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1.3.1 «La loro lingua è la lingua della menzogna»: potere e corruzione linguistica

1.3.8 Pasolini e la parola: l’infinita contraddizione

A partire da quest’ampia panoramica sulla fortissima presenza di una dimensione metalinguistica nell’intera produzione di Pasolini, si può osservare come essa si incarni in una serie di usi peculiari della lingua, tutti concorrenti a riaffermare il valore centrale e assoluto di una Parola capace di dare forma e sostanza all’esistenza.

«Io vivo nelle cose e invento, come posso, il modo di nominarle»197; questa è la

cifra di tutta l’esperienza linguistica di Pasolini, che in effetti vive e sperimenta la parola in molte forme diverse (e talvolta contraddittorie): dalla parola dialettale che «contiene in sé il mondo» alla parola evangelica che deve «entrare nelle teste» sull’onda della più appassionata violenza verbale, dalla parola orale, primitiva e vitale, il cui «fantasma percorre l’intera attività di Pasolini scrivente, scrivente sia con segni grafici che con immagini»198 alla parola «corsara» che dà scandalo, e fa così rinascere il sacro in un

orizzonte che pare averlo cancellato.

In tutte queste forme, essa resta comunque sempre al centro della sua esperienza artistica: anche quando egli cerca nuove forme espressive, quando nega la sacralità della lingua declassandola a semplice strumento di «traduzione» del Linguaggio della Realtà,

195 B. Voglino, Pasolini e la televisione: un amore negato, in A. Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 50. 196 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 137.

197 P.P. Pasolini, Scritti corsari cit., p. 73.

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oppure quando afferma di «essere passato al cinema per abbandonare l’italiano»199, di fatto

egli non rinuncia mai alla Parola, a saggiarne i confini e le capacità, fino quasi «ad avvertire il rischio dell’impossibilità di un’ulteriore espressione».200 La contraddizione, cifra

distintiva della sua intera opera, si fa infatti particolarmente evidente nel suo rapporto con l’espressione linguistica, in quel contrasto insanabile fra l’illimitatezza della realtà e il tormento della forma, ossia il limite (sempre sfidato) delle parole: è infatti «un’ossessione […] in lui genetica, biologica, sensuale, […] che lo attacca alla lingua – alla parola – nel momento in cui gli si prospetta innanzi il dramma della separazione dalla realtà.»201 Si

tratta di una contraddizione che però Pasolini non ha nessuna intenzione di sanare, perché proprio in essa risiede la possibilità di afferrare «l’infinita pluralità del mondo»202: la

contraddizione, infatti, è per lui un modello filosofico della realtà e della storia, oltre che dell’esistenza umana, per cui «nulla si perde»203, ma tutto convive, anche

contraddittoriamente; se per l’uomo «né prelogico né logico, ma reale», la legge fondante è l’impossibilità di conciliare tesi e antitesi nella consolante sintesi hegeliana («la tesi e l’antitesi convivono / con la sintesi: ecco la vera trinità»204), anche nella storia, che «è

evoluzione, continuo superamento dei dati», questi in realtà non vengono mai eliminati, ma «sono permanenti»205, così come avviene nella natura, dove «ogni cosa si giustappone

e coesiste»206.

Allora, per Pasolini, la forma più coerente di espressione della realtà è proprio la contraddizione stessa207, la non-scelta di un unico genere, di un’unica forma: come osserva

Fortini, infatti, «l’ispirazione, il moto primo di tutto quel che Pasolini scrive si fonda sull’antitesi», dal momento che il poeta, «nell’esperienza biografico-psicologica dell’antitesi e della contraddizione, scopre le incommensurabili possibilità stilistiche ed espressive del pastiche, della traduzione immaginaria, della “copia”»208. È per questo che

nella sua esperienza artistica «si avrà un’incessante relazione, o lacerazione, o reciproca

199 P.P. Pasolini, Pasolini e il cinema: al cuore della realtà, in F. Francione (a cura di), Pasolini sconosciuto cit., p. 42. 200 E. Liccioli, La scena della parola cit., p. 18.

