1.3.1 «La loro lingua è la lingua della menzogna»: potere e corruzione linguistica
1.3.4 Riscoprire il sacro: un «sentimento poetico della realtà»
«Nei sogni,
e nel comportamento quotidiano, io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente.»Alla drammatica scomparsa del senso del sacro dalla realtà, soppiantato da una prospettiva esistenziale brutalmente materialista, Pasolini reagisce elaborando un nuovo concetto di realtà («è realista solo chi crede nel mito»91) proprio «in ragione della necessaria
inclusione del sacro nel suo orizzonte»92. Egli cerca quindi queste sopravvivenze del sacro
in tutto ciò che ancora mantiene un carattere liberatorio e rivelatore, ossia innanzitutto nel linguaggio del corpo, nei rituali sacrali dell’eros, che egli riesce a rappresentare soprattutto mediante il cinema: da Edipo re (1964) in poi, gli ultimi film di Pasolini costituiscono un’esplicita confessione della fascinazione che la sessualità esercita su di lui in quanto linguaggio puro, potente; in Teorema, un dio scende addirittura all’interno di una famiglia borghese, ossia nel cuore dell’irrealtà borghese, ed è un dio che si esprime con il linguaggio dell’eros, quasi incarnando l’utopia di una rivoluzione che, passando attraverso la corporalità, è in grado di sconvolgere il vacuo squallore della vita borghese93.
Nella prospettiva pasoliniana infatti il sesso, in quanto pulsione vitale originaria e «sede misteriosa dell’originaria donazione della vita, è il luogo in cui il sacro si dà in un’indissolubile unità alla vita stessa, alla sua fertilità»94, celebrando un gioioso rito
primordiale; si è inoltre già osservato come, nell’infantile esperienza dell’autore, il primo approccio all’eros sottenda «la rivelazione di quello sconosciuto archetipo che scopre essere la “lingua orale”»95, e questo spiega perfettamente come il Pasolini degli ultimi anni,
insieme all’insistenza sul sesso come epifania del sacro, si volga anche al recupero di quella dimensione primigenia, istintuale e autentica della parola che ha le sue radici nel
90 A. Zanzotto, Il mestiere di poeta, in Id., Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori 1999, p. 1127. 91 Ivi, p. 66.
92 C. Verbaro, La poesia come forma del sacro cit.
93 «Teorema» – spiega Pasolini– «parla di un’esperienza religiosa. Si tratta dell’arrivo di un visitatore divino dentro una famiglia borghese. Tale visitazione butta all’aria tutto quello che i borghesi sapevano di se stessi»; [intervista rilasciata a L. Peroni], in P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti-F. Zabagli, Milano, Mondadori 2001, II, p. 2931.
94 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 68. 95 Ivi, p. 67.
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«momento puramente orale della lingua»96, in quella continuità biologica da cui essa
prende «corpo e vita»97.
D’altra parte, come osserva Marco Belpoliti, in Pasolini il corpo e la parola costituiscono una perfetta unità, senza possibilità di scissione: «il corpo di parole e il corpo di carne sono per lui la medesima cosa: parola che si fa carne e carne che si fa parola»98,
in una totalità che è l’originaria, e più compiuta, espressione del sacro.
Allora, solo disconoscendo le mistificazioni operate dal moderno binomio lingua- potere, per ripristinare la perduta unità lingua/corpo/sacro, la parola può divenire parola poetica nel senso più profondo e vitale, ossia quello di “parola capace di cogliere e trasmettere il sacro”: solo «nel nominare della poesia», infatti, «il linguaggio stesso “parla” facendo pervenire le cose alla loro essenza»99.
Sembrerebbe, insomma, che in Pasolini, il lento processo di divaricazione tra Logos e
Mythos (iniziato molto prima di Platone e Aristotele), che ha relegato il Logos a discorso razionale,
logico e oggettivo, e il Mythos a racconto dell’inesistente e dell’impossibile si sia, in lui, interrotto per consentirgli il recupero del mitico, del magico e del simbolico. Ma non soltanto nella misura in cui ancora oggi se ne nutre la poesia, bensì con la fideistica convinzione che l’ideazione poetica e dunque simbolica coincida ancora, come nei primordi, con l’ideazione mitopoietica, quando, nella pienezza della sua forza evocativa, la parola «è» ciò che simboleggia.100
È allora di estrema importanza sottolineare come Pasolini, pur declinandola in modalità anche profondamente diverse, tenga sempre fede a questa idea di una funzione forte, evocativa e mitopoietica, della parola in quanto manifestazione dell’intuizione poetica; se nelle sue opere giovanili, in particolare nelle poesie dialettali, è di fatto il trascendente, ovvero il sacro insito nell’universo contadino, che «passa dentro la parola», e in particolare in quella poetica, «parola per eccellenza»101, nelle sue ultime opere, per
recuperare quest’ideale vocazione magico-simbolica, e quindi sacralizzante, della parola, egli si vede costretto, paradossalmente, a uscire dai tradizionali confini del genere poetico. A partire dagli anni Sessanta, infatti, Pasolini non intende più la poesia solo «come versificazione, bensì come qualità espressiva applicabile ai diversi linguaggi»;102 si tratta, in
effetti, di un’espansione della sua folgorante sensibilità “poetica”, di una modalità di interazione con il reale che Pasolini applica ai generi più diversi, non solo ai suoi testi poetici, che anzi perdono gradualmente le loro caratteristiche tradizionali (fino ad arrivare
