1.3.1 «La loro lingua è la lingua della menzogna»: potere e corruzione linguistica
1.3.7 La profezia rovesciata: nel regno dell’«iperespressività»
La tv conosciuta da Pasolini, infatti, che ai suoi occhi incarna il punto d’arrivo di quel processo di omologazione e appiattimento del pensiero denunciato a partire dagli anni Sessanta, è in realtà appena all’inizio di uno sviluppo che la porterà a essere un mezzo tremendamente invasivo, capace di penetrare e sconvolgere il pensiero degli spettatori, selezionando ciò che devono recepire e ciò che invece devono dimenticare nella contemplazione inebetita dello schermo, sull’onda di un ininterrotto, onnipervasivo, fluire di immagini e parole. L’uso continuo di questo strumento, in maniera spesso indipendente dal contenuto, ha ormai creato una forma di dipendenza totale degli individui da forme di pensiero, di linguaggio e di comportamento che vengono generate altrove, e che non si è più disposti a vagliare criticamente né, forse, capaci di farlo.
Non ha allora molto senso, in particolar modo rispetto all’evoluzione della televisione e del suo linguaggio, cercare di valutare le riflessioni pasoliniane giudicandole alla stregua di profezie: piuttosto, «Pasolini aveva un dono unico: quello di intuire ciò che stava accadendo in quel preciso momento, quando tutti erano attardati su qualcos’altro»175.
Lo si è visto nella sua analisi, tragicamente vera, della perdita di un contatto diretto
173 G. Manzoli, Profezie che si autodeterminano, in A. Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p, 22.
174 A proposito della durissima e precoce critica pasoliniana alla tv, Giacomo Manzoli ha parlato di una «profezia che si autodetermina», sottolineando come proprio un tale atteggiamento di rifiuto radicale possa aver contribuito «a un ritardo e a una sostanziale repulsione nei confronti del mezzo che ha favorito molti dei processi nefasti che hanno portato la televisione italiana a essere ciò che è oggi»; G. Manzoli, Profezie che
si autodeterminano cit., p. 24.
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dell’uomo con la realtà, del declino della religione e dello smarrimento del senso del sacro ormai trasferito alle merci, delle trasformazioni in atto nella lingua in quanto manifestazione di un degrado ideologico e culturale e dell’affermazione di una società massificata e schiava del consumismo.
Se molti particolari del linguaggio televisivo segnalati da Pasolini ci appaiono oggi in effetti completamente rovesciati (basti pensare alle sue descrizioni di una lingua piatta, grigia, inespressiva), occorre tenere nel debito conto il fatto che egli rivolge la sua analisi (peraltro poi rivelatasi, nelle sue linee generali, assai acuta e lungimirante) a un modello televisivo del tutto nuovo e instabile, suscettibile di continui mutamenti poi intervenuti a una velocità inimmaginabile, e in diretta connessione con paralleli fenomeni di costume (diverse modalità di aggregazione sociale, soprattutto giovanile, esasperazione del consumismo e dell’omologazione, dilagare della pubblicità) e con l’avvento di modalità di comunicazione un tempo impensabili (affermazione delle nuove tecnologie e dei social media, tendenza della comunicazione ad assestarsi su forme estremamente rapide, stereotipiche, irriflesse e dominate dall’ossessione per «l’io e il “parlar di sé”»176).
La televisione conosciuta da Pasolini, dove impera una lingua fondata su istanze comunicative piuttosto che espressive, e il cui andamento sintattico ripete moduli sempre uguali, con relativa perdita della spontanea vivacità del parlato, corrisponde infatti alla stagione della paleotelevisione (in cui peraltro lo stesso Pasolini aveva già riconosciuto un avvicendamento fra la fase in cui la tv funzionava ancora da modello di «un bell’italiano, grammaticalmente puro», a quella in cui propone un italiano povero e standardizzato): queste caratteristiche sembrano mutare già a partire dagli anni Settanta, col passaggio alla neotelevisione, quando la tv inizia a rispecchiare, anzi ad amplificare, il plurilinguismo insito nella società italiana, accogliendo in misura sempre maggiore anche tratti dell’italiano popolare e colloquiale. A partire dalla fine degli anni Novanta, invece, con l’avvio della stagione della neo-neotelevisione, nella lingua televisiva sembrano penetrare solo gli elementi più informali, trascurati e caricaturali, che «al parlato fanno solo il verso»177, insieme a codici precedentemente stigmatizzati, come i dialetti o alcune varietà
paragergali (primo fra tutti il cosiddetto “giovanilese”, o lingua dei giovani178); oggi, quindi, l’italiano della televisione è decisamente proiettato nella direzione dell’iperparlato, di un parlato, cioè, che enfatizza le caratteristiche espressive, emotive, informali del parlato quotidiano, e si realizza prevalentemente in modalità estreme dell’interazione orale (con lo sviluppo
