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1.1 «Cantare è esistere»: l’espressione linguistica come fonte di vita

1.1.9 L’inizio e la fine: la poesia neodialettale

Il dialetto ha dunque per Pasolini innanzitutto il valore di uno strumento personale, che gli rende possibile accedere alla zona segreta dell’inesprimibile e dell’intraducibile, alla «melodia infinita»285 racchiusa nelle cose: tuttavia, dietro il testo in

dialetto egli lascia sempre affiorare l’italiano, sia nelle immancabili traduzioni delle poesie (presenti sia nelle Poesie a Casarsa che in tutti i testi della Meglio Gioventù, fino alla Nuova Gioventù del 1972) che nei i titoli dei componimenti (sia nel testo che nell’indice, con due sole eccezioni) delle Poesie a Casarsa.

Pasolini, infatti, nella sua operazione sperimentale sul dialetto friulano (che mira ad allontanarlo sia dal livello vernacolare che dalla piattezza della koinè accettata a livello regionale), si pone nell’ottica di una vera e propria traduzione dalla lingua letteraria, intesa come «trasferimento della materia poetica da un piano all’altro, di pari livello»286;

279 P.P. Pasolini (a cura di), Poesia dialettale del Novecento cit., p. CXXVIII. 280 F. Brevini, La poesia in dialetto cit., p. 15.

281 P.P. Pasolini, Dialet, lenga e stil, in «Stroligùt de ca da l’aga», aprile 1944, p. 5; ora in P.P. Pasolini, Saggi

sulla letteratura e sull’arte cit., I, pp. 61-67, p. 65.

282 P.P. Pasolini, Antologia della lirica pascoliana cit., p. 64. 283 Ivi, p. 67.

284 F. Cadel, La lingua dei desideri cit., p. 39. 285 P.P. Pasolini, Lettere (1949-1954) cit., p. 210.

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l’ambiguità, irrisolta, fra traducibile e intraducibile permette allora al poeta di operare contemporaneamente sia sul piano dell’indefinitezza estetica, ossia dell’intraducibile, che su quello di una corrispondenza con la lingua italiana, la matrice che surrettiziamente genera il testo friulano:

Il casarsese, con «i pallori, gli éclats improvvisi, le ambigue sordità, le rozzezze, i cipigli delle sillabe di una parlata portata d’un tratto alla luce della parola» suggestiona il poeta per queste sue caratteristiche di lingua intraducibile, ma si dà al contempo come strumento di traduzione.287

Questo confronto, sempre riaffiorante, con la lingua tetto, è indice della volontà pasoliniana di innestare direttamente la sua poesia sul «tronco della tradizione letteraria italiana»288, per guadagnarle una pari dignità rispetto a essa e non lasciarla cadere nel

magma della poesia dialettale romantico-veristica, sempre arretrata rispetto a quella in lingua, e all’interno della quale

il poeta dialettale tende a realizzare artificialmente questa intensificazione pseudo-poetica della lingua nei parlanti in rapporto non puramente strumentale, e trasferisce dentro gli schemi letterari interi pezzi di quella realtà di lessico, di gergo, come per una documentazione. C’è nel poeta dialettale medio il terrore di essere linguisticamente diverso. Di non obbedire rigidamente a quel codice d’onore linguistico.289

Questa passata arretratezza della poesia dialettale rispetto alla poesia in lingua, i cui stimoli innovativi venivano recepiti e realizzati dalle letterature dialettali con costante ritardo, è appunto destinata a essere superata con la poesia neodialettale, che «si inscrive nei registri della modernità letteraria, risultando sostanzialmente indistinguibile dalla poesia in lingua, non fosse che per il codice utilizzato.»290

Come rileva infatti Giovanni Testi nella sua Prefazione alla Poesia dialettale del Novecento, ormai «il poeta in dialetto vive nello stesso orizzonte euristico del poeta in lingua: non si parte dal dialetto per raggiungere la poesia, ma si scopre il dialetto mentre si cerca la poesia»291.

