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2.1 «La mia vita intera è cosparsa di parole chiave»: un’avventura linguistica

2.1.3 Pasolini, il pubblico e la parola «performativa»

La raccolta di neo-formazioni lessicali fin qui tratteggiata può bastare a rendere l’idea della fervente inventiva linguistica dell’autore, che davvero, novello Adamo, è continuamente preda dell’irrefrenabile bisogno di «mettere il nome a tutto ciò che vede o sente»71: tuttavia, parallelamente a questa tensione, se ne avverte sempre anche un’altra,

che corrisponde al suo implicito desiderio di creare un rapporto intimo, profondo con i suoi destinatari; certo, si è visto come la sua idea di pubblico muti sensibilmente nel corso degli anni: dalla prospettiva (ancora viva negli anni Sessanta) di un’élite intellettuale borghese in grado di cogliere e recepire il suo messaggio, anche sottoponendosi a una certa fatica intellettuale, si passa progressivamente all’immagine di una collettività indistinta e amorfa cui avvicinarsi mediante un titanico sforzo unidirezionale, nella lucida consapevolezza della natura utopistica della sua impresa.

Si osservi come Pasolini, nel 1962, in risposta a un lettore di «Vie Nuove» che gli rimproverava un uso troppo frequente di «grossi paroloni, che per conoscerne il significato bisogna andare a sfogliare un dizionario o una enciclopedia»72, riaffermasse

ancora con forza la necessità di uno sforzo da parte dei suoi interlocutori per la comprensione di un lessico in parte specialistico, e continuamente rinnovato, indispensabile per la trattazione di temi complessi e la descrizione di una realtà in costante evoluzione:

È vero, spesso uso dei «paroloni», ossia delle parole tecniche difficili — per inerzia, per abitudine. Questo è il mio linguaggio consueto, ormai: il mio linguaggio tecnico, gergale, di lavoro.

70 P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa cit., p. 181. 71 G. Pascoli, Pensieri e discorsi cit., p. 12. 72 P.P. Pasolini, Le belle bandiere cit., p. 236.

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Ma mi sembra un po’ qualunquistica la tua richiesta di semplificazione e di riduzione linguistica da parte mia. So bene che le cose sono tanto più chiare quanto più sono vere. Ma non sempre la verità è integrale verità: spesso essa è verità nascente, involuta, contaminata con false verità o verità superate.

Il suo equivalente linguistico, quindi, non sempre può essere la chiarezza, la integrale chiarezza. E allora nella ricerca della verità, chi si esprime ha il diritto di passare attraverso le più appassionate complicazioni: e l’interlocutore ha il dovere di adattarvisi, di adeguare il suo sforzo a quello di chi si esprime. Io non posso pretendere, qui, di essere didattico o enciclopedico; di insegnare qualcosa a dei diligenti ascoltatori. Io desidero discutere: e ciò mi costa fatica, il che, poi, mi dà diritto di pretendere un po’ di fatica anche dai miei lettori. La conoscenza di parole nuove — e quindi di concetti difficili — la conoscenza di allocuzioni generali nuove — e quindi di un mondo specializzato e diverso — non deve spaventarti: non deve farti appellare, demagogicamente, a una semplicità falsamente salutare e diretta.73

Eppure, è alquanto evidente come il Pasolini che dialoga con i lettori di «Vie Nuove» o che, più tardi, tiene la rubrica «Il caos» sul settimanale «Tempo», impieghi in realtà un linguaggio il più possibile lineare e comprensibile, pur facendo naturalmente uso di termini appartenenti ai vari linguaggi settoriali laddove necessario; si osserva però come, coerentemente con questo proposito di attenzione per il destinatario, nei dialoghi con i lettori o nelle interviste non si incontrino quasi mai i neologismi così frequenti negli scritti saggistici, indirizzati a un pubblico specializzato.

