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2.1 «La mia vita intera è cosparsa di parole chiave»: un’avventura linguistica

2.1.4 Parola-verità e parole d’autore

A partire da questa visione dell’ultimo Pasolini come votato a un rapporto diretto (seppur disperato e utopistico) con il presente, piuttosto che a un’arte puramente estetizzante o alla «rincorsa dell’opinione pubblica fino al proprio annichilimento, o almeno alla propria conversione in alcune parole d’ordine»119, si possono quindi

considerare le sue parole soprattutto come la premessa indispensabile per rendere la realtà

114 Cfr. C. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 131.

115 A. Tricomi, Né ragazzini, né altri. Nessuno salverà il mondo. cit., p. 95. 116 Ivi, p. 149.

117 P.P. Pasolini, Il caos cit., p. 24.

118 F. Cadel, La lingua dei desideri cit., p. 173. 119 N. Merola, Pasolini e la modernizzazione cit., p. 13.

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«comprensibile, e dagli interlocutori modificabile, grazie al proprio irrinunciabile lavoro di esplicita interpretazione critica»120.

In effetti, la Parola straziata che descrive l’universo orrendo della mutazione antropologica, la Parola corsara che ammonisce, sferza e condanna non è una Parola vuota e mortuaria, ma semmai sanguinante di quella Verità che è l’unica possibile antagonista del Potere:

e mi so incorreggibile – scrive il poeta – nel perseguire la mia mania della verità / non so se si tratta poi di verità, o di amore per essa: ma che sia una mania / questo è certo: forse autolesionismo, forse attaccamento alla mia sorte / di eletto, destinato a scegliere tra volgarità e idealismo.121

Se il Fare in quanto tale appare ormai impossibile, perché lo spettro del potere si estende su tutti i settori della vita pratica, è la Parola stessa che deve farsi azione, in quanto dominio del tutto estraneo al Potere «imparlabile»: allora, è nella Parola che «parla la Verità»122, laddove nel mondo si fanno solo chiacchiere, che si annida l’utopia, la non-

rassegnazione di Pasolini. È «il parlare», infatti, che «potrebbe essere definito compito dell’intellettuale»123, per cui egli «si rivolge […] a quelli che non riescono a vedere e parla

in nome di quelli che non possono dire»124, in uno

sforzo, quasi disperato e gridato, di riconsiderare tutto da capo, di cercare una strada impossibile, di dimostrare se o che non c’è più niente da fare: di dimostrarlo a se stesso e agli altri […] in modo quasi ossessivo, come in ultimo (seppur vano) tentativo di convincimento di sé e di incoraggiamento agli altri: «bisogna trovare un nuovo modo di essere progressisti, un nuovo modo di essere liberi. È un problema centrale della nostra vita.»125

In effetti, nei suoi ultimi anni di vita Pasolini si trova ad assumere il doppio ruolo di «testimone» e «pedagogo», due figure che, come scrive giustamente Ferretti, «recano su di sé i segni di una sconfitta storica»126, poiché fanno seguito da un lato alla «fine del

mandato dello scrittore»127, cui era demandata la guida spirituale della società, dall’altro al

tramonto del modello dell’intellettuale «diverso», voce di quel «grande mondo (o mito) della diversità» (incarnato di volta in volta dalla campagna friulana, dal sottoproletariato romano, dal Terzo Mondo ecc…) ormai sopravvivente solo come «relitto, zona di

120 A. Tricomi, Né ragazzini, né altri. Nessuno salverà il mondo. cit., p. 89. 121 P.P. Pasolini, Trasumanar e organizzar, p. 72.

122 Ivi, p. 159.

123 P.P. Pasolini, Il caos, p. 24.

124 L. Martellini, Ritratto di Pasolini cit., p. 190.

125 G.C. Ferretti, Introduzione a P.P. Pasolini, Volgar’eloquio cit., p. 10. 126 Ivi, p. 94.

127 F. Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in Id., Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni

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ripiegamento e sconfitta»128.

