1.1.10 «Hic desinit cantus» 302 : Volgar’eloquio
1.2 Letteratura, lingua e società: il grande vuoto 1 Distruzione o autodistruzione?
1.2.4 La profezia di Pasolini: l’apocalisse del neo-italiano tecnologico
Alla fine del 1964, Pasolini annuncia quindi «con qualche titubanza, e non senza emozione», che è nato «l’italiano come lingua nazionale»75, sull’onda prepotente della
crescente industrializzazione del Nord Italia operata da una nuova borghesia, neocapitalistica e tecnocratica.
Questa riflessione dello scrittore evidenzia innanzitutto, ancora una volta, la sua profonda consapevolezza della derivazione dei fenomeni linguistici da sommovimenti più profondi, di natura cioè sociale ed economica: il potere esercitato da questa nuova classe sociale borghese, infatti, pur affondando le sue radici nei meccanismi della
71 I. Calvino, Una pietra sopra, p.151 72 Ibidem
73 P.P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche cit., p. 97. 74 Ivi, p. 101.
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produzione e nel consumo, si manifesta con evidenza a livello culturale, contagiando l’intera popolazione mediante l’opera dei mezzi di comunicazione di massa, e diffondendo quindi la propria lingua asettica, tecnologica e antiespressiva.
Pasolini accenna in particolare al costituirsi di un asse Torino-Milano, che avrebbe costituito il nucleo irradiatore del nuovo italiano in quanto centro propulsivo del nuovo spirito tecnologico, in grado di permeare e omologare tutte le precedenti stratificazioni storiche e i vari linguaggi settoriali che caratterizzano la lingua italiana.
Lo scrittore si spinge poi a delineare alcune delle caratteristiche che sarebbero state proprie del “nuovo italiano”, ossia la semplificazione sintattica, il distacco dal latino, e «il prevalere del fine comunicativo sul fine espressivo»76: egli osserva infatti come l’italiano,
nella sua storia, sia sempre stato «conservatore» ed «espressivo»77, in quanto capace di
assorbire ogni nuova stratificazione storica per conservarla e poi riutilizzarla in funzione espressiva; a questo è dovuta la sua straordinaria ricchezza e varietà, destinata a ridursi drasticamente con l’affermarsi del nuovo spirito tecnologico, che invece tende a rendere la lingua più snella ed efficiente mediante l’abolizione delle varie forme concorrenti.
L’intervento dello scrittore si conclude con una riflessione sul ruolo dei letterati in questo delicato momento di transizione dal tradizionale assetto sociale alla civiltà di massa: la loro reazione, a suo parere, non può che essere «scientifica», ossia lucida e razionale, poiché la loro unica speranza di non soccombere alla nuova lingua e al potere che essa rappresenta è quella di «impararne l’abc»78, ossia studiarla e appropriarsene, al fine di
comprendere e dominare «la realtà nazionale che lo produce»79.