In effetti, in tutta la produzione dell’autore, il rapporto con il destinatario implica una particolare premura linguistica, che governa il grado di «complicatezza» del linguaggio autoriale; lo scrittore muove sempre infatti da una concezione «democratica» del rapporto autore-lettore o regista-spettatore, legati proprio da un patto linguistico, come egli stesso ribadisce più volte:

Se dunque parliamo di opere di autore, dobbiamo di conseguenza parlare del rapporto tra autore e destinatario come di un drammatico rapporto tra singolo e singolo democraticamente pari. Lo spettatore non è colui che non comprende, che si scandalizza, che odia, che ride; lo spettatore è colui che comprende, che simpatizza, che ama, che si appassiona. Tale spettatore è

altrettanto scandaloso che l’autore: ambedue infrangono l’ordine della conservazione che chiede o il

silenzio o il rapporto in un linguaggio comune e medio.74

La fedeltà pasoliniana a questo patto con il pubblico è tale che, nonostante l’«implacabile meschinità mentale della cultura media»75 lo renda sempre più un «pubblico

nemico»,76 ancora sul finire degli anni Sessanta egli non appare disposto ad abbandonare

un dialogo che tuttavia sta diventando sempre più a senso unico, al punto da fargli dichiarare la volontà contraddittoria di far recepire il suo messaggio al destinatario malgrado

73 Ivi., pp. 238-239.

74 P.P. Pasolini, Empirismo eretico cit., p. 171. 75 P.P. Pasolini, Il caos cit., p. 137.

76 Nel 1968, Pasolini scrive nel suo Manifesto per un nuovo teatro: «Il destinatario è uno contro cui polemizzo, contro cui lotto. Il destinatario è il mio nemico».

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la sua stessa negligenza.

Invece, non smetto ancora di scrivere questa rubrica e non mi arrendo: io ho di fronte a me un destinatario ideale, e questo destinatario ideale è un singolo in tutto pari a me (parità democratica). Questa è la realtà; anche se il mio corrispondente non vuole intendere, egli in realtà

intende malgrado se stesso. Infatti come cittadino italiano medio egli è incapace di capire, falsamente

modesto e falsamente obiettivo: ma come «cittadino» tout court, connotato e singolo, egli è capace di capire, sinceramente modesto e sinceramente obiettivo. Questo io credo fermamente: perciò non c’è delusione nei miei rapporti umani e politici - per quanto atroce - che possa definitivamente scoraggiarmi.77

Nondimeno, il Pasolini degli anni Settanta scivola lentamente verso la presa di coscienza della trasformazione dell’intera società in una folla dai tratti amorfi e inquietanti, all’interno della quale sembrano ormai perdute le tracce di quegli interlocutori illuminati con cui dialogare e polemizzare, ossia stabilire un rapporto alla pari:

Guardo la folla e mi chiedo: «Dov’è questa rivoluzione antropologica di cui tanto scrivo per gente tanto consumata nell’arte di ignorare?» E mi rispondo: «Eccola». Infatti la folla intorno a me, anziché essere la folla plebea e dialettale di dieci anni fa, assolutamente popolare, è una folla infimo-borghese, che sa di esserlo, che vuole esserlo.

Dieci anni fa amavo questa folla; oggi essa mi disgusta.78

Che fare allora, «dove vivere», se si è circondati da una realtà e un’umanità ormai inconoscibili? In molti hanno visto nell’ultimo Pasolini una rinuncia all’interazione diretta con l’“altro-da-sé”, una vocazione al suicidio intellettuale dovuta proprio alla perdita della fede nella parola:

Il dibattito pasoliniano diviene il luogo di una dizione straniata, completamente priva di un destinatario: come se Pasolini pronunciasse i suoi temi scavalcando il pubblico che si trova davanti. […] Pasolini parla sì agli altri, ma nello stesso tempo non si fa prendere dal flusso delle sue parole, le lascia fluire, resiste a quello che dice, indifferente alle verità che proclama, in una doppiezza senza fine che nasconde la persuasione della propria solitudine in un perfetto presente, al di là di tutto il riconoscimento sociale e l’interscambio comunicativo79.