96 P.P.Pasolini, Empirismo eretico cit., p. 70. 97 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 68.
98 M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Parma, Guanda 2010, p. 11. 99 Ivi, p. 62.
100 G. Zigaina, Pasolini e l’abiura. Il segno vivente e il poeta morto, Venezia, Marsilio 1993, p. 149. 101 N. De Cilia, In principio era il verbo (e il verbo era presso la madre) cit., p. 235.
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agli scritti giornalistici di Trasumanar e organizzar), rispondendo a una generale crisi della poesia come sfera autonoma e privilegiata dell’espressione.
Pasolini dichiara infatti ormai inutile la poesia in quanto manifestazione autoreferenziale, scissa dalla prassi: i versi da soli non bastano, hanno bisogno «della parola diretta dell’autore […] nonché della sua azione fuori da quei versi»103:
Ma la professione del poeta in quanto poeta / è sempre più insignificante. È proprio necessario / immettere quella lingua vivente in una lingua di convenzione, / perché poi si liberi, tornando quella che è, vivente, nel lettore? / Non sa, egli dialogare con la realtà?104
Egli allora non si limita a «uscire dal recinto dell’estetico»105, ma ne lacera i confini,
fino ad accogliere nella poesia tutto l’impuro possibile, sottomettendo a delle finalità pratiche.
Oh, fine pratico della mia poesia! / Per esso non so vincere l’ingenuità / che mi toglie prestigio, per esso la mia / lingua si crepa nell’ansietà / che io devo soffocare parlando. / Cerco nel mio cuore, solo ciò che ha! / A questo mi son ridotto: quando / scrivo poesia è per difendermi e lottare, / compromettendomi, rinunciando / a ogni antica mia dignità: appare / così, indifeso quel mio cuore elegiaco / di cui ho vergogna…106
Pasolini sembra quindi essere ormai convinto dell’inutilità della poesia intesa in senso tradizionale, concepita cioè come rispondente a determinati canoni estetico- stilistici; l’oggetto estetico perde di importanza, dal momento che l’autore intende ormai «gettare il suo corpo nella lotta»107, ossia intervenire direttamente nel reale:
Se la poesia, intesa come arte della parola capace di farsi portatrice di punti di vista «altri» sul mondo, ha ancora qualche chance, è solo uscendo fuori da quel recinto, facendosi strumento dell’azione.108
Questo processo di apertura dei limiti della poesia avviene però in entrambe le direzioni: non solo la poesia accoglie dentro di sé elementi estranei, sottraendosi all’obbligo dello stile e facendosi quindi essa stessa azione, ma agisce nel mondo contaminando altri generi espressivi, rendendoli partecipi del proprio sguardo «diverso»: ad esempio, alla volontà di proporre il cinema come «lingua scritta della realtà» corrisponde l’intenzione «poetica» di rappresentare il linguaggio della realtà in quanto ierofania, «prospettiva secondo cui il cinema dovrebbe assumere le identiche
103 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 142.
104 P.P. Pasolini, Poeta delle ceneri, in Id., Tutte le poesie cit., II. p. 1277. 105 Cfr. C. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p.143.
106 P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa cit., p. 35. 107 P.P. Pasolini, Tutte le poesie cit., II, p. 1287. 108 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 143.
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caratteristiche del mito, e cioè descrivere le varie forme attraverso cui il sacro si manifesta nel mondo»109.
Si osserverà allora come in Pasolini il termine «poesia» venga spesso utilizzato al di fuori dei sui confini tradizionali, per designare appunto «una specifica modalità di relazione col reale e uno stile conoscitivo, applicabili ai più diversi generi»110: un
«sentimento poetico della realtà» che si configura come «un sentimento difficile da definire ma che rinvia a un momento di invenzione, di capacità evocativa, di folgorazione visiva, di intuizione immediata delle cose.»111 È proprio in questo atteggiamento poetico verso il
reale, in questa disposizione quasi mistica verso le cose, che si cela la possibilità di coglierne la sacralità: «il reale si rivela sacro perché la disposizione poetica è già insita in chi guarda»112, e si rende disponibile affinché «le cose gli vengano incontro»113.
