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1.3.1 «La loro lingua è la lingua della menzogna»: potere e corruzione linguistica

1.3.3 Perdita del sacro e morte della parola

Come osserva Alfonso Berardinelli nella prefazione agli Scritti corsari, in questa «saggistica politica d’emergenza» Pasolini «esprime distruttivamente la sua angoscia per la perdita di un oggetto d’amore e per la desacralizzazione moderna di tutta la realtà»45,

provocata dall’idolatria della tecnica, della produzione e del consumo, di cui evidentemente all’altezza degli anni Sessanta/Settanta solo pochi intellettuali avevano intuito la portata.

In effetti, se la dimensione del sacro è centrale in tutta la produzione di Pasolini, essa acquisisce un valore determinante soprattutto negli ultimi anni, in opposizione a

39 P.P. Pasolini, La rabbia, a cura di R. Chiesi, Bologna, Cineteca 2009, p. 121. 40 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 192.

41 G.C. Ferretti, Pasolini. L’universo orrendo, Roma, Editori Riuniti 1976, p. 26. 42 Ivi, p. 33.

43 P.P. Pasolini, Interviste corsare cit., p. 298. 44 P.P. Pasolini, Lettere luterane cit., p. 185.

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quello che è divenuto ai suoi occhi il mondo dell’irrealtà, ormai completamente demitizzato e desacralizzato.

Il dominio del Potere, in quanto anarchico e astorico, imprigiona infatti in una circolarità senza fine sia i soggetti che gli oggetti, cui gli individui sono ormai assimilati da una totale reificazione e mercificazione del corpo; questo scenario può essere lacerato, secondo Pasolini, solo dal recupero di una dimensione sacrale della realtà, che coincide da un lato con la riattribuzione al corpo e alla sessualità di un carattere soteriologico, dall’altra con il recupero della sacralità della parola.

Pasolini è da sempre affascinato dalla connessione mistica fra corpo e parola, e nei saggi di Empirismo eretico dedicati alla lingua orale identifica appunto nella vocalità il momento dell’espressione umana (metastorico e preistorico) più puro e perfetto, in quanto rispondente a una necessità fisica e del tutto inserito nella continuità uomo-natura; questi «segni vocali», infatti, non essendo ancora strutturati in un codice linguistico arbitrario, nella loro dimensione «interiettiva e misteriosamente analogica con sentimenti reali suscitati da cose o fatti reali»46, testimoniano anche «una corporeità totalmente

partecipe del linguaggio»47.

Carica di questa esperienza antica, interiorizzata, la voce, in quanto volontà di dire, è volontà di esistere. […] La voce prima di manifestarsi ed essere percepita, è quasi dissimulata nel silenzio del corpo. Il corpo è la sua matrice. In ogni istante essa può nascere; ma, contrariamente a noi, in ogni istante può ritornare a tale matrice, e ritrovarvi l’energia per una vita ulteriore.48

La voce, nella sua naturale discendenza dal corpo, conserva quindi in sé le tracce della sua originaria matrice, e come tale è partecipe della sua stessa natura sacra, che permea quindi interamente il linguaggio parlato. In un passo di Empirismo eretico Pasolini ricorda un episodio della sua infanzia in cui, trovandosi nell’improvvisa necessità di denominare il primo affacciarsi del desiderio sessuale davanti a un «oggetto d’amore», un desiderio talmente bruciante da «torcergli le viscere»49, d’istinto aveva inventato un nuovo

termine: «teta veleta»50. Curiosamente, Gianfranco Contini, cui il poeta aveva raccontato

questo aneddoto, aveva subito ricondotto questa parola, coniata dal Pasolini bambino, al termine greco «tetis» (ossia appunto sesso, sia maschile che femminile), riconoscendo quindi in questa esperienza un fenomeno di «reminder linguistico»51.

46 P.P. Pasolini, Empirismo eretico cit., p. 70. 47 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 65.

48 P. Zumthor, Prefazione a C. Bologna, Flatus vocis, Bologna, Il Mulino 1992, p. 9. 49 P.P. Pasolini, Empirismo eretico cit., p. 68.

50 Ibidem 51 Ivi, p. 71.

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Ma “teta veleta” è più che una parola, è l’anteriore e primario dire poetico che indica e dirige l’essenza della poesia verso il riconoscere l’appello del sacro come raccolto e custodito nell’intimità di “Tetis”. […] Con il corrispondere al richiamo del desiderio sessuale, inappagato perché Tetis” si nasconde (rimane velato), Pasolini scopre l’oralità come il risuonare nel proprio corpo di quel dire “inumano” che legato al sesso, al suo apparire e scomparire, si rivela in quanto rivelarsi e ritirarsi nel dono del linguaggio52.