201 Ibidem

202 F. Fortini, Attraverso Pasolini cit., p. 22. 203 P.P. Pasolini, Il sogno del centauro cit., p. 104. 204 P.P. Pasolini, Tutte le poesie cit.,

205 P.P. Pasolini, Il sogno del centauro cit., p. 77. 206 Ivi, p. 65.

207 Franco Fortini ha identificato nella sineciosi, ossia «l’ossimoro che non supera ma giustappone, lasciando coesistere gli opposti in tutta la loro incongruenza possibile» – B. Castaldo, Imputato Pasolini: un caso di diritto

e letteratura, in B. Lawton-M. Berganzoni (a cura di), Pier Paolo Pasolini. In living memory, Washington DC, New

Academia Publishing 2011, p. 245 – , la figura retorica che attraversa tutta l’opera pasoliniana, e che lo stesso Pasolini afferma di accettare (F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni, in «Il menabò di letteratura», n. 2, Torino 1960, poi con il titolo La contraddizione in Id., Attraverso Pasolini cit., pp. 21-37).

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combustione di tutti i generi, tutti gli stili, tutte le lingue»209, e proprio a «questa opera

totale», ossia all’accumulo di tutte le parole possibili, sarà affidato il compito di restituire «non solo la pluralità infinita del mondo, ma anche tutte le fasi dello stile – della vita – dell’autore»210:

Deducendo, sia pur schematicamente, la vita dallo stile, si può affermare che Pasolini vive storicamente, per accumulazione, e che il suo conoscere, non dialettico, è dovuto all’eterna coesistenza degli opposti.211

È così che la parola nelle sue mani si fa davvero evocazione di mondi molteplici e contrastanti, riflesso di «tutte le opposizioni secche che compongono natura, storia e individuo»212, oltre che contenitore di «tutte le fasi della sua inarrestabile peregrinazione

stilistica»213.

Esempio lampante della sua contraddittoria creatività, del continuo affacciarsi di nuovi stimoli, nuove idee, che non cancellano quelle precedenti ma vanno ad affiancarsi ad esse, è ad esempio il fatto che, proprio a metà degli anni Sessanta, nel bel mezzo di quella crisi in cui si fa più aspra la sua polemica contro l’inautenticità della lingua italiana, egli

erige un monumento alla parola con la stesura e la teorizzazione del suo teatro di Parola, nel quale la «poesia orale» viene costantemente invocata mediante l’esercizio puristico di una poesia scritta, per giunta, nell’ormai vecchio «italiano non nazionale».214

Il Manifesto per un nuovo teatro appare sul numero di gennaio-marzo 1968 di «Nuovi argomenti», e contiene la proposta pasoliniana di un «nuovo teatro», che dovrà opporsi da un lato al «teatro della chiacchiera», dove il vaniloquio dell’irrealtà borghese sostituisce «la Parola»215, dall’altro al «teatro del Gesto o dell’Urlo», dove «la parola è completamente

dissacrata, anzi distrutta, in favore della presenza fisica pura»216.

La sua novità consiste nell’essere, appunto, di Parola: nell’opporsi, cioè, ai due teatri tipici della borghesia, il teatro della Chiacchiera o il teatro del Gesto o dell’Urlo, che sono ricondotti a una sostanziale unità: a) dallo stesso pubblico (che il primo diverte, il secondo scandalizza), b) dal comune odio per la parola, (ipocrita il primo, irrazionale il secondo.217

209 E. Liccioli, La scena della parola cit., p. 25. 210 Ivi, p. 26.

211 P.P. Pasolini, Pasolini recensisce Pasolini, in «Il Giorno», 3 giugno 1971; ora in Id., Il portico della morte, a cura di C. Segre, Roma, Associazione «Fondo Pier Paolo Pasolini» 1988, p. 284.