A questa sopravvenuta incomunicabilità col pubblico si è infatti attribuito un ripiegamento di Pasolini sull’arte disimpegnata della «descrizione»80 o, più in generale,

l’esasperazione del suo «manierismo», precedentemente inteso come «desiderio di rinvenire, nella caotica pluralità di modelli pur infedelmente rivisitati, utili contravveleni a una sempre più iniqua, magmatica realtà»81, ma in seguito volto solo alla celebrazione del

ruolo «etico e religioso» dell’autore

non più nel tentativo di rendere politicamente spendibile, qui e ora, la tradizione

77 P.P. Pasolini, Il caos cit., pp. 137-138. 78 P.P. Pasolini, Lettere luterane, p. 92.

79 R. Rinaldi, Dell’estraneità: tra il giornalismo e il saggismo dell’ultimo Pasolini, in «Sigma», XIV (1981), 2-3, p. 95, p. 106.

80 Cfr. il volume pasoliniano Descrizione di descrizioni, Milano, Garzanti 2006. 81 A. Tricomi, Né ragazzini, né altri. Nessuno salverà il mondo. cit., pp. 89-90.

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umanistica per interlocutori, fattisi giustappunto irrintracciabili, ancora capaci di opporsi all’ordine istituito, ma nella disillusa, dolorosamente umoristica matrice di cataloghi, idealmente inesauribili, in cui trovino ospitalità, museificati, quei trascorsi letterari e quei criteri ermeneutici rovinosamente eclissatisi.82

Contro questa idea di un manierismo pasoliniano «postumo, in cui cioè si esprime «un’idea dell’arte come residuo» («una volta c’era la letteratura, che aveva un ruolo nella formazione delle coscienze e dei modelli di vita; ora c’è solo un resto, un residuo postumo, verso cui possiamo nutrire una passione inattuale»83) si scaglia con forza Carla Benedetti

che, al contrario, elegge Pasolini a simbolo di una faccia critica della postmodernità, che contempla l’esaurimento dell’arte e della storia come interruzione della «cattiva infinità del moderno»84, ovvero della sua pretesa di essere nella storia e di avanzare con essa, per

accettare la morte della letteratura e la conseguente riapertura dell’universo dei possibili.

Pensarsi come esaurita permette allora all’arte di riaprire le vie che la modernità aveva chiuso, […] pensarsi morta può essere insomma per la letteratura qualcosa di molto produttivo che rilancia la ricerca artistica. Ma può anche essere, al contrario, qualcosa che spinge all’accettazione di una letteratura tutta chiusa nella sua sfera separata, autoreferenziale e ormai in gran parte coestensiva all’industria culturale. Tentare di forare questa sfera, per rilanciare l’arte della parola oltre la sua cornice istituzionale, verso ciò che sta fuori di quel gioco depotenziato che è ormai diventato la letteratura, era appunto il rovello dell’ultimo Pasolini.85

Al contrario, Nicola Merola scorge piuttosto nella vocazione dell’ultimo Pasolini all’«esercizio pubblico dell’intelligenza», necessariamente volatile, in quanto «indissolubilmente legato al momento dialogico e alla sua flagranza»86, una deliberata

scelta di fornire al pubblico «una scorciatoia per la fruizione della sua opera»87, che finisce

per sminuirne l’importanza rispetto all’esibizione di sé dell’autore, alla sua onnipresenza sui giornali e in televisione, in ultimo alla costruzione del suo stesso mito. Alla presenza di un Pasolini volatile, inafferrabile poiché presente solo nell’estemporaneità dei suoi interventi giornalistici sempre più fitti (e pertanto «impossibile da riconsegnare alle sue opere»88), sembra legata quindi la sua volontà di costruzione di un «personaggio» dietro al

quale scompaiono il poeta, lo scrittore, il saggista, i cui testi sono ormai relegati a una condizione di illeggibilità da parte di un pubblico sempre più incapace di instaurare una reale comunicazione con l’autore.

