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1.1.10 «Hic desinit cantus» 302 : Volgar’eloquio

1.2 Letteratura, lingua e società: il grande vuoto 1 Distruzione o autodistruzione?

1.2.2 Gramsci nel tempio della modernità

Il centro del discorso pasoliniano è quindi una visione della lingua, di matrice gramsciana, secondo cui essa è un elemento determinante dal punto di vista sociopolitico, e svolge un ruolo decisivo nei processi di creazione dell’egemonia nella vita culturale e politica; Pasolini aveva letto infatti Gramsci sullo scorcio degli anni Quaranta, riconoscendo immediatamente in lui un maestro24 («le idee di Gramsci coincidevano con

21 Riguardo all’impiego del termine koinè come sinonimo di “italiano medio”, occorre segnalare che Pasolini, qui come in diverse altre occasioni, mostra di fare un uso piuttosto libero e personale delle categorie elaborate dalla linguistica o da altre scienze. In questo caso, l’impiego del termine koinè non è legato tanto al concetto di una varietà dialettale che perde i tratti più marcati e mostra una maggiore omogeneità e regolarità sulla base di una circolazione areale più ampia, quanto piuttosto all’idea di una lingua comune, sia scritta che parlata, legata in via pressoché esclusiva all’impiego da parte della classe borghese (e definita quindi “media” con riferimento alla sua natura di varietà diastratica).

Oggi invece, il concetto di “italiano medio” ha acquisito un valore differente, sulla scia della definizione di Sabatini di “italiano dell’uso medio”: con questa espressione egli fa riferimento a una varietà di recente formazione, originata da un sensibile avvicinamento fra uso scritto e parlato, caratterizzata da un insieme di tratti peculiari che sembrano indicare la formazione di un nuovo standard (riferendosi più o meno allo stesso insieme di fenomeni, Berruto parla infatti di “italiano neostandard”). Secondo Paolo D’Achille, tuttavia, «l’italiano dell’uso medio di Francesco Sabatini pare aver conservato almeno una traccia dell’italiano medo di Pasolini, sebbene quest’ultimo definisca «italiano medio quello borghese ormai sorpassato, e quindi l’italiano dell’uso medio di Sabatini dovrebbe corrispondere piuttosto all’italiano tecnologico di Pasolini […] Tuttavia, in un altro quadro critico e secondo una valutazione profondamente diversa (aperta più alle indicazioni sabatiniane che non a quelle pasoliniane), il concetto di italiano medio è stato ripreso come parametro per caratterizzare alcuni prosatori novecenteschi tanto da Vittorio Coletti quanto da Luigi Matt»; P. D’Achille, L’italiano per Pasolini cit., p. 62.

22 Secondo Pasolini, la vocazione letteraria dei borghesi non sarebbe palingenetica, ovvero non deriverebbe da un rinnovamento profondo, da una trasformazione radicale dello strumento linguistico di cui essi fanno uso nella quotidianità; solo per i parlanti di questa classe sociale, quindi, non ci sarebbe soluzione di continuità fra la lingua strumentale che usano in contesti informali e la lingua letteraria da impiegare in ambiti più specificamente culturali.

23 P.P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche cit., p. 81.

24 De Mauro, in particolare, ritiene essenziale per la formazione intellettuale di Pasolini la scoperta di Gramsci: «L’incontro con Gramsci ha trasformato Pasolini da valente letterato in un creatore, un polemista,

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le mie; mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me»25), e intrepretando i suoi scritti non come un’esaltazione acritica

della realtà popolare (come spesso facevano gli intellettuali del tempo, intenti alla definizione di una letteratura nazional-popolare), bensì come la complessa e profonda analisi delle interrelazioni esistenti fra classi sociali, differenti visioni del mondo e relative forme espressive.