In realtà, egli stesso di renderà conto ben presto dell’impossibilità di «far parlare la fabbrica»80, ossia di recuperare un certo margine di libertà espressiva all’interno del
binomio lingua/cultura tecnologica; dal momento, infatti, che la lingua tecnologica non è più solo un gergo, ma contamina tutti gli altri livelli linguistici, essa estende all’intera società un fenomeno tipico della vita in fabbrica, ossia la soppressione della varietà espressiva mediante «l’identificazione della lingua del tecnocrate con quella dell’operaio»81,
con la conseguente impossibilità di «rivivere» la lingua di quest’ultimo e di rielaborarla creativamente. 76 Ivi, p. 99. 77 Ibidem 78 Ivi, p. 100. 79 Ivi, p. 101. 80 Ivi, p. 103. 81 Ibidem
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Così, nonostante le dichiarazioni di Pasolini in merito alla necessità «di fare esperienza di questa “non-lingua”, della sua inespressività coatta e ripetitiva»82, al fine di
dimostrarne la natura alienante e aprire in essa una sorta di «insanabile frattura»83, egli
dovrà rassegnarsi piuttosto ad ammettere «l’impotenza del poeta contemporaneo a rappresentare in mille modi diversi e soggettivi, continuamente nuovi, reinventati ecc., quel momento particolare ed esemplare della vita moderna che è la fabbrica»84. Di qui
l’impossibilità di completare La Divina Mimesis, per la quale egli aveva progettato la creazione di «Due Paradisi, – quello neocapitalistico e quello comunista – », entrambi animati dalla «“supposta” lingua nuova […], con le sue sequenze progressive, […] la sua prevalenza della comunicatività sull’espressività ecc.»85: infatti, al momento della
pubblicazione (postuma, ma nella forma decisa dall’autore) dei frammenti di quest’opera, della parte scritta nel neo-italiano tecnologico non c’è traccia; l’«impotenza» sembra essersi dunque tradotta in rifiuto di «esperire il linguaggio del mondo delle merci», poiché «primario compito del poeta è rinunciare alla prestabilita relazione tra parola e cosa, tra lingua e parlante, tra prodotto e consumatore»86, per restituire alla parola la gratuità del
suo rapporto con le cose.
In ogni caso, al di là degli sviluppi letterari del proclama pasoliniano del 1964, è particolarmente interessante osservare come, in realtà, il punto di vista qui adottato da Pasolini non sia tanto letterario, ma piuttosto «socio-linguistico»87 (come lo definisce egli
stesso, in anticipo sui tempi); in effetti, la constatazione della crisi creativa ed espressiva cui il panorama socioculturale circostante lo ha costretto costituisce solo il punto di partenza per riflettere sul tramonto dell’illusione di «creare attraverso la letteratura (come del resto si è per tanti secoli creduto) i presupposti di una lingua nazionale»88, il che
dimostra ancora una volta come la lingua sia per l’autore una chiave di lettura primaria e irrinunciabile del presente.
Ora, è certamente vero che, fino a tempi recenti, per tutti gli scrittori italiani è sempre stato necessario affrontare i tormenti linguistici legati all’ingombrante retaggio della nostra tradizione letteraria: come ben sottolinea Maria Corti, infatti, «ogni volta che
82 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 58. 83 Ivi. p. 61.
84 P.P. Pasolini, Le belle bandiere cit., p. 274. 85 P.P. Pasolini, La divina mimesis cit., p. 59. 86 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 54. 87 P.P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche cit., p. 91. 88 Ivi, p. 87.
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uno scrittore italiano deve scegliere il suo linguaggio, è obbligato per la nostra particolare situazione storica a riproporsi il problema della lingua nazionale»89.
Tuttavia, a discapito delle molte critiche che riducono l’intervento pasoliniano a una pura necessità soggettiva di rinnovare la propria lingua e la propria poetica, in realtà la sua ammissione (peraltro sostanzialmente corretta) del fallimento degli ideali linguistico/letterari della stagione poetica appena conclusa, così come i conseguenti propositi di rinnovamento, costituiscono solo la cornice in cui si inserisce l’analisi di una ben più ampia crisi sociale, culturale e antropologica, che Pasolini ha il merito di aver riconosciuto e descritto prima di tutti, individuandone con notevole perspicacia i sintomi linguistici.
Quando esce questo saggio, non era in corso alcun dibattito sui mutamenti linguistici in atto nella società italiana. Pasolini era rimasto colpito, fin dai primi anni ‘60, dagli sconvolgimenti sociali che stavano cambiando il volto dell’Italia (crisi della secolare civiltà contadina, urbanesimo, emigrazioni interne ed esterne, imborghesimento della classe operaia, esplosione dei mass-media) e dalle loro ricadute sul terreno culturale e linguistico. Nessun altro, prima di lui, aveva percepito questo terremoto. E sarà forse stato proprio lo sconfinamento nel terreno sociologico, a fare arricciare il naso ai linguisti e ai semiologi del tempo, chiusi nelle loro fortezze e certezze disciplinari.90