A partire da una tale prospettiva, è possibile osservare un doppio binario attraverso cui si manifesta, in Pasolini, questa volontà «poetica» di accedere a quell’«alterità irriducibile, inappropriabile della realtà quotidiana»114, che è appunto il senso di «un sacro
immanente, celato nel reale»115: da un lato, infatti, la sua visione poetica si estende a tutti i
canali espressivi sperimentati dall’autore116, e in particolare al cinema cosiddetto «di
poesia»117, dall’altro essa si sovrappone alla sua esigenza, primaria e sempre presente, di
impiegare la parola come strumento per accedere alla realtà in profondità, per decifrarla e renderla leggibile anche nei suoi aspetti più oscuri e irrazionali («egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente»118), e insieme riforgiarla, ricrearla, per far sì che le
cose possano di nuovo “apparire” nella loro essenza più vera, sottraendole alla pura strumentalità.
109 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 79. 110 http://www.leparoleelecose.it/?p=30245
111 F. La Porta, Pasolini, Bologna, Il Mulino 2012, p. 44. 112 M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi cit., p. 158. 113 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 67. 114 F. La Porta, Il sacro è la realtà stessa cit., p. 38. 115 Ibidem
116 Osserva a questo proposito Zanzotto che «Pasolini raccolse in pieno, pur negandola apparentemente […] la sfida “avanguardistica” della dilatazione dell’area della poesia al di là della sua particolare
connessione al fatto linguistico»; A. Zanzotto, Pasolini poeta, in Id., Aure e disincanti nel Novecento italiano, Milano, Mondadori 1994, p. 153.
117 «Rivolgendosi al cinema Pasolini non smette di scrivere, anzi più propriamente continua a tradurre la realtà, il sacro che parla in una forma non verbale, e chiama il poeta con il suo silenzioso, misterioso ed enigmatico dire, per farsi esprimere in forma verbale e umana, cioè culturale. Si passa “semplicemente” dalla lingua scritto-parlata, in cui il poeta traduce per evocazione la chiamata del sacro colta nella lingua orale, a quella audiovisiva, dove il medesimo appello è avvertito come lingua dell’azione che deve essere tradotta per riproduzione»; G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 81.
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Viene [quindi] affermata quale principale prerogativa del poeta […] la capacità di scegliere il modo più autentico per fare esperienza del linguaggio, che nel dire poetico si esprime come purezza della parola e si offre come testimonianza della Realtà119.
Solo colui che usa la parola consapevolmente, che è ancora in grado di «penetrare nel linguaggio, indagarlo, interrogarlo», può essere allora definito poeta, poiché è in grado di rispondere all’appello del «dire» primordiale, consentendogli di «risuonare nelle parole dell’uomo cor-rispondente»120 e mutare così «il rapporto dell’uomo con il mondo e con le
cose»121.
La parola pasoliniana è pertanto una parola che vuol essere il più possibile vicina a quella orale, in cui risuona la chiamata del sacro in quanto «dire», e al tempo stesso simile alla parola evangelica che sferza e arringa; solo così, infatti, la parola può essere «glorificata»122, ovvero recuperare la sua dimensione sacrale e portare a compimento
l’identificazione del parlare con l’essere, «fondando quindi la realtà dell’essere «sull’essenza ideale del Verbo»123.
Nei suoi ultimi scritti, Pasolini cerca infatti una lingua capace di condensare «parola ed essere, […] Verbo divino e Carne umana»124:
Una lingua animata, attraverso la dissacrazione, dal senso del sacro. Una lingua ironica ed autoironica, perché cosciente del fatto che oggi, nella nostra società, è praticamente impossibile parlare sul serio, e nello stesso tempo, una lingua che di tale coscienza soffre, volendosi ed essendo nell’animo terribilmente seria. Una lingua che no dissimula un mestiere letterariamente e filologicamente scaltrito, ma che si offre disarmata, indifesa: astuta come il serpente e innocente come la colomba.125
Si assiste allora in Pasolini al recupero di una parola provocatrice, dissacrante, che proprio in quanto tale «presuppone un senso nostalgico del sacro», perché «il sacro, esso sì, e soltanto esso» possiede davvero il potere di scandalizzare la gente comune, «le decine di migliaia di piccoli borghesi che tutte le sere si confermano nella propria stupida “idea di sé” davanti al video»126: ecco che allora alla parola rivelatrice e scandalosa, pienamente
unita «all’altro elemento sacro costituito dal corpo»127, è infine demandato il compito di
119 G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro cit., p. 62. 120 Ibidem
121 Ibidem
122 P.P. Pasolini, Affabulazione, Torino, Einaudi 1992, p. 58.
123 A Roncaglia, Parola poetica e discorso vitale, in AA. VV., Per conoscere Pasolini, Roma, Bulzoni & Teatro Tenda Editori 1978, p. 23.
124 Ivi, p. 21. 125 Ibidem
126 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 130. 127 M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi cit., p. 159.
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individuare e far vivere, provocatoriamente e dolorosamente, quei sacri «demoni» che ancora si aggirano fra le rovine della Dopostoria.