Ecco allora che Pasolini deriva da Gramsci innanzitutto la percezione di una tensione, una lacerazione fra due forze attive nella società, ovvero la cultura borghese e quella marxista, e insieme la consapevolezza che il faticoso rinnovamento della società non può che derivare da una frattura della coscienza collettiva e dei suoi istituti culturali e linguistici, poiché «una nuova cultura non può essere altro che il prodotto di una nuova società»26;

Il rinnovamento storico non può essere […] interpretato come un cammino luminoso e tranquillo verso il progresso. Non ha alcun senso ridurre a programmatica ricerca delle tendenze progressive della società, quella individuata ad esempio nelle classi subalterne, il percorso da uno stato di incoscienza a uno stato di coscienza, dal buio alla luce, come percorso lineare verso le magnifiche sporti e progressive. Assumere questa posizione, come scriveva Gramsci, significa non considerare «che lo sviluppo del rinnovamento intellettuale e morale non è simultaneo in tutti gli strati sociali, tutt’altro. […] Non solo le linee sono molteplici, ma si verificano anche dei passi indietro nella linea “più” progressiva.»27

Nel Pasolini degli anni Cinquanta, così come in Gramsci, l’idea fondante era dunque quella di una perpetua lotta fra due diverse visioni del mondo, ossia quella borghese e quella proletaria (sostenuta dall’ideologia marxista):

Lo scontro in atto nella società era uno scontro tra due organizzazioni della vita: quella capitalistica e quella socialista. L’egemonia per Gramsci significava capacità della classe operaia di prendere nelle sue mani la direzione dello sviluppo sociale. Partendo, dunque, dai meccanismi produttivi, la classe operaia maturava la propria coscienza, propri valori e autentiche forme di vita in antitesi a quelle dominanti.28

Nel 1955, tuttavia, in conclusione alla sua introduzione all’antologia della poesia popolare, Pasolini aveva già osservato, sempre a partire da dati linguistici (ovvero l’allora

un militante democratico di rara ed alta moralità […]. Gramsci suggerisce a Pasolini di passare all’uso di materiali espressivi eterogenei […] per saggiarne la possibilità di diventare strumenti di egemonia culturale complessiva d’un nuovo ceto intellettuale organico a nuovi rapporti di classe»; T. De Mauro, La ricerca

linguistica, in AA. VV., Pasolini un anno dopo, «Nuova generazione», n. 15, 31 ottobre 1976, p. 23.

25 P.P. Pasolini, Pasolini su Pasolini cit., pp. 37-38.

26 «Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «originali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, «socializzarle» per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale»; A. Gramsci, Quaderno 11, Nota IV in Id., Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi 1975, p. 1377.

27 F. Ferri, Linguaggio, passione e ideologia cit., p. 203-203. 28 Ivi, p. 219.

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imminente formazione di una nuova lingua parlata, una koinè) una certa tendenza a «un mutato “rapporto” sociale tra le due classi»29, del quale egli segnalava i rischi e insieme le

potenzialità, avanzando quindi proposte e speranze. Se da un lato, infatti, lo scrittore temeva che l’ottusa classe borghese (ora dotata di «armi di diffusione dell’ideologia immensamente potenziate»30) si sarebbe limitata (come poi è infatti avvenuto) a un

tentativo di brutale assimilazione delle classi subalterne, dall’altro invece auspicava che la nuova lingua parlata potesse beneficiare dell’apporto dei dialetti, delle loro vivacità e ricchezza lessicale, grazie a un rapporto biunivoco «intensissimo» tra le due culture; nel 1955, egli sperava quindi ancora in un risveglio del popolo moderno che, ormai consapevole di sé in quanto classe, sarebbe forse finalmente riuscito a essere autonomo, a «dissimilarsi», superando «l’irrazionale soggezione in cui per tanti secoli era vissuto»31.

E tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto, pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L’italianizzazione dell’Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare.32

Tuttavia, questa speranza di un rapporto fra popolo e borghesia che fosse insieme di «assimilazione e dissimilazione, di simpatia e di lotta»33, si sgretola all’inizio del boom

economico degli anni Sessanta, quando Pasolini osserva che la lingua media non è affatto divenuta la lingua della nazione (e le cause sono da ricercarsi, riprendendo Gramsci, all’assenza di un reale spirito democratico già nel Risorgimento italiano, che non aveva visto una reale e totale partecipazione delle masse), ma è rimasta appunto il codice di una sola classe sociale, quella borghese, che dall’alto ha imposto al paese la sua lingua di classe, plasmata per assolvere «i propri interessi economico-politici e i propri pretesti culturali»34. Il grande principio unificatore dall’alto, autoritario e paternalistico, di tale lingua media è stata la burocrazia, l’apparato statale. E i mezzi di diffusione, oltre alla scuola umanistica e piccolo- borghese, sono stati le infrastrutture di base, l’esercito, la ferrovia, i giornali ecc. Il latino era sempre stato il grande modello della lingua: ora, tale modello era “borghesizzato” attraverso lo “spirito burocratico statale”35.