Pasolini, allora, consapevole sia del depotenziamento della scrittura letteraria che della difficoltà di esprimere, mediante un linguaggio tradizionale, un’alterità che è sempre più una condanna, si cala in questo doppio ruolo trasferendo in esso tutta l’eredità di una tradizione culturale-letteraria precedente («che ancora prevedeva l’esistenza dell’intellettuale-legislatore inteso come coscienza critica di un’intera società»129), non

tanto per «dissezionarla, come si esamina il corpo di un defunto»130, ma piuttosto per farla

sopravvivere, sotto qualche forma, in una contesto storico-sociale alienato e alienante. Lo scrittore si deve infatti arrendere all’evidenza di un Potere che va necessariamente combattuto dall’interno, «sporcandosi le mani» con l’industria culturale e rinunciando a quella purezza estetica che «lo condannerebbe alla sterilità», per cui non gli resta che «crescere nei “tessuti” del Potere “come un canchero”131, sì da sfaldarlo

sfaldandosi insieme con lui, sì da distruggerlo distruggendosi insieme con lui»132.

La contraddizione insita in un atteggiamento che è al contempo di «ansia didattica» e di testimonianza disperata è evidente, ma altrettanto in linea con il personaggio:

anche in ciò si riproduce la sua vocazione ossimorica: un saggista-predicatore, un pedagogo che svela al pubblico le proprie ferite, lamentandosene. Vuole sempre spiegare sé agli altri e a se stesso, partendo soltanto da sé, dai propri sensi (integri o parzialmente vulnerati) e dalla propria cultura […], dalle proprie percezioni e dalle sue letture (disordinate e frammentarie). Ed è – forse – l’ultimo saggista proprio perché incarna questo ruolo in modo puro, esemplare, e avendo a disposizione un pubblico ampio [… ] (spesso lo stesso pubblico che negli incontri e nelle presentazioni gli rivolge le domande, lo insulta o gli dichiara la sua ammirazione).133

Nondimeno, in quegli anni cruciali le due figure del testimone e del pedagogo finiranno necessariamente per convergere, poiché votate al comune obiettivo di individuare e mostrare a un pubblico ormai atrofizzato «cosa è reale e cosa è irreale»134

nell’«universo orrendo» del Potere.

A questo scopo, come si è già più volte osservato, sarà dunque necessaria una generale semplificazione del linguaggio autoriale, ravvisabile sia negli interventi orali che negli scritti giornalistico-saggistici dell’autore, ormai non più nicchie privilegiate per una riflessione elevata, ma strumenti al servizio della sua crociata antropologica.

Dal punto di vista linguistico, allora, diviene interessante valutare come questa

128 G.C. Ferretti, Pasolini. L’universo orrendo cit., p. 93. 129 A. Tricomi, Orfani o carnefici di Pasolini? cit., p. 58.

130 A. Tricomi, Né ragazzini né altri. Nessuno salverà il mondo cit., p. 90.

131 P.P. Pasolini, Proposito di scrivere una poesia intitolata «I primi sei canti del Purgatorio», in Id., Trasumanar e

organizzar cit., p. 56.

132 A. Tricomi, Orfani o carnefici di Pasolini? cit., p. 50 133 F. La Porta, Pasolini cit., p. 108

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esigenza di comprensibilità da parte di un pubblico «medio» possa sposarsi con la radicata tendenza pasoliniana all’innovazione lessicale: ciò che emerge dall’analisi degli interventi autoriali riconducibili al biennio 1974-75 è appunto una persistenza, se non un aumento, delle neoformazioni lessicali pasoliniane, che tuttavia, nella quasi totalità dei casi, coincidono con neologismi semantici135.

Questa soluzione, adottata da Pasolini nei suoi ultimi anni di vita, coniuga appunto i due aspetti fondamentali, ma contrastanti, della sua personalità, ossia la vocazione onomaturgica e quella pedagogica: la prima può sopravvivere, e prosperare, solo cambiando segno, operando cioè mediante la risemantizzazione di termini già esistenti (e quindi verosimilmente conosciuti dal pubblico), la cui nuova accezione l’autore, in quanto pedagogo, si premura di spiegare e illustrare più volte. Il risultato della fusione di queste due istanze sarà appunto la formazione, negli ultimi anni di attività dell’autore, di una porzione di lessico talmente diffusa ed emblematica da essere stata accolta negli usi successivi come richiamo ed espressione delle più note tesi pasoliniane (si vedano voci quali «nuovo Potere», «Palazzo», «omologazione», «mutazione antropologica»).