È lo stesso Pasolini, autorevolmente sostenuto da Gianfranco Contini, primo recensore delle Poesie a Casarsa, a stilare il manifesto di questa nuova poesia, collocando se stesso e il circolo dei poeti friulani al culmine della sua ricognizione sul Novecento dialettale:

Ecco la rottura linguistica, il ritorno a una lingua più vicina al mondo. Da tutto questo, data l’estrema vicinanza al linguistico italiano, doveva però nascere quella che è forse la più tipica poesia dialettale contemporanea: il dialetto usato come un genere letterario, «atto a ottenere una

287 P.P. Pasolini, Sulla poesia dialettale cit., p. 252.

288 P.P. Pasolini, Lettera dal Friuli, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte cit., I, p. 174. 289 P.P. Pasolini (a cura di), Poesia dialettale del Novecento cit., p. LXIV.

290 F. Brevini, La poesia in dialetto cit., p. 13.

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poesia diversa»; e nello stesso tempo l’attuazione, in questo dialetto, di certi motivi novecenteschi rimasti un po’ latenti in italiano […]292

Indubbiamente, alla proposta pasoliniana si deve la piena legittimazione della poesia dialettale, ormai svincolata da un romanticismo lacrimoso e da un realismo bozzettistico e populista; è evidente, d’altro canto, come la sua collocazione nel panorama novecentesco miri a collegare la riflessione critica con la propria ipotesi stilistica, facendo quindi discendere l’inquadramento della propria poetica da un più ampio, e dettagliatissimo, affresco corale, storicamente, geograficamente e tematicamente determinato.

A questo proposito, Pier Vincenzo Mengaldo osserva come si debba al recupero e all’inquadramento teorico pasoliniano, «che un venticinquennio di studi non ha mutato in nulla d’essenziale, […] il nostro attuale interesse per la poesia dialettale moderna in Italia, la nostra coscienza della sua pari dignità (e insieme della sua potenziale diversità) rispetto a quella in lingua»293.

Franco Brevini, dal canto suo, pur avanzando qualche incertezza sull’effettivo primato di Pasolini come fondatore della poesia neodialettale (nella sua monumentale antologia di poeti dialettali, egli indica piuttosto Antonio Guerra, con la sua «lingua della realtà», come «primo esponente della stagione neodialettale») e retrodatando agli anni Dieci (con Virgilio Giotto e Biagio Marin) «la vera svolta» destinata a inaugurare la stagione della «più caratteristica poesia dialettale novecentesca», nondimeno riconosce come «il successo della dialettalità lirica nella seconda metà del secolo sia andato di conserva con il consenso riscosso dal canone storiografico da lui accreditato.»294

È quindi grazie all’impegno dialettologico di Pasolini che oggi l’impiego, un tempo scandaloso, del dialetto come «lingua della poesia» è ormai un dato acquisito, e largamente accettato: a questo proposito, Lorenzo Coveri fa riferimento proprio all’opera pasoliniana come punto d’avvio della letteratura «neodialettale», che certamente oggi mostra, rispetto all’epoca d’oro della seconda metà del Novecento, un lento declino (Brevini parla a questo proposito di «canto del cigno dei dialetti»295), e tuttavia rappresenta uno degli usi

contemporanei in cui il dialetto riemerge, in situazioni di prevalente italofonia, come

292 Ivi, p. CXXVIII.

293 P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Nuova serie, Firenze, Vallecchi 1987, p. 441.

294 F. Brevini, L’interpretazione di Pasolini, in Id. (a cura di) La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, Milano, Mondadori 1999, III p. 3162.

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sopravvivenza, «risorgenza»296, frammento, ossia come lingua seconda, in ambiti d’uso

inediti e un tempo preclusi297.

Tornando all’esperienza pasoliniana in ambito dialettale, sarà utile ricordare che il suo impegno erudito non si conclude affatto con l’Antologia, ma che egli continua la sua esplorazione teorica del panorama poetico dialettale mediante diversi contributi saggistici e critici; di particolare interesse, in quanto esperimento di taglio giornalistico, è una singolare inchiesta (denominata «Il nostro referendum») apparsa fra il 1952 e il 1953 su «Il Belli», una delle tante riviste ideate da Mario dell’Arco: in tre numeri successivi, appaiono le risposte di 14 poeti dialettali (Aldo Spallicci, Cesare Vivaldi, Edoardo Firpo, Domenico Naldini, Emilio Guicciardi, Ferdinando Palmieri, Eugenio Cirese, Biagio Marin, Livio Rizzi, Vittorio Clemente, Novella A. Cantarutti, Giacinto Gambirasio, Cesare Mainardi; Antonio Guerra) a una serie di domande poste loro da Pasolini (1. «Perché scrivi in dialetto anziché nella lingua letteraria?» 2. «La tua poesia (secondo te) fa parte della letteratura italiana o di una letteratura regionale?» 3. «Supponi che ci siano delle speciali istanze di impegno sociale nell’uso del dialetto?») in merito alla loro esperienza artistica e linguistica298.