212 E. Liccioli, La scena della parola cit., p. 27. 213 Ibidem

214 Ivi, p. 40.

215 Pasolini chiosa: «per esempio, anziché dire, senza humour, senza senso del ridicolo e senza buona educazione, “Vorrei morire”, si dice amaramente “Buona sera”»; P.P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in Id., Il sogno del centauro cit., p. 137.

216 Ibidem 217 Ivi, p. 144.

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Il teatro di Parola rimette invece al centro della scena «la parola onnipotente e taumaturgica e profetica del poeta che si vuole libero dai condizionamenti dell’industria culturale»218, anche mediante la rinuncia quasi totale all’azione scenica e la conseguente

«scomparsa della messinscena – luci, scenografia, costumi ecc.»219.

Dal punto di vista prettamente linguistico, poi, Pasolini contesta l’uso teatrale di un’unica pronuncia artificiale, convenzionale, assolutamente lontana dagli usi linguistici reali (ciò avviene, a suo parere, «per incolto estetismo, in parte per servilismo verso la tendenza nazionalistica dei suoi destinatari»220).

Il teatro tradizionale ha accettato questa convenzionalità dell’italiano orale, emanata, per così dire, per editto. Ha accettato, cioè, un italiano che non esiste. Su tale convenzionalità, ossia sul nulla, sull’inesistente, sul morto, essa ha fondato la convenzionalità della dizione. Il risultato è ripugnante. […] In teatro […] si pretende di “chiacchierare” in un italiano in cui in realtà nessuno chiacchiera (nemmeno a Firenze).221

In realtà, come si è visto, lo stesso Pasolini deve accettare «di scrivere dei testi in quella lingua convenzionale che è l’italiano scritto e letto (e solo saltuariamente assumere i dialetti, puramente orali, a livello delle lingue scritte e lette)»222, e addirittura rassegnarsi alla

contraddizione di un inesistente uso orale della lingua nazionale, «comportandosi così come il più abietto teatro borghese»223. Ecco allora che, ancora una volta, Pasolini si trova

impigliato in un meccanismo contraddittorio, addirittura duplice: da un lato, infatti, nonostante il suo invito a «evitare ogni purismo di pronuncia»224 e concentrarsi piuttosto

sul significato e il senso, egli si trova a impiegare una lingua letteraria dichiarata inattuale e una «ripugnante » convenzione orale, dall’altro questa scelta è operata in funzione di un pubblico borghese, sebbene il teatro di Parola nasca proprio allo scopo di «scavalcare la borghesia, rivolgendosi ad altri destinatari (intellettuali e operai)»225.

Del resto, lo stesso autore ammette di trovarsi ancora «avviluppato dalla borghesia», proprio perché i destinatari del teatro di Parola sono gli «intellettuali borghesi avanzati», ancora in grado di opporre alla massificazione culturale «un’aristocratica, e ahi, impopolare opposizione»226: un’élite, quindi, che Pasolini identifica con «le poche migliaia

di intellettuali di ogni città il cui interesse culturale sia magari ingenuo, provinciale, ma

218 F. De Melis, Pierpaolo Pasolini. Il "teatro di Parola" contro la chiacchiera e l'urlo,

http://videotecapasolini.blogspot.it/2013/08/pierpaolo-pasolini-il-teatro-di-parola.html. 219 P.P. Pasolini, Il sogno del centauro cit., p. 137.

220 Ivi, p. 142 221 Ivi, p. 141-142. 222 Ivi, p. 142. 223Ivi, p. 143. 224 Ivi, p. 139. 225 Ivi, p. 138.

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reale»227, e che dovrebbe essere in grado di fungere da tramite con la classe operaia cui,

«indirettamente e retoricamente», il teatro di Parola si rivolge.