La visione pasoliniana del linguaggio appare così primariamente ed essenzialmente fondata su una pulsione vitale originaria, naturale e insopprimibile quanto lo può essere il desiderio sessuale, al tempo stesso fonte e garanzia dello scorrere della vita: sia il sesso sia il «linguaggio che parla»53 (discendente quindi dalla naturalezza della lingua orale),

costituiscono allora due manifestazioni del sé «ricche di misteriosi principi che consentono la rigenerazioni della vita»54, e in quanto tali degne di accogliere il sacro nella

sua folgorante rivelazione.

Si osserva quindi come il sacro per Pasolini non coincida affatto con il soprannaturale, ma piuttosto con una dimensione vitale, primigenia del reale, «un’alterità misteriosa che però ci è terribilmente familiare, che incombe su di noi e sulla nostra vita quotidiana»55; questo rapporto con una diversa percezione dell’esistente, che permette di

cogliere ciò che di irrazionale e mitico è sotteso ai fenomeni visibili, appare ancora naturale e immediato nel mondo contadino e arcaico precedente alla «mutazione antropologica»: in esso, infatti, «ogni oggetto (un albero, una pietra)», così come ogni azione umana, «anche quotidiana (alimentazione, sessualità)» è in diretta connessione

con il tempo ciclico della natura, con il cosmo e le sue leggi imperscrutabili, con il movimento stesso della vita, con una dimensione soprannaturale e trascendente, benché al tempo stesso immanente (e tempo ciclico significa appunto morte e resurrezione, possibilità di rigenerazione, il seme che muore per diventare pianta).56

Scrive Mircea Eliade (la cui visione del sacro ha molte convergenze con quella di Pasolini), che nelle società arcaiche «il reale per eccellenza è il sacro, perché soltanto il sacro è in modo assoluto, agisce efficacemente, crea e fa durare le cose.»57 Questa

immediatezza del rapporto dell’uomo con il reale, inteso come ierofania, cioè come sentimento del sacro, è ciò che Pasolini riconosce e ama nelle comunità del passato, «non

52 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 67. 53 Ivi, p. 60.

54 Ivi, p. 66.

55 F. La Porta, Il sacro è la realtà stessa. Un concetto pasoliniano dalle implicazioni fortemente politiche, in A. Felice-G.P. Gri (a cura di), Pasolini e l’interrogazione del sacro cit., p. 29.

56 Ivi, p. 30.

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corrose dal dominio delle cose sull’uomo»58 e ancora capaci di un rapporto immediato

con la vita.

Pasolini include in questa prospettiva arcaica anche il pensiero cristiano nella sua rivisitazione popolare, osservando come nel mondo contadino il cristianesimo si sia semplicemente adagiato sopra una religiosità preesistente, perdendo così «il solo momento originale rispetto a tutte le altre religioni, cioè Cristo»59; allora, le vicende

cristiane del peccato e della salvezza, della discesa agli inferi e della resurrezione, sarebbero state inserite in una dimensione ciclica, ricorrente, mentre la figura storica di Cristo sarebbe stata assimilata «a uno dei mille adoni e delle mille proserpine esistenti»60, cioè «ai

vecchi modelli mitici»61.

Pasolini sottolinea invece come Cristo «abbia accettato il tempo unilineare, cioè quella che noi chiamiamo storia. Egli ha rotto la struttura circolare delle vecchie religioni, e ha parlato di una “fine”, non di un ritorno»62; nel messaggio cristiano, cioè, il mondo

diventa teatro di eventi unici e irripetibili, che procedono secondo una direzione predefinita, dal compimento della Rivelazione nella persona di Gesù Cristo verso la fine dei tempi e la Parusia di Cristo.

Questa idea dell’irreversibilità della storia, figlia quindi del messaggio cristiano, assume però nella modernità la fisionomia dell’incessante avanzata dello sviluppo tecnico, industriale ed economico, con il conseguente dilagare del consumismo e il feticismo delle merci.