Mentre si rendevano autonomi e acquistavano un rilievo crescente il suo cinema e la sua attività giornalistica, le sue opere letterarie si caratterizzano per l’incompiutezza, l’incontenibile

82 Ivi, p. 90.

83 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., pp. 194-195. 84 Ivi, p. 193.

85 Ivi, pp. 193-194, 199-200.

86 N. Merola, Pasolini e la modernizzazione cit., p. 19. 87 Ibidem

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proliferazione, l’ostentata negligenza e la più metodica instabilità […].89

Merola vede quindi nell’esibizione, da parte di Pasolini, della rinuncia «alle prerogative aristocratiche di una letteratura autoreferenziale»90, una cessazione della

fiducia nella Parola autoriale e nella sua capacità di lacerare il pensiero massificato, che determina da un lato il ripararsi nell’ostentata incomprensibilità dei testi poetico-letterari, dall’altro un adeguamento quasi conformistico del «personaggio» giornalistico o televisivo alla «normalità» dei suoi interlocutori, pur denunciata con tanta veemenza.

In realtà, questa prospettiva critica, sull’onda della volontà di demistificazione dell’ingombrante mito di Pasolini creatosi in seguito alla sua morte91, rischia di scambiare

per un effetto della sua smania di protagonismo quella sovraesposizione che va invece imputata a un sistema culturale in grado di divorare e rigurgitare anche ciò che più gli è alieno, per cui anche «chi si staglia come un simbolo della più anarchica libertà di pensiero» finisce, suo malgrado, «per fare il gioco del Potere»92.

Bisogna stare sempre attenti a non confondere Pasolini con quella figura del profeta di sventure che già ai suoi tempi è tutta interna all’industria culturale, abilissima a trasformare in merce ogni forma di protesta, destituendola alla fine di credibilità e autenticità.93

Pasolini, in realtà, ben consapevole della natura contorta del proprio nemico, se accetta di prestare il fianco alle sue strumentalizzazioni, lo fa nell’ottica di poterlo a sua volta strumentalizzare, così da poterlo danneggiare dal di dentro: una lettura dell’ultimo Pasolini che invece riduca la sua figura di «custode del logos», intento a un ambiguo e complesso braccio di ferro con l’industria culturale, a un «personaggio» mediatico interamente dedito alla propria mitizzazione, finisce per costringere l’autore in un ruolo fondamentalmente contrario a ciò che trapela non solo dalle sue dichiarazioni, ma dall’evidenza stessa delle sue opere.

In effetti, l’illeggibilità, o la non-finitezza di molti dei suoi ultimi testi, più che costituire un atto di sfida verso i lettori o una «fuga dalla letteratura» dell’autore, sembrano rispondere proprio alla sua amara consapevolezza dell’asservimento della letteratura ai

89 Ivi, p. 15. 90 Ivi, p. 13.

91 È lo stesso Merola a sottolineare come, «accanto al libro che raccoglie gli atti della interminabile persecuzione» subita da Pasolini fino alla tragica morte, «un altro se ne potrebbe assemblare dallo sforzo collettivo (se lo sono addossato le migliori intelligenze, da Fortini a Sanguineti) da allora teso a esorcizzare il suo irresistibile successo postumo e in particolare il ruolo inquietante che in esso continuava a giocare uno stile comunicativo fin troppo spregiudicato.»; N. Merola, Pasolini e la modernizzazione cit., p. 14; sullo stesso tema cfr. anche A. Tricomi, Orfani o carnefici di Pasolini?, in A. Canadè cit., pp. 41-59.