176 A. Sobrero, L’italiano dopo mezzo secolo di tv cit., p. 96.
177 G. Antonelli, L’italiano della televisione dopo Pasolini, in A. Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 106. 178 Sulla lingua dei giovani, o “giovanilese”, cfr. almeno L. Coveri, Prospettive per una definizione del linguaggio
giovanile in Italia, in G. Holtus-E. Radtke (a cura di), Varietätenlinguistik des Italienischen, Tübingen, Narr
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programmato di litigi, confessioni di basso spessore, risse verbali). La lingua televisiva, dunque, si è spostata da un livello comunicativo a un livello espressivo (anzi esasperatamente espressivo), con un percorso a ritroso rispetto a quello osservato negli anni Sessanta da Pasolini.179
La lingua televisiva appare così fortemente incentrata sulla sfera espressiva, emotiva, permeata com’è dal desiderio di stupire, emozionare e coinvolgere lo spettatore, certo non di educarlo; per questo essa ammette l’impiego di pronunce dialettali artefatte ed esasperate, di tormentoni caricaturali, dei più bassi registri colloquiali e perfino del turpiloquio, o meglio di una generale volgarità (ben diversa da quella lamentata ai suoi tempi da Pasolini). La televisione diventa così sempre più uno «specchio deformante» degli usi linguistici reali:
dal centralismo si è passati all’anarchia (in fatto di lingua, tutto è tollerato dalla neoneotelevisione, tranne la bestemmia); dal perbenismo alla sguaiatezza; dalla rimozione dello scandalo alla ricerca dello scandalo a tutti i costi; dal grigiore burocratico all’iperespressività artefatta.180
Proprio in quanto «specchio deformato», ma sempre «passivo, di comportamenti linguistici elaborati e maturati altrove», essa ha ormai perso il prestigio del modello linguistico, come ben sottolinea Alberto Sobrero:
I più giovani hanno molte altre fonti di lingua, più attraenti, “amichevoli”, interattive (dai blog a Facebook, alla comunicazione multimodale – e multi… tutto – dei social network, degli i- e degli e-): tutte hanno un prestigio, agli occhi dei giovani, molto maggiore della tv. […] Più incisive, perché non sono strumenti passivi come la tv, ma sono interattivi, e dunque hanno possibilità formative – ma anche deformanti – molto maggiori.181
Tutte queste trasformazioni, che hanno coinvolto la televisione e la sua lingua, se da un lato rendono anacronistici alcuni dettagli della visione pasoliniana, dall’altro evidenziano invece la sua capacità di intuire l’eccezionale presa che la televisione avrebbe avuto sulla coscienza collettiva, corrompendola e involgarendola; egli legge infatti il presente come premessa di ciò che la televisione diventerà, ne riconosce subito la natura, non tanto di «“mezzo tecnico”», ma di «strumento del potere e potere essa stessa»182, poi
deflagrato con modalità un tempo imprevedibili. Anche dal punto di vista linguistico, in effetti,
viene il dubbio che – nel profondo – quanto è accaduto alla lingua della televisione sia proprio il risultato (per lui imprevisto) delle premesse che Pasolini aveva descritto. Dapprima, in effetti, la televisione la lavorato per imporre «i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili
179 M.A. Cortelazzo, Nuove questioni linguistiche e televisione, in A. Felice (a cura di), Pasolini e la televisione cit., p. 115.
180 G. Antonelli, L’italiano della televisione dopo Pasolini cit., p. 106. 181 A. Sobrero, L’italiano dopo mezzo secolo di tv cit., p. 99. 182 P.P. Pasolini, Scritti corsari cit., p. 24.
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altre ideologie che quella del consumo» (paleotelevisione). Poi, a trasformazione avvenuta (ovvero: una volta plasmati – grazie alla neotelevisione – i cittadini consumatori), ha preferito rassicurarli gratificandone il narcisismo e ha offerto loro lo specchio del ricalco espressivo: «la televisione parla come me», deve pensare oggi chi la guarda, «e io parlo come lei».183
In effetti, già alla fine del 1975 Pasolini scriveva ironicamente sul Corriere che l’unica soluzione per evitare proprio questa fatale omologazione («la televisione parla come me-io parlo come lei») sarebbe stata quella di abolire, almeno provvisoriamente, sia la televisione che la scuola dell’obbligo, in quanto organi di diffusione culturale volti alla promozione dell’unico modello identitario piccolo-borghese, al quale veniva sacrificato senza rimpianti il pluralismo sociolinguistico della nazione (sono tematiche che lo scrittore avrebbe ripreso pochi giorni dopo nel già citato incontro di Lecce dedicato al Volgar’eloquio, osservando fra l’altro che «i quattro in italiano […], nelle scuole superiori, non si devono dare più perché i temi sono infarciti di dialettismi […], bisogna dare tre a chi parla come Mike Bongiorno»184).