Paragonato al tempo pagano, il moderno (e illuministico) tempo del Progresso sembra pertanto recare in sé l’intero scandalo e paradosso del tempo cristiano, benché lo trasferisca alla dimensione in tutto e per tutto mondana della storia.63

Allora, se da un lato, con la distruzione del mondo rurale, le campagne hanno ormai abbandonato la loro religiosità mitica e arcaica, in cui era comunque viva la percezione della sacralità del reale, dall’altro, nella società moderna, l’idea del tempo escatologico cristiano si è risolta in un processo di irreversibile secolarizzazione, per non dire borghesizzazione, della realtà.

Coerentemente con questa evoluzione dello scenario socioculturale, per il poeta mutano anche le possibilità e modalità di rappresentazione del sacro; fino alla fine degli

58 N. De Cilia, In principio era il verbo (e il verbo era presso la madre), in A. Felice-G.P. Gri (a cura di), Pasolini e

l’interrogazione del sacro cit., p. 225.

59 P.P. Pasolini, Scritti corsari cit., p. 85. 60 Ivi, p. 85.

61 Ivi, p. 86. 62 Ivi, pp. 85-86.

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anni Cinquanta, infatti, Pasolini riesce a individuarne le tracce «nei soggetti e nei luoghi della marginalità»64, come il mondo rurale friulano, o quello popolare delle borgate

romane, in cui egli scopre ancora autenticità e bellezza. In questa fase la trasposizione letteraria del dialetto agisce, come si è visto, come strumento insieme «di rispecchiamento e di trasfigurazione mitica, di documentazione antropologica e di mitizzazione sacrale»65

di un mondo escluso dalla storia, in cui il sacro passa attraverso l’infinito ritorno delle cose, e quindi il rapporto diretto, fisico e ciclico, del soggetto con la realtà. Ecco allora che la poesia, in quanto «segno di un impulso originario e manifestazione di energia vitale»66, riesce a far «emergere il sacro ancora ospite nei margini del reale, dandogli, come

mai prima di allora era stato fatto, voce, volti, lingua e valore»67.

Nella dimensione dell’ipermodernità, invece, di cui Pasolini osserva l’avvento a partire dagli anni Sessanta, la violenta sopraffazione delle culture arcaiche e contadine si accompagna all’irrigidimento della sensibilità collettiva, nella quale il dileguo di una concezione sacrale dell’esistenza appare ormai irreversibile.

Io sono sempre più scandalizzato dall’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei […]. Il sentimento del sacro era radicato nel cuore della vita umana. La civiltà borghese lo ha perduto. E con che cosa l’ha sostituito, questo sentimento del sacro, dopo la perdita? Con l’ideologia del benessere e del potere.68

Pasolini, infatti, ama tanto profondamente la realtà in quanto ierofania, espressione del sacro, quanto odia la vita borghese, ridotta a logica utilitaristica che domina tutte le relazioni sociali; eppure, la modernizzazione capitalista prevede proprio il definitivo trionfo della classe borghese, invincibile e inviolabile, sopra tutte le altre, senza che esista alcuna possibilità di contrasto, alcuna rete di conflitti. Allora, se la sede del Potere non è mai vacante, in quanto occupata dalla borghesia come unico possibile soggetto, lo scrittore si spinge a prefigurare la trasformazione di tutta l’umanità in borghesia, come stadio ultimo e terminale dell’evoluzione della società occidentale, una condizione così deteriore di nichilismo e irrealtà da escludere qualsiasi possibilità di riscatto.

Ora, è importante sottolineare che, agli occhi di Pasolini, «la borghesia non ama la vita: la possiede»69, ed è proprio in questa mancanza di contatto empatico con la realtà

che risiedono la cancellazione del sacro e il trionfo dell’irrealtà. Del resto, l’indifferente

64 C. Verbaro, La poesia come forma del sacro, http://www.leparoleelecose.it/?p=30245 65 Ibidem

66 M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi cit., p. 158. 67 C. Verbaro, La poesia come forma del sacro cit. 68 P.P. Pasolini, Il sogno del centauro cit., p. 81, 85. 69 P.P. Pasolini, Le belle bandiere cit., p. 240.

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distacco dalla realtà che caratterizza la borghesia, determinando la sua incapacità di distinguere tra bene e male, ha ormai contaminato l’intera società, trasformandola in una massa ignorante e feroce, che vive in una degradante condizione di «impietrimento»70,

priva com’è di ogni coscienza di sé e del mondo.

La mutazione antropologica degli individui, così come il trionfo dell’irrealtà e della finzione che dominano la scena sociale, sembrano quindi aver operato un tale stravolgimento della realtà che il poeta non riesce più a decifrarne il linguaggio, ossia a restituire «il carattere sacro di ogni cosa»71.