92 A Tricomi, Orfani o carnefici di Pasolini? cit., p. 50.

93 E. Trevi, L’esordio infinito di un sovversivo, http://www.corriere.it/la-lettura/pier-paolo- pasolini/notizie/pasolini-anniversario-morte-emanuele-trevi-4934d894-7c8e-11e5-8cf1-

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dettami dell’industria culturale, cui egli tenta (almeno in parte) di sfuggire rifiutandosi di confezionare oggetti estetici consumabili in quanto tali e inscrivendo quindi le sue ultime opere «nella modalità del potenziale e dell’intenzionale»94. Lo scopo degli ultimi testi

letterari di Pasolini (pubblicati incompiuti o rimasti inediti) non è allora l’illeggibilità in sé e per sé, ma è piuttosto quello, più profondo, di allargare «il recinto della letteratura»95 per

stabilire di nuovo un rapporto, seppur atipico e anticonvenzionale, fra essa e il mondo. Quanto alla presenza di un autore sempre sulla scena, o alla «sparizione» dell’opera all’interno della mitologia dell’autore, è indubbiamente condivisibile la volontà di sottrarre Pasolini a intenti celebrativo-propagandistici che si traducono nel «facile smercio di qualunquistici saperi mercificati»96 o in una «monumentalizzazione addirittura grottesca

della natura del suo impegno civile»97: in questo senso, è certamente utile il richiamo

espresso, fra gli altri, da Antonio Tricomi, a riscoprire l’effettiva sostanza del grande «macrotesto e intertesto pasoliniano»98, proprio affinché esso non sia considerato, come

troppo spesso succede, accessorio rispetto alla debordante figura dell’autore. Tuttavia, come osserva Enzo Golino già nel 1995,

Non sarà stata la fortuna di cui gode tuttora il personaggio Pasolini […] ad accentuare la perentorietà dei toni negativi da parte di quanti si adoperano a ridurre il presunto monumento PPP a misure terrene prive di aureole santificanti e di aure leggendarie? […] E più aumentano le occasioni in cui pubblicamente si parla di Pasolini, più si avverte il bisogno – quasi fosse una misura terapeutica – di valutare drasticamente le sue effettive qualità, liberate dalla nebbia mitogena che […] un certo pasolinismo d’accatto continua a sprigionare.99

D’altra parte, non si può negare che Pasolini, «illuminista carnale100, «nella sua

«frenetica espansione di imperialismo estetico per imprimere il proprio sigillo sulla realtà», abbia talvolta

ceduto suo malgrado al grigiore dell’impoeticità, alla stentorea ridondanza di un io onninvadenete, o a quel peccato che ogni artista dovrebbe evitare e che si può scolpire con le parole di Clemente Rebora a proposito della modernità: «L’inaudito è commesso, il fatto annulla la parola»101

94 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 162. 95 Ivi, p. 19.

96 A. Tricomi, Orfani o carnefici di Pasolini? cit., p. 46. 97 Ivi, p. 47.

98 Ivi, p. 57.

99 E. Golino, Tra lucciole e palazzo, Palermo, Sellerio 1995, p. 17.

100 Ibidem. Golino ripropone qui una definizione di Alberto Asor Rosa, che la giustificava così: «Tanto è forte e pesante la pulsione che gli proviene dai recessi più segreti dell’essere, quanto lucida, rigorosa, brillante, perfino in certi momenti sofisticata la forza della sua argomentazione»; A. Asor Rosa, Prefazione a P.P. Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. VIII.

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Allora, sebbene la natura gestuale dell’autore-Pasolini sia alla base di un rapporto talvolta sbilanciato fra il fatto e la parola, ciò non appare dovuto tanto a una teatralità finalizzata all’autopromozione, quanto piuttosto alla sua percezione «dell’opera come una performance in cui è coinvolta la persona dell’autore come essere in carne e ossa, che parla e agisce nel “mondo reale”»102.

Il fatto è che in Pasolini il metodo della conoscenza non può essere mai separato dai suoi contenuti. Potremmo definire questo metodo erotico, non solo e non tanto alludendo alle abitudini sessuali, ma perché il corpo e la mente non vanno mai separati, procedono verso una verità che sfugge sempre alla sua cristallizzazione, e va interrogata, toccata con mano, giorno dopo giorno e notte dopo notte.103

Nell’esperienza artistico-esistenziale di Pasolini, quindi, la vita si fa scrittura e la scrittura si fa azione, poiché la parola stessa, oggettivata in un immenso accumulo di linguaggi, è chiamata a «scoprire nuove possibilità di cambiare il modo di partecipazione all’esistenza attraverso l’esistenza stessa»104: essa, quindi, non solo deve definire e

interpretare la realtà, ma anche essere in grado di agire su di essa, in un inestricabile intreccio di lingua, vita e cultura.