D’altra parte, la borghesia in quanto classe dirigente non è mai stata davvero egemone in senso gramsciano, «cioè non ha saputo identificarsi con gli interessi nazionali nella loro globalità»36, ma ha avuto nei confronti del paese un atteggiamento quasi

29 P.P. Pasolini, Antologia della poesia popolare cit., p. CXXIV. 30 Ivi, p. CXXV.

31 Ibidem

32 P.P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti 2008, p. 80 33 P. Pasolini, Antologia della poesia popolare cit., p. CXXXV.

34 P.P. Pasolini, Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965, a cura di G.C. Ferretti, Roma, Editori Riuniti 1996, p. 300.

35 Ibidem

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coloniale, trattando il popolo come un corpo estraneo alla nazione (quando in realtà esso ne costituisce l’anima), e mostrandosi così incapace di svolgere una reale azione unificatrice, non solo politica ma anche culturale e linguistica.

All’unificazione dell’Italia attraverso la piccola borghesia piemontese o piemontesizzante […] si è creduto che l’unificazione linguistica potesse essere risolta attraverso lo pseudo- umanesimo piccolo-borghese, che possedeva una lingua solo letteraria, l’italiano, divenuta improvvisamente lingua nazionale (benché sconosciuta a circa i 9/10) degli italiani). E si è creduto di imporla con gli stessi metodi con cui si imponevano le tasse, cioè attraverso la burocrazia e la polizia. Passando dall’autoritarismo paternalistico a quello fascista.37

La vecchia borghesia clerico-fascista, quindi, non ha mai coinvolto le masse popolari in un reale processo di sviluppo, per cui non si è mai generata una vera osmosi linguistica: il popolo stesso, d’altro canto, si è sempre mostrato ostile al dominio che la borghesia esercitava mediante il potere burocratico-statale, rifiutando di lasciarsi assimilare ai suoi modelli culturali e linguistici, che pertanto sono stati recepiti solo dai ceti medi, o piccolo borghesi, intrappolati ina condizione di perenne e passiva imitazione. Agli albori degli anni Sessanta, tuttavia, questo scenario socioculturale appare in rapida trasformazione, perché la nuova borghesia industriale lascia infine intravedere le potenzialità per diventare realmente una classe egemone, mediante l’imposizione di nuovi bisogni e consumi, che sembrano in grado di assimilare a sé ogni altro modello sociale e culturale: viene così a mancare ogni elemento alternativo o antitetico rispetto al pensiero e allo stile di vita borghese.

In un certo senso la borghesia industriale ha in potenza avviato il processo per superare, ma in una direzione opposta a quella auspicata da Gramsci, […] il distacco che separava gli intellettuali dalle classi subalterne. D’ora in avanti il potere di attrazione della neoborghesia italiana su queste classi sarà così irresistibile da non incontrare più alcuna resistenza da parte loro. Il loro «consenso» sarà dato spontaneamente, senza più alcuna forza visibilmente coercitiva, e non si tratterà di un consenso autentico e reale, perché esso ha origine nel vissuto dell’uomo. Il modello e lo stile di vita proposto dalla società dei consumi verrà lentamente e gradualmente introiettato dalle masse fino a diventare la loro vera natura. […]

Nella società dei consumi la classe operaia viene gradualmente assimilata al sistema. L’egemonia linguistica è soltanto un segnale di quanto effettivamente avviene nella società. Per cui l’analisi storica sulla reale egemonia linguistica esercitata dalle classi dominanti diventa un valido strumento per valutare la sua profondità e la sua incidenza sul corpo della nazione.38

Il Pasolini degli anni Sessanta, quindi, pur impiegando prospettive e metodi di matrice gramsciana, che lo inducono a osservare la lingua non solo come sede in cui si manifestano i primi fermenti di un cambiamento socioculturale in atto, ma anche come strumento per valutare «lo spessore egemonico di una classe dominante»39, si trova a fare

37 P.P. Pasolini, Empirismo eretico cit., p. 29. 38 F. Ferri, Linguaggio, passione e ideologia cit., p. 219. 39 Ivi, p. 217.

