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Eco-fenomenologia: l’incontro fra continentali e analitici

Sezione I – Dispositivo

3.2 Il dispositivo della mente

3.2.1 Eco-fenomenologia: l’incontro fra continentali e analitici

Le teorie del dispositivo cinematografico degli anni settanta hanno avuto un grande pregio e un grande limite: il pregio, come si è detto, è stato quello di indirizzare l’attenzione sugli effetti fenomenologici dei media tecnologici e incrociare l’asse di ricerca con gli studi sulla mente. Questi studi hanno così messo in risalto, meglio dell’accezione foucaultiana, quanto i dispositivi influiscano non soltanto sulla posizione del soggetto (identità, sistema di valori, disciplinamento sessuale e psicomotorio, istruzione, cura del sé ecc.) ma su ciò che nella filosofia della mente vengono definiti “qualia” ovvero le caratteristiche qualitative dell’esperienza cosciente. Focalizzarsi sui qualia apre il così detto problema dell’integrazione o hard-problem: cosa accade e come avviene il passaggio fra i processi neurochimici del sistema nervoso centrale e l’insorgere dell’esperienza fenomenologica? È il nostro stato di coscienza intenzionale a determinare questi processi o sono i processi stessi a generare un’esperienza cosciente che crede di essere al comando di questi processi? Quesiti ancora irrisolti nel campo della filosofia della mente, che molto spesso dipendono dalla prospettiva e dalla scala epistemologica intrapresa.

A partire però dagli effetti “psichici” generati nel soggetto posizionato, che negli studi di cinema acquista un nome altrettanto preciso, lo spettatore, le teorie del dispositivo hanno condotto un percorso a ritroso per spiegare il funzionamento della mente e della coscienza attraverso un impianto psicanalitico-linguistico derivato dallo strutturalismo. Vero e proprio laboratorio degli esperimenti, la sala cinematografica o la cabina di proiezione sono ascesi a strumenti epistemologici per la comprensione e la messa a punto della mente umana. Come ho mostrato, non solo i teorici della modernità ma anche l’etologia di Uexküll e gli studi percettivi di Michotte e poi Gibson si sono serviti della situazione cinema per sviluppare le loro teorie psicologiche.

Nel corso degli anni ottanta, la molecolarizzazione dei campi di ricerca e delle epistemologie in gioco, ha mostrato come il dispositivo non fosse un processo a-storico e che il soggetto spettatoriale fosse in realtà una costruzione teorica determinata da tutta una serie di fattori rivelatisi poi inattuali con il mutamento delle tecniche di produzione e fruizione del cinema. Come ricorda Torben Grodal, l’approccio cognitivo che si oppone a quello del dispositivo di stampo psicanalitico-linguistico si sviluppa proprio a partire dal dibattito semiotico della Francia degli anni

sessanta, che puntava a definire la disciplina degli studi di cinema su maggiori parametri di scientificità e sistematicità.275

Si può allo stesso tempo constatare come alcuni pensatori chiave del pensiero continentale dell’epoca, avessero mostrato numerose affinità, se non addirittura veri e propri debiti teorici, con la tradizione empirista e analitica. Oltre alla già citata vicinanza fra scienze cognitive e fenomenologia promossa da Varela, Thompson e Rosch negli anni novanta, si pensi ai riferimenti di Deleuze agli studi neuro scientifici di Jean-Pierre Changeaux ne L’Immagine-tempo o all’utilizzo del concetto di “autopoiesi” da parte di Guattari in Chaosmosis. In un contributo fondamentale per la ricostruzione storico-teorica dell’incontro mancato fra fenomenologia e pensiero cibernetico, Jean Pierre Dupuy evidenzia come l’approccio cibernetico alla “meccanizzazione della mente” abbia fortemente influenzato l’emergere della linguistica strutturalista e del post-strutturalismo degli anni sessanta e settanta.276In Dupuy, troviamo uno studio genealogico delle teorie cognitive degli anni ottanta che si fanno generalmente risalire agli studi del gruppo cibernetico degli anni cinquanta. Importante per il nostro discorso è il fatto che la cibernetica, a differenza del cognitivismo derivata dagli studi della così detta Good Old Fashioned Artificial Intelligence (GOFAI), ponga l’accento sulla natura non- rappresentativa dell’esperienza e sul valore distribuito e dinamico dell’intelligenza intesa come sistema dinamico. Secondo Dupuy, le scienze cognitive e il così detto post-strutturalismo, hanno egualmente tentato una “meccanizzazione della mente”. I primi con risultati “normativi”, i secondi ponendo l’accento sulla natura non-soggettiva della computazione mentale. Per Dupuy teorici della “mente” come Lacan, Althusser, Lévi-Strauss e Sartre hanno adottato lo stesso approccio critico della cibernetica nei confronti dell’inconscio freudiano.