In realtà, anche questa possibilità di empatia e condivisione con un ristretto gruppo intellettuale, o magari con quell’élite che più tardi si augura possa emergere «democraticamente» dalla massa, decade negli anni in cui l’omologazione dell’intera collettività alla norma piccolo-borghese appare ormai irreversibile, decretando così il tramonto dell’illusione pasoliniana di individuare un gruppo di soggetti illuminati e sinceramente progressisti cui indirizzare «il proprio discorso utopistico di trasformazione del presente»228. Infatti, è solo quando la trasformazione dell’intera società italiana in un

«popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale»229 costringe lo scrittore «ad accettare

l’inaccettabile»230, ossia la pervasività della degradazione sociale e morale degli italiani, che

egli deve infine ammettere la sua fatale estraneità all’intero corpo sociale231.

Per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata ad essi), sia al di fuori degli schemi populistici e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque «coi miei sensi» il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione.232

Allora, nel momento del più completo trionfo dell’irrealtà borghese, l’unica possibilità di resistenza all’omologazione disumanizzante è offerta ancora una volta dalla Parola poetica, capace in quanto tale di creare e abitare mondi sconosciuti, prospettando vie sempre nuove di scoperta e conoscenza del mondo.

1.3.9 «La morte non è / nel non poter comunicare / ma nel non poter

più essere compresi.»

Il Pasolini degli ultimi anni è dunque una figura drammaticamente, insuperabilmente sola, «inerme»233, anche se immerso nella folla, una folla a cui egli è

profondamente alieno:

227 P.P. Pasolini, Il sogno del centauro cit., p. 136.

228 A. Tricomi, Né ragazzini, né altri. Nessuno salverà il mondo. in A. Felice-A. Tricomi (a cura di), Lo scrittore al

tempo di Pasolini e oggi. Tra società delle lettere e solitudine, Venezia, Marsilio Editori 2018, p. 90.

229 P.P. Pasolini, Scritti corsari, p. 60. 230 P.P. Pasolini, Lettere luterane cit., p. 88.

231 Anche rispetto all’esistenza di un’élite intellettuale, nell’ultimo periodo della sua vita Pasolini si mostra molto disilluso: nell’articolo Fuori dal Palazzo, pubblicato sul «Corriere della Sera» il 1 agosto 1975, egli afferma che ormai «poche élites colte – socialiste o radicali o cattoliche avanzate – sono soffocate da una parte dal conformismo e dall’altra dalla disperazione»; P.P. Pasolini, Lettere luterane cit., p. 111.

232 P.P. Pasolini, Il sogno del centauro cit., p. 147. 233 P.P. Pasolini, Lettere luterane, p. 106.

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Non posso accettare nulla del mondo dove vivo: non solo gli apparati del centralismo statale, […] ma nemmeno le sue minoranze colte. Nella fattispecie, sono assolutamente estraneo al momento della cultura attuale. […] Diciamolo pure, sono rimasto isolato, a ingiallire con me stesso e la mia ripugnanza a parlare sia di impegno che di disimpegno.234

Eppure, anche questa disperazione, l’acuta percezione della morte della storia235,

non vanno lette, nel caso pasoliniano, come la cessazione di ogni forma di contatto con la realtà, o di possibile intervento: sebbene egli ammetta di stare ormai «dimenticando com’erano prima le cose», anche nell’attuale mondo in rovine236 tenta comunque di leggere

una possibilità di riscatto umano, individuandola in un rinnovato impegno pedagogico, condotto però mediante gli (aborriti) strumenti della modernità. D’altronde, questa è la sua unica possibilità di azione: l’alternativa, come afferma egli stesso, sarebbe «il suicidio dell’intellettuale, […] una teoria terroristica e ricattatoria, cui io non mi sottometterò mai».237 Piuttosto, un altro mondo, altri strumenti, richiedono evidentemente un altro tipo

di linguaggio, coniato appunto per fronteggiare una realtà sempre più opaca e illeggibile: «manovro per risistemare la mia vita. […] Adatto il mio impegno a una maggiore leggibilità»238 (come dirà altrove, «bisogna in qualche modo adattarsi a quella che si chiama

