ultima immagine del mondo è condizionata da un profondo, irrimediabile pessimismo politico e antropologico. Quello che Pasolini vede intorno a sé non ha che l’aspetto esteriore del progresso. Ma è solo omologazione, pubblicità, dittatura dei consumi e del consenso. Non c’è un’altra parola che più di «genocidio» possa definire il contenuto di questa spietata diagnosi.38

Eppure, quel che rimane nello scrittore dopo il crollo di ogni illusione, non è tanto un’allucinata indifferenza verso ciò che lo circonda, né una cupa alienazione da ogni forma di coinvolgimento nelle proprie stesse battaglie, quanto un impressionante attaccamento

33 P.P. Pasolini, Le belle bandiere cit., p. 221. 34 P.P. Pasolini, Lettere luterane cit., pp. 41-42, 40. 35 P.P. Pasolini, Interviste corsare cit., p. 293. 36 M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi cit., p. 160.

37 G. Marramao, Corpo, potere e tempo nell’opera di Pasolini, in A. Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 73.

38 E. Trevi, L’esordio infinito di un sovversivo, http://www.corriere.it/la-lettura/pier-paolo- pasolini/notizie/pasolini-anniversario-morte-emanuele-trevi-4934d894-7c8e-11e5-8cf1-

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alla vita, una lotta accanita per preservarla, anche e soprattutto nella consapevolezza dell’ineluttabilità della disperazione:

Quando tutto il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo, allora la nostra storia sarà finita. In questo irriconoscibile sole, incomincia la nuova preistoria.39

In effetti, «se tutto è morto, tutto è di nuovo possibile»40, e la chiave della rinascita

è ancora una volta la parola: una parola poetica che si fa parola critica, al fine di conferire un senso nuovo al passato rovesciandolo «in negazione attiva di un presente senza futuro»41.

Così, fino all’ultimo giorno di vita, fino all’ultima intervista, Pasolini si accanisce a distinguere il bene dal male, e mette in gioco tutto se stesso per mostrare agli italiani la trasformazione che li affligge, affinché vivano questa condizione «consapevolmente», anziché subirla «esistenzialmente»42. Ancora la sera precedente la sua morte, lo scrittore

afferma la sua volontà di cambiamento, ancora possibile, nonostante la drammaticità dello scenario circostante, a patto di una reale «chiusura» con tutto ciò che egli giudica ormai esaurito: «chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione.»43 Solo così sarà possibile,

forse, «essere progressisti in un altro modo» e, magari, inventare una nuova maniera di essere liberi»44.