Di qui l’impossibilità di scindere, in Pasolini, i vari linguaggi che egli sperimenta (letterario, politico, ideologico, giornalistico, saggistico ecc…) da quell’unica volontà di «creazione di senso»105 (inteso come «capacità di partecipazione alla realtà»106) da cui essi

si originano e, parallelamente, anche di recepire (o confutare) il suo messaggio solo a livello razionale, quando invece, per assimilarlo completamente, è necessario «divorarlo» (meglio se «in salsa piccante»107 come suggerisce Belpoliti), così da percepirne tutta la

forza, la disperazione e l’esplosiva vitalità.

L’intento di Pasolini (evidente soprattutto nella sua produzione più tarda) sembra infatti realmente quello, suggerito da Carla Benedetti, di «fare la spola» tra «i due versanti»108 della letteratura e della vita, proprio per restituire alla parola autoriale la

possibilità di influire nel mondo e sul mondo, anche se al di fuori delle sue consuete modalità: quella dell’ultimo Pasolini rappresenta in questo senso la più ardua delle sfide, proprio per la sua irragionevolezza, poiché lo scrittore tenta di conferire un ruolo e

102 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 140.

103http://www.corriere.it/la-lettura/pier-paolo-pasolini/notizie/pasolini-anniversario-morte-emanuele- trevi-4934d894-7c8e-11e5-8cf1-fb04904353d9.shtml

104 Ivi, p. 270.

105 T. De Mauro, Pasolini critico dei linguaggi cit., p. 266. 106 Ibidem

107M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante cit., p. 12. Questa immagine di “cannibalismo intellettuale” proviene

dal film Uccellacci e uccellini (1966), in cui il Covo, citando un’espressione del filologo Giorgio Pasquali, dice a Totò e Ninetto che «i maestri sono fatti per essere mangiati in salsa piccante».

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un’autorità alla sua Parola (anche e soprattutto a quella poetico-letteraria) proprio nel momento della decadenza di tutta la letteratura a vacua convenzionalità, a gioco autoreferenziale, non più in grado di «veicolare delle esperienze fondamentali per la vita»109; per questo egli sceglie, paradossalmente, di vincolare la sua Parola (anche e

soprattutto quella poetico-letteraria) alla presenza di un autore in carne ed ossa, sottraendola a quelle finalità estetiche che la rendevano autosufficiente e sottomettendola piuttosto al suo debordante, ed enfatizzato, «bisogno di dire»110, per trasformarla in una

«parola corsara», diretta e provocatoria, nel tentativo (presumibilmente vano) di far breccia in un pubblico più che mai restio all’ascolto e al dialogo.

Così, nell’ultimo Pasolini a prevalere non è mai la rinuncia all’azione, ma anzi la sua totale (e paradossale quanto si vuole) consacrazione ad essa, nella convinzione che ci sia sempre «un’altra mossa che può riaprire il gioco, quando si chiude», a patto di riuscire a «pensare l’impensato»111: come sottolinea anche Gian Carlo Ferretti nell’introduzione a

Volgar’eloquio (l’intervento che sancisce la conclusione dell’intera avventura intellettuale pasoliniana), l’atteggiamento dell’ultimo Pasolini può essere inscritto piuttosto sotto l’etichetta dell’“utopia” che della rassegnazione, poiché in lui permane sempre, nonostante lo scettiscismo di fondo, una tensione utopistica verso un oltre, una prospettiva altra, pur nell’accettazione della propria (momentanea) condizione di impotenza.

Al di là e al di sopra di tutto questo, proprio collocandosi tra un presente perduto e un