La mutazione antropologia che tanto preoccupa Pasolini è anche una mutazione della

realtà, dei segni che essa emette: è come se la ricchezza dei segni della realtà si stesse

progressivamente riducendo, alcuni pezzi della realtà stessero scomparendo, non per far posto ad altri nuovi, ma solo per un processo di standardizzazione, di omologazione.72

Gli uomini, in quanto esseri mostruosi generati dal nuovo Potere, hanno del tutto smarrito il senso della sacralità del reale, non sono più capaci di «rispondere alla sua chiamata» che si attualizza «nel pragma della vita», in quel linguaggio della Realtà di cui essi stessi sono parte, e che possono decifrare solo riconoscendo in esso «il mistero della presenza e assenza del sacro»73.

L’alienazione dell’uomo moderno dalla realtà fisica, naturale, la sua incapacità di fruire della ricchezza del suo linguaggio, che anzi egli sta corrompendo e omologando, è resa particolarmente manifesta dalla corrispondente perdita della vitalità espressiva della lingua, dall’appiattimento delle sue manifestazioni su un unico modello «di “qualunquismo tecnico”»74, strettamente funzionale al sistema neocapitalistico di produzione-consumo.

Questo diverso rapporto tra parole e cose, in cui si è ormai persa ogni gratuità e naturalezza, è in gran parte promosso, se non imposto, dal modello culturale/linguistico veicolato dai mass media, «coatto e ripetitivo»75, interamente inteso a «forgiare o ri-forgiare

i caratteri degli italiani»76.

Che cosa vuol coprire la televisione? Vuol coprire la vergogna di essere l’espressione concreta attraverso cui si manifesta lo Stato piccolo-borghese italiano. Ossia di essere la depositaria di ogni volgarità e dell’odio per la realtà. […] Il sacro è perciò completamente bandito.77

70 P.P. Pasolini, Lettere luterane cit., p. 158. 71 P.P. Pasolini, Il sogno del centauro cit., p. 165.

72 D. Cantone, Pasolini e le immagini, in A Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 63. 73 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 85.

74 Ivi, p. 56. 75 Ivi, p. 60

76 A. Sobrero, L’italiano dopo mezzo secolo di tv cit., p. 92

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La televisione è infatti il veicolo privilegiato dell’ideologia dominante, quella del consumo, che essa propaganda mediante l’indottrinamento culturale e linguistico dei cittadini, resi schiavi di un modello di pensiero unico e omologato cui corrisponde il parallelo svuotamento del lingua; infatti, una televisione che propone un modello linguistico piatto, negativamente selettivo, che normalizza «l’eufemismo e la perifrasi» rispetto alla parola diretta, abitua i cittadini a «un’ipocrisia linguistica» che è l’anteprima «di quella morale»78.

Molti avevano intuito – o capito – la capacità della tv di attivare nei suoi utenti “trame organizzative del pensiero” capaci di modificare schemi mentali, gerarchie valutative, comportamenti; ma solo Pasolini poteva immaginare a metà degli anni Sessanta quella che sarebbe stata la deriva catastrofica di questo “medium di massa”. Aveva compreso meglio di chiunque altro che la televisione stava raccogliendo l’eredità della religione in quanto ideologia voluta e imposta dal potere, ed era la vera responsabile della grande rivoluzione che avrebbe spostato il motore dell’omologazione dal cattolicesimo all’edonismo di massa.79

Allora, se fino a quel momento la Chiesa, non potendo esistere senza le masse contadine che costituivano l’enorme base del suo potere, aveva accettato l’equivoco che contrabbandava il cristianesimo come prosecuzione della religiosità mitica e arcaica delle campagne, adesso, di fronte alla secolarizzazione della società, si trova improvvisamente di fronte al «“tradimento” di milioni e milioni di fedeli (soprattutto contadini, convertiti al laicismo e all’edonismo consumistico)» dal nuovo Potere, ormai «sicuro di tenere in pugno quegli ex fedeli attraverso il benessere e l’ideologia»80 di massa.

Negli Scritti corsari la Chiesa appare quindi come «sconfitta», eppure «felicemente sconfitta», in quanto finalmente svincolata dal potere (al quale ormai essa non serve più) e libera di poter «ricominciare tutto da capo»81; allora, nella sua crociata contro la

desacralizzazione e mercificazione della società, Pasolini crede di scorgere in essa un potenziale alleato, e la invita (invano) a più riprese a condurre «un’opposizione perenne a Cesare»82, cioè a contrastare un Potere irreligioso che si fa beffe del Vangelo, che non ha

più bisogno della religione per dominare la società.

