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Presenza/telepresenza: verso un’ecologia dell’esperienza mediata

Sezione I – Dispositivo

3.3 Dispositivi del Sé

3.3.3 Presenza/telepresenza: verso un’ecologia dell’esperienza mediata

Come ho cercato di argomentare, la nozione di esperienza cosciente è molto problematica del previsto. Per una filosofia del dispositivo che voglia dotarsi degli strumenti analitici per conoscere e poter studiare l’esperienza è quindi necessario proporre un modello che sappia analizzare i diversi effetti fenomenologici prodotti dall’estensione e dalla ricalibrazione percettiva della mente. La teoria del dispositivo cinematografico, seppur con i limiti dovuti alle contingenze storiche, si è rivelata un campo di studio fertile per questo scopo e da lì vorrei ripartire. Piuttosto che proporre una teoria alternativa o aggiornata dell’esperienza cinematografica di stampo psicoanalitico e/o cognitivo, vorrei piuttosto introdurre ed elaborare una nozione che si richiama entrambi gli approcci.

Sto parlando della nozione di “telepresenza” ovvero la sensazione di sentirsi presenti in un ambiente distale rispetto a quello reale. Il termine è ambiguo sia perché è ambiguo il suo suffisso (presenza) sia perché viene utilizzato, con diverse accezioni, in molteplici campi.

Per “presenza” si intende generalmente una presenza spaziale o di locazione ambientale di un soggetto. Nel gergo anglo-americano, per descrivere l’effetto s di telepresenza si utilizza il termine “being-there” (essere-là), per descrivere appunto l’esperienza fenomenologica di sentirsi localizzati in un ambiente mediato o virtuale.

L’origine linguistica del termine si fa risalire al 1980 ad opera dello scienziato informatico e padre degli studi sull’AI, Marvin Minsky. Minsky fu ispirato a sua volta dai primi sistemi di comando a distanza che permettevano ad un operatore umano dotato di speciali guanti di poter manipolare materiale radioattivo trasmettendo e ricevendo segnali visuo-motori ad un dispositivo posto a distanza. La singolare sensazione che si innescava negli operatori era appunto quella di “saltare” dalla posizione locale a quella distante, provocando uno sfasamento di “presenza”. In senso stretto, per generare un vero effetto di telepresenza un’interfaccia uomo-macchina deve innescare un veloce feedback loop, permettendo all’utente di agire direttamente sull’ambiente distale.388 Scrive Clark:

La presenza umana, è meglio comprensibile come dipendente dalle nostre capacità di un circuito di controllo chiuso e denso. Con questo intendo il controllo (di un certo corpo) così che quando il corpo si muove, il cervello riceve un feedback ricco e dettagliato. È questo tipo di ciclo di feedback e controllo a circuito chiuso che permette azioni abili. Le azioni abili ci permettono, come sostiene lo scienziato informatico Paul Dourish, di coinvolgerci in “interazioni abitate”. La differenza fra interazione abitata e non-abitata corrisponde alla differenza fra, ad esempio, pianificare, monitorare e eseguire attentamente la presa di una tazza di caffè e “prenderla direttamente”, come facciamo noi esperti prenditori-di-caffè.389

Le “interazioni abitate” rappresentano quindi la capacità di intervenire sull’ambiente, instaurando invarianti visive e locomotorie che possano estendere o rimodulare il nostro senso di agentività e quindi di presenza. Questa idea richiama la nozione di “dis-allontanamento” formulata da Heidegger e permette di situare la telepresenza come una pratica “naturale” iscritta nel patrimonio biologico dell’essere umano. Sentirsi presenti in un determinato ambiente ne presuppone inoltre un rapporto zuhanden, cioè la possibilità di esplorarlo o abitarlo senza il bisogno

388 Andy Clark, Natural-Born Cyborgs, cit., p. 93.

389 Andy Clark, “The Twisted Matrix: Dream,Simulation or Hybrid?”, cit., p. 192. Traduzione originale: “Human

presence, instead, is better understood as dependent upon our capacities for dense, closed loop control. By that I mean control (of some kind of body) such that as the body moves, the brain receives rich and detailed feedback. It is this kind of feedback cycle and closed loop control that supports skilful action. Skillful action then enables us, as the computer scientist Paul Dourish puts it, to engage in ‘inhabited interactions’. The difference between an inhabited and a noninhabited interaction is just the difference between, for example, having to carefully plan, monitor and execute a reach for a coffee cup, and ‘just reaching’, as we expert coffee-cup grabbers do.”

di eseguire complessi atti di calcolo cosciente.

I così detti telepresence media si identificano allora come i media tecnologici progettati per produrre negli esseri coscienti questo senso di presenza, ma rivolto verso un ambiente distale. Da una prospettiva cognitiva, il saggio di Gregersen e Grodal sulla body image in action nell’esperienza dei video game offre un caso analogo di studio di telepresenza mediata. Non a caso, in una lecture più recente all’articolo prima citato, Gregersen definisce il trasferimento della nostro senso di agentività in un avatar di gioco una “virtual presence”.390 In questo caso si tratta di una presenza di partenza e non di arrivo, poiché l’agentività è traferita necessariamente nell’ambiente in cui l’avatar agisce e reagisce. Ovviamente anche l’isomorfismo fra corpo locale e corpo distale favorisce una telepresenza della body-image in action, mentre sistemi di gioco come Nintendo Wii creano delle incongruenze sensomotorie fra i movimenti che eseguiamo sul controller e la mancanza di afferenze e feedback tattili (muovendo il braccio-controller, colpiamo una palla virtuale, ma nella realtà stiamo dando un colpo a vuoto). Per ovviare al problema questi dispositivi massimizzano la rappresentazione audiovisuale attraverso suoni (ma anche stimoli vibro-tattili). Gregersen conclude il suo intervento ipotizzando che alcuni videogiochi siano un esercitazione di “agentività canonica” a distanza, ovvero la capacità di attribuire ad un avatar azioni intenzionali guidate e negoziate attraverso i nostri stati mentali (in particolare la capacità di manipolare oggetti esterni e trasferire energia su questi oggetti). Rimane da scoprire come avviene questa interazione con avatar non-antropomorfi e che tipo di esperienza fenomenologica possa innescare un’esperienza di gioco di questo tipo.