Come ho ricordato nell’introduzione sarà Gregory Bateson, membro del gruppo cibernetico, a coniare il termine “ecologia della mente” a cui le successive teorie embodied idealmente si rifanno, dando vita al nuovo corso delle scienze cognitive degli anni novanta legata alla riscoperta del corpo, delle emozioni e dei sistemi emergenti. Altresì, secondo Martin Jay, è stata proprio la ricezione oltreoceano del pensiero anti-oculacentrico strutturalista francese (in particolare Levi- Strauss, Lacan e il primo Barthes) ad influenzare l’emergenza della prospettiva embodied negli studi anglo-americani degli anni novanta.277 Questa epistemologia si lega a due grandi filoni di studio del rapporto fra mente e percezione: da un lato le lezioni della fenomenologia continentale, in particolare di Heidegger, Merleau-Ponty e Sartre; dall’altro, la via di fuga dall’apparato

275 Cfr. Torben Grodal, Immagini-corpo, cit.

276 Cfr. Jean-Pierre Dupuy, The Mechanization of the Mind, cit., p.9

277 Cfr. Martin Jay, “Returning the Gaze: The American Response to the French Critique to Oculacentrism”, in Gail

Weiss e Honi Fern Haber, a cura di, Perspectives on Embodiment. The Intersections of Nature and Culture, New York, Routledge, 1999, pp. 160-182.

computazionalista e funzionalista della GOFAI, operato a partire dalla seconda metà degli anni settanta dai lavori, ad esempio, dei biologi Humberto Maturana e Francisco Valera.

Il così detto approccio embodied si sviluppa infatti negli anni ottanta sia sul fronte del pensiero continentale (abbinato, non a caso, ad una riscoperta della fenomenologia), sia nel campo della biologia, a partire dalla nozione di “autopoiesi” promossa da Maturana e Varela, che si allargherà negli anni novanta al campo delle scienze cognitive, come alternativa all’impianto cognitivista, funzionalista e GOFAI.278

Le due strade però non si incontreranno poiché, come ricorda Mark Johnson, era stata proprio la scienza analitica ad aver rinforzato il paradigma disincarnato della mente, e la riscoperta della fenomenologia era funzionale anche a screditare un ambito, quello cibernetico, che dopo l’heyday della prima metà del novecento, aveva disatteso le aspettative. Infatti non è un caso se Varela e Maturana fossero due biologi e avessero applicato il loro modello per spiegare il mondo organico e animale o che lo stesso Mark Johnson, insieme a George Lakoff, si fosse concentrato sul ruolo cognitivo del linguaggio. Mentre gli studi dei biologi cileni furono presi in grande considerazione da Guattari, quelli di Johnson e Lakoff diventano anche i riferimenti più abbordabili per la formulazione di nuove teorie spettatoriali da parte di teorici legati al pensiero continentale come Steven Shaviro, Laura Marks, Vivian Sobchack,279 e quelli più direttamente legati alle scienze

cognitive Murray Smith, Torben Grodal e Carl Plantinga che si focalizzano nel campo delle emozioni spettatoriali.280 In tempi più recenti l’embodiment e l’embodied cognition hanno fatto

breccia anche in varie discipline che studiano parimenti l’esperienza mediata come la narratologia (David Herman), nell’antropologia (Edwin Hutchins), nello studio dei media tecnologici (Harnad, Dror, Haselager), nei videogame (Andreas Gregersen e Torben Grodal), e ovviamente negli studi di cinema e media che intraprendono una “naturalizzazione” dei dispositivi (Gallese e Guerra, Ruggero Eugeni e Adriano D’Aloia).281