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i conti con un contesto storico e sociale radicalmente trasformato rispetto a quello analizzato da Gramsci: egli deve infatti prendere coscienza dell’esistenza di una borghesia finalmente egemonica, in grado di escludere ogni apporto “dal basso” ai mutamenti linguistici in corso, che sembrano rivolti alla creazione di un nuovo italiano finalmente unitario, sotto il segno della tecnologia e della comunicazione.

Questo è stato sicuramente uno dei nuclei più articolati e controversi della riflessione pasoliniana, che riemerge infatti come questione critica nelle osservazioni e nelle analisi di molti degli intellettuali che, su giornali e riviste, replicano a più riprese all’articolo di Pasolini.

Per citarne solo alcuni, Mario Spinella40 ad esempio ribadisce che «la dinamica del

paese non è comprensibile al di fuori della presenza e dell’azione del movimento operaio» per cui la riduzione dei «processi, anche strettamente linguistici, all’egemonia borghese e capitalistica è una linea di analisi sociologica del tutto insufficiente»41, mentre Angelo

Guglielmi42 contesta radicalmente l’affermazione di Pasolini secondo cui il potere, la

cultura e la lingua sono una cosa sola, ed Elio Vittorini43, nel suo intervento, sottolinea

come l’analisi dell’italiano solo in quanto lingua borghese e burocratica trascuri la fondamentale importanza del linguaggio della lotta di classe, «affermatosi già dalla seconda metà dell’Ottocento con l’anarchismo e con le prime organizzazioni socialiste e in seguito diventato specifico di tanti momenti non dialettali della vita del proletariato»44.

Spesso si è quindi imputato allo scrittore di fondare la propria posizione su una schematizzazione troppo semplicistica dei rapporti intercorrenti tra struttura economica e sovrastruttura politica, culturale e artistica ecc.: in realtà, Pasolini ha ben presente il

40 Mario Spinella (1918-1994) è stato uno scrittore, giornalista e intellettuale di sinistra; è stato caporedattore di «Vie nuove», direttore della Scuola delle Frattocchie (l’Istituto di studi comunisti) del PCI e membro della redazione de «Il Piccolo Hans». Fra le sue opere più significative si possono citare Memoria della Resistenza e

Lettera da Kupjansk, che ha vinto il premio Viareggio nel 1987.

41 M. Spinella, Linguistica e sociologia, in O. Parlangeli (a cura di), La nuova questione della lingua cit., p. 184. 42 Angelo Guglielmi, nato nel 1929, è uno scrittore e critico letterario. Nei primi anni Sessanta ha fondato, insieme a Edoardo Sanguineti e Umberto Eco, il Gruppo 63, nucleo vitale del movimento della Neoavanguardia, della quale rappresentava l’orientamento più anarchico, che proponeva la rottura radicale di ogni schema precostituito di interpretazione del mondo. Dal 1987 al 1994 è stato direttore di Raitre, segnando nella rete un radicale cambiamento di stile e programmazione. Tra le sue opere si possono ricordare Avanguardia e sperimentalismo (1964), Vent’anni di impazienza (1965), La letteratura del risparmio (1973),

Carta stampata (1978), Il piacere della letteratura (1981).