realtà per poter fare i conti con essa»239). Ed è proprio questa la chiave per comprendere

appieno la fondamentale trasformazione del linguaggio nell’ultimo Pasolini, radicalmente volta a una maggiore leggibilità: se la comunicazione immediata, diretta, empatica con la Realtà, un tempo tanto amata, è ormai impossibile, a causa dell’«angoscia dell’inautenticità, avvertita tanto nella vita sociale quanto nella lingua»240, non resta che tornare indietro,

ricreare il momento originario delle parole, forgiarle ex-novo, per restituire loro la perduta capacità di «contenere» la realtà. La pulsione di morte, sempre presente, come si è visto, nell’ultimo Pasolini, si rovescia allora nel suo opposto, in un impulso creatore, in una rivivificazione della lingua intesa come fonte e alimento di vita, al contempo individuale e collettiva. Così, proprio quando le sue certezze, intellettuali ed esistenziali, si infrangono contro una realtà irriconoscibile, un «universo orrendo», egli avverte la necessità

234 P.P. Pasolini, Empirismo eretico cit., p. 150.

235 Già nelle Ceneri di Gramsci Pasolini scrive: «Ma io, con il cuore cosciente / di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?» (P.P. Pasolini, Le ceneri

di Gramsci, Milano, Garzanti 2009, p. 63.; negli Scritti corsari replicherà a Fortini (il quale aveva intitolato il

suo intervento a una Tavola rotonda organizzata da «L’Epresso» nel giugno 1974 (a seguito della pubblicazione sul «Corriere» del controverso articolo pasoliniano Gli italiani non sono più que»lli) Ma smettila

di dire che la storia non c’è più): «Io smetterò di dire che la storia non c’è più quando Fortini la smetterà di

parlare col dito alzato.» (P.P.Pasolini, Scritti corsari cit., p. 58).

236 In una lettera a Gian Carlo Ferretti del, Pasolini definisce se stesso come «un autore messo di fronte alle rovine del suo mondo»; P.P. Pasolini, Lettere 1955-9875, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi 1988, p. 705. 237 Pasolini e il pubblico. Dibattito in studio con Pier Paolo Pasolini cit.

238 P.P. Pasolini, Lettere luterane, p. 88. 239 Ivi, p. 80.

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imprescindibile di inquadrarlo, ritagliarlo, strutturarlo mediante una lingua che si faccia ancora una volta tramite autentico fra sé e il reale, e che soprattutto torni a essere «luogo della fraternità»241, per rendere la sua verità condivisibile con gli altri.

Tutta la ricerca di Pasolini può essere vista in questa chiave, il tentativo di stabilire un rapporto di comunicazione che non è quello tradizionale che gli offrivano le forme tradizionali di rapporto tra letterato intellettuale e pubblico, dalle poesie in dialetto friulano, alle poesie. ai romanzi, al cinema, al problema del teatro, infine la scelta di scrivere articoli per il Corriere della sera e nella prima pagina del Corriere della sera, forme nuove di relazione, quindi comprensione del fatto che il linguaggio è appunto capacità di comunicare.242

La sua opera diviene così nell’ultimo periodo sempre più un’opera di divulgazione di massa, incentrata però su argomenti assai scomodi, a tratti terribili: egli parla di fascismo, di disperazione, di individui mostruosi, di un mondo orrendo, di Apocalisse. Ecco quindi che riemerge, con grande evidenza, il valore della parola portatrice di verità, di senso («le cose vanno dette non solo chiaramente, ma anche sinceramente»243), rispetto

a una lingua decaduta a volgare chiacchiera.

Vita e arte, ossia letteratura, cinema, saggistica, si intrecciano allora in una dimensione che, negli ultimi anni di vita dello scrittore, è decifrabile solo mediante uno specifico lessico pasoliniano, costituito da alcune parole-chiave corrispondenti ad altrettante categorie interpretative del reale.