278 Per un percorso riassuntivo delle teorie embodied, nelle sue relazioni con il pensiero occidentale e continentale vedi i

fondamentali Francisco Varela, Evan Thompson e Eleanor Rosch, The Embodied Mind. Cognitive Science and

Human Experience, Cambridge (MA), The MIT Press, 1991; George Lakoff e Mark Johnson, Philosophy in the Flesh. The Embodied Mind and Its Challenge to Western Thought, cit.; Antonio Damasio, The Feeling of What Happens. Body and Emotion in the Making of Consciousness, New York, Harcourt Brace, 1999; Gail Weiss e Honi

Fern Haber, a cura di, Perspectives on Embodiment: The Intersections of Nature and Culture, cit.; Paul Gilbert e Kathleen Lennon, The World, the Flesh and the Subject, cit.

279 V. Steven Shaviro, The Cinematic Body, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1993; Laura Marks, The Skin of the Film. Intercultural Cinema, Embodiment and the Senses, Durham, Duke University Press, 2000; Vivian

Sobchack, Carnal Thoughts. Embodiment and Moving Image Culture, cit.

280 V. Murray Smith, Engaging Characters. Fiction, Emotion, and the Cinema, Oxford, Clarendon Press, 1995; Torben

Grodal, Embodied Vision. Evolution, Emotion, Culture and Film, Oxford, Oxford University Press, 2009, tr. it.

Immagini-corpo. Cinema, Natura, Emozioni, a cura di Ruggero Eugeni, Parma, Diabasis, 2014; Carl Plantinga, Moving Viewers. American Film and the Spectator’s Experience, Berkeley, University of California Press, 2009. Per

una ricostruzione critica del dibattito sull’embodiment fra teoria continentale e anglo-americana v. Enrico Carocci, “Né analitiche né continentali: le emozioni cinematografiche” in Id., Attraversi le immagini. Tre saggi sull’emozione

spettatoriale, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 25-56.

In linea generale, ciò che questi campi di ricerca condividono è un’approccio che chiamerò “eco-fenomenologico” ed è comune sia negli studi di stampo analitico sia in quelli continentali. Sono “fenomenologici” perché, a differenza di un approccio puramente meccanicista e fisiologico, prendono in grande considerazione l’esperienza cosciente, qualitativa e situata nel contesto morfologico, storico, ambientale e culturale dell’essere umano. D’altro canto sono “eco-logiche” perché non riconducono lo studio dell’esperienza e dell’intelligenza ai soli processi che avvengono nel sistema nervoso centrale umano, ma ne tracciano un’archeologia evolutiva, trans-specifica e legata alla co-evoluzione con l’ambiente (anche e soprattutto in relazione ai dispositivi tecnologici). Con il termine “eco-fenomenologia” mi riferisco inoltre ad un approccio che tenta di confrontare e sviluppare istanze teoriche di ordine più complesso fra la tradizione fenomenologica continentale e il campo di studi inferente alle discipline analitiche ed empiriche di area anglo-americana. In generale, gli studi presi in esame comprendono le teorie che concepiscono l’agentività come sistema intelligente emergente frutto della co-evoluzione fra sistemi dotati di capacità cognitive, immaginazione e autonomia, derivate dalla coevoluzione col mondo-ambiente.

In questo quadro teorico, il concetto di dispositivo può aiutare a comprendere meglio cosa si intenda per “disposizioni mentali” nelle scienze cognitive e ad inserirsi nel dibattito contemporaneo interno a questo campo di ricerca.