Alla violenza della critica pasoliniana delle versioni conciliative, compromissorie e adattive del cristianesimo – espresse da una Chiesa ufficiale che per far fronte al problema della propria sopravvivenza in un mondo secolarizzato non troverebbe ormai di meglio che scendere a patti con il potere onnipervasivo dell’immagine, assumendo trionfalisticamente in proprio tutte le tecniche massmediatiche della spettacolarizzazione – fa riscontro l’esigenza di salvare quel nucleo autenticamente soteriologico e messianico della parola cristiana che appare il solo capace di

78 P.V. Mengaldo, Il Novecento, Bologna, Il Mulino 1994, pp. 22-23. 79 A. Sobrero, L’italiano dopo mezzo secolo di tv cit., p. 92.

80 P.P. Pasolini, Scritti corsari cit., pp. 79-80. 81 Ivi, p. 84

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contrapporsi alla sistematica, “persuasiva”, distruzione dell’esperienza che segna la situazione della nostra ipermodernità.83

Allora, mentre la Chiesa ufficiale delude le aspettative del poeta, poiché (anche di fronte alla propria potenziale rovina) non fa che confermarsi «irreligiosa, spietata e peccatrice»84, in quanto irrimediabilmente collusa col potere, nella figura del Cristo

storico, portatore di una «religiosa eresia dell’innocenza, della purezza e della libera “passione”»85, egli scopre invece un’autentica carica rivoluzionaria.

Così Pasolini, sempre più convinto della propria “diversità” religiosa»86, pur

rifiutando la magistratura e l’istituzionalità della Chiesa, della quale non accetta l’ignoranza e l’ambiguità morale («Guai a chi non sa che è borghese / questa fede cristiana, nel segno / di ogni privilegio, di ogni resa, / di ogni servitù; che il peccato / altro non è che peccato di lesa / certezza quotidiana, odiato /per paura e aridità; che la Chiesa / è lo spietato cuore dello Stato.»87), individua nel modello di Cristo l’esempio ideale di una violenta e assoluta

resistenza al Potere:

Quello che mi ha colpito è l’implacabilità, l’assoluto rigore, la mancanza di qualsiasi concessione, l’essere sempre presente a se stesso in maniera ossessiva, ossessionante con un rigore addirittura folle, che ha la figura di Cristo.88

L’idea di Cristo che suggestiona Pasolini è allora quella di un personaggio «severo, violento, portatore di una rabbia intellettuale, politica e sociale, carica di una forte tristezza e solitudine, un Cristo ribelle, che reca la “buona novella” ma anche la lotta integerrima contro i Farisei»89. È questa figura che, agli occhi di Pasolini, reca in sé lo scandalo del

sacro, il coraggio dell’esposizione pubblica del proprio corpo e la forza di una parola ancora capace di sferzare e infondere vita.

Quale moderno emulo di Cristo, allora, egli si avvia sempre più solo, e sempre più lontano dall’istituzione religiosa, alla ricerca dei segni del sacro laddove questi ancora sopravvivono, se davvero, come ha scritto Zanzotto:

Il sacro non viene distrutto dalla società e arte moderna, ma passa alle spalle, si interra, si sfa in una miriade-legione di meschini, chitinosi fatui demoni, tanto più capaci di ledere quanto

83 G. Marramao, Corpo, potere e tempo cit., p. 72.

84 R. Cacitti., “Atei in questo mondo”, in A. Felice-G.P. Gri (a cura di), Pasolini e l’interrogazione del sacro cit., p. 81.

85 G.C. Ferretti, Pasolini. L’universo orrendo cit., p. 56. 86 Ibidem

87 P.P. Pasolini, La religione del mio tempo cit., p. 84.

88 P.P. Pasolini, Una discussione del ’64, in AA. VV., Pier Paolo Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, Amministrazione provinciale, Pavia 1977, p. 108.

89 O. Perli, “Cristo mi chiama, ma senza luce”. Dalla sacralizzazione del mito sottoproletario al confronto con il cristianesimo

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meno presenti a una coscienza che crede di aver tutto dominato e demistificato. Il sacro (il limite) bisogna averlo davanti agli occhi, anche con il rischi di rimanere abbagliati90.