Le scoperte del poeta confluiscono sempre più consapevolmente in un unico discorso- atteggiamento-scelta: la coincidenza della vita con la parola, il rifiuto della frattura (borghese) tra ideologia - politica - letteratura ed esistenza personale.244

Si è visto infatti come Pasolini si sforzi, nei suoi ultimi interventi (sia giornalistici che televisivi) di educare un pubblico sempre più ampio, ed è a questo scopo che, nei suoi scritti «corsari» e «luterani, egli recupera «l’italiano della tradizione colta e umanistica»245,

ossia quella lingua espressiva (e non piattamente «comunicativa») che sembrava destinata alla scomparsa, e che invece, in quanto lingua letteraria, incarna ancora il più prezioso patrimonio degli scrittori, «custodi ultimi dell’espressività in una società di massa»246. Si

tratta di una lingua calibrata però su un pubblico di medio livello socioculturale, che in

241 Parlando della lingua italiana, Pasolini osserva: «Quando dico che, pur lottando contro di essa, rimango profondamente legato all’istituzione linguistica, […], in quanto luogo della fraternità umana, esprimo soprattutto la nostalgia di questa fraternità perduta; P.P. Pasolini, Il sogno del centauro cit., p. 58.

242 R. Nicolini, Pasolini e Roma, in AA. VV., Per conoscere Pasolini, p. 13. 243 P.P. Pasolini, Interviste corsare cit., p. 260.

244 M. Bocchini, Pier Paolo Pasolini, una disperata passione 2 - Vita = Parola,

https://www.culturacattolica.it/letteratura/letteratura-storia-ed-autori/pier-paolo-pasolini/pier-paolo- pasolini-una-disperata-passione-2-vita-parola

245 P.P. Pasolini, Lettere luterane cit., p. 42.

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questo senso si differenzia da quella impiegata da Pasolini nelle sue opere precedenti, in quanto priva di deviazioni in senso aulico o in senso popolare; gli scritti giornalistici degli ultimi anni (quelli confluiti negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane), sembrano infatti amplificare il tono interlocutorio e le caratteristiche di comprensibilità tipiche dei dialoghi con i lettori degli anni Sessanta, indirizzandoli stavolta all’intera “massa” della nazione.

Se si osserva un passo tratto da un testo di Empirismo eretico247, appare ben chiaro

come qui un tema, poi caratteristico di tutta la produzione pasoliniana successiva (il ruolo – soprattutto politico – dei giovani nella società moderna), sia trattato ancora in modo piuttosto elaborato, per cui il ragionamento teorico si dispiega seguendo un ritmo serrato, che richiede al lettore un certo sforzo inferenziale e una competenza linguistica piuttosto alta:

Fino alla mia generazione compresa, i giovani avevano davanti a sé la borghesia come un «oggetto», un mondo «separato» (separato da loro, perché, naturalmente, parlo dei giovani esclusi: esclusi per un trauma: e pensiamo come trauma tipico quello di Lenin che ha visto il fratello impiccato dalle forze dell’ordine). Potevamo guardare la borghesia così, oggettivamente, dal di fuori (anche se eravamo orribilmente implicati con essa, storia, scuola, chiesa, angoscia): il modo per guardare oggettivamente la borghesia ci era offerto, secondo uno schema tipico, dallo «sguardo» posato su di essa da ciò che non era borghese: operai e contadini (quello che si sarebbe poi chiamato Terzo Mondo). Perciò noi, giovani intellettuali di venti o trenta anni fa […], potevamo essere antiborghesi anche al di fuori della borghesia: attraverso l’ottica offerta dalle altre classi sociali. […]. Di conseguenza abbiamo fatto, dell’odio traumatico verso la borghesia, anche una giusta prospettiva in cui integrare la nostra azione: in un futuro non evasivo. […] Per un giovane di oggi la cosa si pone diversamente: per lui è molto più difficile guardare la borghesia