La conclusione di questa inchiesta vede Pasolini incline a prevedere un orientamento della poesia dialettale verso una crescente attenuazione del «romanticismo antiquato e provinciale» così come di un «realismo bozzettistico e populista»299; notevole

è, ancora una volta, la selezione degli intervistati, personalità che, a distanza di cinquant’anni, appariranno nell’antologia di Brevini, a conferma della sensibilità pasoliniana e del suo acume nell’individuare le voci dialettali più rappresentative; citando

296 Il termine è mutuato da G. Berruto, Quale dialetto per l’Italia del Duemila? Aspetti dell’italianizzazione e risorgenze

dialettali in Piemonte (e altrove), in A. Sobrero-A. Miglietta, (a cura di), Lingua e dialetto nell’Italia del Duemila.

Galatina, Congedo 2006, pp. 101-128.

297 Cfr. L. Coveri, Dalla parte delle radici. Risorgenze dialettali a Genova e in Liguria (ma non solo), in G. Marcato (a cura di), Lingua e dialetti nelle regioni, Padova, CLEUP, 2013, pp. 137-144.

298 A questa indagine faranno poi seguito, nel biennio 1953-54, due piccole inchieste inerenti invece la poesia popolare; la prima di esse, Poesia popolare e cultura di massa, fu realizzata per la Rai («Radiocorriere», 28 dicembre 53): in una lettera a Leonardo Sciascia del 30 ottobre 1953, Pasolini cita fra gli intervistati Cirese, Vann’Antò, De Martino, Sàntoli, Vidossi, e accenna al Teatro dei Pupi e a un poemetto sul bandito Giuliano – P.P. Pasolini, Lettere (1949-1954) cit., p. 619 –, mentre in una lettera inedita del 17 gennaio 1953 a Eugenio Cirese – richiamata nel saggio di A.M. Cirese, Il canzoniere italiano. Pasolini studioso di poesia popolare, in T. De Mauro- F. Ferri (a cura di), Lezioni su Pasolini, Roma, Sestante 1997, p. 161, n. 14 – sono riportate le domande: 1. La

poesia popolare è tuttora un dato attivo nella vita popolare? 2. In che senso la poesia popolare oggi può esse-re considerata «cultura di massa»?

La seconda inchiesta, Poeti dialettali e canto popolare – cui si accenna nelle lettere pasoliniane a Eugenio Cirese e a Nico Naldini, in P.P. Pasolini, Lettere (1949-1954) cit., pp. 611 e 633 – si riallaccia direttamente a quella realizzata per «il Belli» e fu suggerita a Pasolini dallo stesso Cirese, al fine di inserirla nel primo numero della sua rivista «La Lapa. Argomenti di storia e letteratura popolare» (a. I, n. 1, settembre 1953, p. 19). In questo caso le domande furono le seguenti: 1. Quale conoscenza hai avuto del canto popolare della tua o di altre regioni? 2.

Quali sollecitazioni o suggestioni (di contenuti, di stile, di toni ecc.) ritieni di averne ricevuto o tratto?

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ancora Mengaldo, si può indubbiamente affermare che Pasolini sa determinare con esattezza infallibile i creatori che spiccano, nel Novecento, entro la massa sterminata delle sue letture e registrazioni.»300

Se oggi il caso letterario della poesia neodialettale novecentesca ci appare ormai al tramonto, poiché le esperienze di autentica dialettofonia che un tempo costituivano il serbatoio espressivo dei grandi autori dialettali vanno scomparendo, resta comunque intatta la speranza di Pasolini, secondo cui «il volgar’eloquio che sorge dal profondo dei meriggi», e ora si va spegnendo, un giorno «col sospiro / d’un universo erboso – si riaccenderà / verso la fine dei crepuscoli.»301