Con il termine “dispositivo” vorrei andare ora a comprendere l’insieme delle procedure, delle circuitazioni, dei cicli di percezione-azione-ragionamento che operano lungo il sistema nervoso centrale (intra-neurali) ma che sono mutualmente dipendenti e correlati ai mutamenti del corpo e dell’ambiente naturale, storico e culturale (extra-neurali). Come ho mostrato nella triangolazione fra Heidegger, Uexküll e Gibson la particolarità di questo dispositivo è la sua capacità di adattamento a contesti “naturali” quanto “artificiali”, tanto che risulta ormai fuorviante continuare a svolgere un’opposizione epistemologica fra le due dimensioni, e parlare piuttosto di processi intra ed extra-neurali. Risulta invece più funzionale situare il dispositivo in un continuum di natura e cultura, dove processi o tecnologie di lontananza, presenza e telepresenza entrano in gioco. Infatti, se da un lato alcune disposizioni sembrano calcificate nel cervello umano da milioni di anni di evoluzione (in particolare da quell’assetto del cervello umano formatosi nell’epoca dei cacciatori-raccoglitori), queste tuttavia sono strettamente relazionate ad un corpo e un ambiente che, facendo leva sulla malleabilità di queste disposizioni, ha la capacità di estendersi, contrarsi e modificarsi in un grado talmente alto da deragliare in larga misura dalle proprie invarianti biologiche. In un certo senso, il dispositivo della mente è sempre un metadispositivo: dispone la Adriano D’Aloia, La vertigine e il volo. L'esperienza filmica fra estetica e neuroscienze, Roma, Edizioni fondazione ente dello spettacolo, 2013; Ruggero Eugeni e Adriano D’Aloia, a cura di, Neurofilmology. Audiovisual Studies and

the Challenge Neuroscience, «Cinéma & Cie. International Film Studies Journal», n. 22-23, 2014; Ruggero Eugeni, La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazione, La Scuola, 2015.

nostra architettura neurale affinché, entro certi limiti che andrò ad analizzare, integri e modifichi continuamente le sue disposizioni. O almeno questa è l’idea che è al centro di un dibattito molto serrato nel campo delle scienze cognitive ma anche del pensiero contemporaneo che, a mio avviso, è spesso vittima di un dualismo che si spaccia per funzionale al ragionamento ma che invece ne cade vittima.

Dunque, che cos’è, ancora, il dispositivo? In che modo non possiamo dire che si tratti di una disposizione processuale afferente al solo sistema nervoso centrale? Come si sono determinate queste disposizioni nel corso dell’evoluzione? Qual’è la relazione fra disposizioni mentali ed esperienza soggettiva? Come avviene la “magia” che trasforma un concatenamento di impulsi elettrochimici nell’esperienza qualitativa che noi abbiamo di noi stessi in quanto “io”? E ancora: in che modo, precisamente, l’apprendimento, l’esperienza di vita personale e l’uso della tecnologia influiscono su questi fattori e, viceversa, come questo nostro patrimonio tecno-biologico determina la nostra produzione e ricezione culturale?

La questione è affrontata da diverse discipline, ma anche e soprattutto da diverse prospettive. La si può analizzare attraverso lo studio strettamente legato ai processi neurofisiologici e neuropsicologici del cervello, come fanno Vilayanur Ramachandran, Antonio Damasio o Daniel Dennett, oppure estenderla ai sistemi complessi di interazione fra menti, corpi e ambiente come nel caso dell’ecologia cognitiva di stampo antropologico ed etnografico di Edwin Hutchins e David Kirsch. Si può così postulare l’idea che la mente si estenda e la cognizione di distribuisca nell’ambiente come sostengono David Chalmers e Andy Clark a partire dagli anni novanta. Si può inoltre studiare il dispositivo mentale in relazione all’evoluzione morfologica del corpo e delle strutture del linguaggio e del pensiero come fanno Mark Johnson e George Lakoff. Queste teorie trovano anche un terreno di verifica pratica attraverso il vero e proprio design di dispositivi dotati di intelligenza artificiale e capacità di percezione-azione. Tecnologie, queste, che di rimando possono intervenire sulle strutture cognitive dell’essere umano, come nel campo della robotica evolutiva e proattiva descritto da Haselager, Nolfi e Floreano, o delle “tecnologie cognitive” di cui parlano Dror e Harnad e di cui gli studi di Gibson e Uexküll sono fra i principali ispiratori.

Ma è bene procedere per ordine.