43 Elio Vittorini (1908-1966) è stato uno dei più importanti scrittori italiani del secondo dopoguerra. Fra le sue opere maggiori si annoverano Conversazione in Sicilia (1941, uno dei frutti più maturi e originali della narrativa neorealista), Uomini e no (1945), Le donne di Messina (1949). Grande animatore di cultura, nel 1945 fonda per l’editore Einaudi «Il Politecnico» (che è poi costretto a chiudere nel 1947 a causa di divergenze col PCI) e nel 1959 «Il menabò», che ha poi coordinato insieme a Italo Calvino. Attivissimo in ambito editoriale, per Einaudi ha diretto dal 1951 la collana «I Gettoni», e dal 1965 quella saggistica «Nuovo Politecnico», mentre per Mondadori è stato direttore della nuova «Medusa», dedicata agli scrittori stranieri. 44 E. Vittorini, È il lavoro che giudica il mondo, in O. Parlangeli (a cura di), La nuova questione della lingua cit., p. 158.

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carattere dinamico del rapporto fra struttura e sovrastruttura, con i loro reciproci influssi, per cui prende in esame il sistema economico solo come nucleo da cui si origina un mutamento sociale così travolgente da pervadere in profondità la cultura e, come in cortocircuito, la lingua dell’intera nazione, che porta poi in superficie i segnali più immediatamente visibili dei paralleli sconvolgimenti sotterranei.

Da più parti, poi, si replica a Pasolini con la riaffermazione della centralità del proletariato nella vita socioculturale della nazione, dato che il processo dialettico sul quale deve necessariamente basarsi una riorganizzazione dell’egemonia culturale non sembra poter fare a meno del polo costituito dalla contestazione operaia; tuttavia, con la società neocapitalistica sono cambiati i presupposti per un tale confronto dialettico, che in Italia, d’altro canto, non si è mai realizzato pienamente, a causa dell’incapacità della borghesia di ampliare all’intera società il suo orizzonte di interesse e intervento.

Pasolini stesso si sofferma infatti a spiegare le ragioni per cui, fin dagli inizi degli anni Sessanta, egli si è trovato a dover ristrutturare le fondamenta gramsciane del suo pensiero, proprio a causa del dileguo ideologico di una delle parti in lotta, ormai avviata alla più assoluta e passiva accettazione dei modelli imposti della nuova borghesia neocapitalistica.

Io non ho mai detto addio all’influenza di Gramsci. Cioè, oggettivamente, c’è stato un momento in cui l’influenza di Gramsci è risultata essere anacronistica. È stato il momento in cui l’Italia, da paese paleo-industriale e agricolo, è diventato un paese neocapitalistico e il vecchio mondo agricolo si è svuotato sia attraverso l’emigrazione sia attraverso l’industrializzazione agraria. Questa cosa è avvenuta in Italia in questi ultimi dieci anni. Ora, ai tempi di Gramsci, invece, il popolo italiano era un popolo paleo-industriale per cui i contadini erano contadini e gli operai appartenevano, veramente completamente, alla classe operaia. Allora, quando Gramsci diceva che bisognava fare delle opere nazionali e popolari intendeva che i destinatari di queste opere fossero quel popolo di cui parlavo prima, cioè gli operai come classe e i contadini come contadini antichi, diciamo, classici. In questi dieci anni ci sono state delle trasformazioni: gli operai del Nord si sono imborghesiti, hanno acquistato certi atteggiamenti, certi caratteri della piccola borghesia, i contadini del Sud sono entrati in una profonda crisi, sono emigrati e stanno trasformando industrialmente la loro terra e, quindi, non sono più quelli dei tempi di Gramsci, e allora mi sono reso conto che seguire, in questo, Gramsci, era un anacronismo.45

Resta tuttavia inalienabile, in tutta la riflessione sociolinguistica dello scrittore, l’impronta del pensiero di Gramsci, forse non espressa nei termini consueti, eppure insita in ogni suo ragionamento, come profonda coscienza della centralità della lingua non solo come luogo di conservazione della memoria storica e culturale della società, ma anche

45 Intervista a P.P. Pasolini per la rivista «Film» (1970), inedita, trascritta da registrazione appartenente al Fondo P.P. Pasolini (ora conservato presso il Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna). La parte citata si trova in F. Ferri, Linguaggio, passione e ideologia cit., pp. 215-216.

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come strumento privilegiato nella formazione e configurazione dei rapporti socioculturali fra le classi sociali contrapposte.