In effetti, a distanza di molti anni possiamo constatare come l’effettivo impoverimento del messaggio televisivo, non soltanto dal punto di vista linguistico ma anche da quello culturale, sia dovuto proprio a quello che Pasolini (già nel 1966) chiamava «il Terrore che regna prima del video e dentro il video»185, e che si può intendere proprio
come il ripudio di tutto ciò che è diverso (Pasolini parla appunto di «terrore e condanna del Diverso»186), ossia che non si omologa ai dettami del Potere. È il Terrore che impedisce
«di pronunciare parole, di affrontare argomenti»187, di deviare dalle norme morali e
linguistiche volte ad assicurare il rassicurante dominio dell’unico modello di vita piccolo- borghese («il video è una fonte perpetua di rappresentazione di esempi di vita e ideologia piccolo borghese»188). Ora, è innegabile che questo Terrore abbia agito e continua ad agire al fondo
di ogni manifestazione televisiva, e in particolar modo dal punto di vista linguistico, sebbene con modalità diverse nel tempo: mentre Pasolini paventava l’appiattimento della ricchezza linguistica del paese sul modello freddo e inespressivo della «lingua del telegiornale», oggi assistiamo al trionfo dell’iperespressività («quasi tutto è ricerca ossessiva di espressività. Esasperata e deformata nelle più svariate direzioni: disfemistica, giovanilistica, iperemotiva, gergale, sintatticamente disorganizzata, testualmente
183 G. Antonelli, L’italiano della televisione dopo Pasolini cit., p. 107. 184 Ivi, pp. 31-32.
185 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 138. 186 Ivi., p. 139.
187 Ivi., p. 138.
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frantumata…»189), eppure il sostrato di entrambi questi fenomeni linguistici resta sempre
ciò che egli denunciava come uno spaventoso vuoto di contenuti, confezionato ad arte per ingannare e plagiare lo spettatore.
C’è nel profondo della cosiddetta «tv» qualcosa di simile allo spirito dell’Inquisizione: una divisione netta, radicale, fatta con l’accetta, tra coloro che possono passare e coloro che non possono passare: può passare solo chi è imbecille, ipocrita, capace di dire frasi e parole che sono puro suono; oppure chi sa tacere – o tacere in ogni momento del suo parlare – o tacere al momento opportuno.190
Frasi e parole che sono «puro suono», o anche discorsi talmente vacui da equivalere a silenzi, sono esattamente ciò che caratterizza anche oggi la lingua della televisione, nell’epoca dell’«espressività di massa»191; sono cambiate le forme, ma la
sostanza resta.
L’intero sistema della comunicazione è divenuto «un grande gioco», i cui toni sono sempre esasperati e infantili. […] Il linguaggio della televisione è ormai quello di un’interminabile liturgia di massa, priva di profondità psicologica, immune da “veri” contrasti. […] Una volta giunti sullo schermo, non conta ciò che si è in grado di esprimere: lo scopo è già raggiunto, perché il problema […] non sta nel contenuto, ma nella cornice.192
Allo stesso modo, nel 1966 Pasolini parlava di una lingua che non serve a «dire nulla se non il dire in sé e per sé», ossia «una globale e informe tendenza a dir qualcosa, il cui succo rimane nella testa dello spettatore come una verità posta altrove»193; allora, sia
che tenda a una comunicatività piatta e monotona, sia che debordi in una tronfia espressività, la lingua della tv non si fa mai portatrice di un pensiero critico, non suscita riflessione, non dirige le menti verso la realtà, ma propone e ripropone banalità e modelli stereotipati, che mediante la combinazione parola/immagine penetrano nelle coscienze (o meglio nell’inconscio) con la straordinaria intensità un tempo riservata solo al sacro.
La televisione, infatti, spodesta il sacro dagli spazi che tradizionalmente gli erano riservati per assumerne in parte il potere, quello di determinare la «corrispondenza emotiva fra mondo e individuo»194: strumentalizzando le immagini trasmesse, che sono
sempre parziali e fuorvianti, trasformando l’aspetto fisico di coloro che appaiono in tv, svuotando il linguaggio del suo potere, essa deturpa e annichilisce la realtà: niente è più reale, né le immagini, né le parole.
189 A. Sobrero, L’italiano dopo mezzo secolo di tv cit., p. 93. 190 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 131.
191 P.P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche cit., p. 95. 192 G. Policardo, Schermi corsari cit., pp. 143-144. 193 P.P. Pasolini, Contro la televisione cit., p. 136.
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Pasolini ripete a Biagi: «no, non posso dire tutto quello che voglio»; egli percepisce infatti, drammaticamente, che la televisione non è né vuole essere veicolo di verità, piuttosto
è sempre indottrinamento, propaganda, pubblicità. In quanto tale, è un potente acceleratore sociale che coltiva atteggiamenti di fondo e contribuisce in modo decisivo alla rappresentazione di noi stessi, alla formulazione dei nostri sogni, dei nostri desideri, alla costruzione della nostra personalità e della nostra visione del mondo.195
Eppure, nei suoi ultimi anni Pasolini darà vita a una delle sue contraddizioni più spettacolari, scommettendo proprio sulla televisione per riaffermare la propria utopia pedagogica: trasformando il luogo da cui il Diavolo irradia il suo potere mortifero in un pulpito dal quale scuotere e arringare le masse, infatti, egli tenterà l’impresa impossibile di far “parlare” proprio quel mezzo che non sa dire «alcuna parola vera»196, impiegandolo
per diffondere e amplificare il suo messaggio scandaloso e terribile, e proprio per questo capace di restituire verità e sacralità alla Parola.