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L’esperienza filmica come telepresenza

Sezione I – Dispositivo

3.3 Dispositivi del Sé

3.3.5 L’esperienza filmica come telepresenza

Se l’agentività è un costrutto oscillante e malleabile dovuto dal tipo di ambiente abitato dall’individuo, non è azzardato allora sostenere che i vari tipi di media narrativi possano produrre questa negoziazione degli ambienti attraverso la modulazione fra presenza e telepresenza. Telepresenza che in base agli studi di Biocca, non si manifesta semplicemente attraverso l’esperienza fenomenologica dell’essere presenti in un posto distale, ma anche il contrario: sentire che un luogo distale sia presente nella nostra area peripersonale, cioè lo spazio delimitato dai possibili movimenti del nostro corpo (o quello che si “sente” come proprio corpo) e di cui, come ho indicato, i neuroni bimodali svolgono un importante ruolo di negoziazione fra visione e tatto.

Anche le teorie del cinema di stampo cognitivo, in particolare l’approccio ecologico di Joseph Anderson e quello bioculturale di Torben Grodal, sostengono che il successo in termini di comprensione e di piacere dell’esperienza filmica sia dovuto all’evocazione da parte del film/autore degli stessi procedimenti percettivo-cognitivi impiegati durante l’esperienza quotidiana del mondo. L’approccio ecologico di Anderson è a mio avviso ancora attuale nell’ottica di elaborare una teoria della presenza spettattoriale. Una delle tesi diametralmente opposte all’approccio freudiano- lacaniano e del costruttivismo sociale e che per Anderson il cinema è sostanzialmente un dispositivo realistico. Un realismo però che non è da intendere come rappresentazione o trasposizione di un a aprioristico “reale” (né lacaniano, né metafisico) bensì un sistema artificialmente più congeniale alle informazioni dell’ottica ecologica di Gibson.401 Allo stesso tempo come ricorda Anderson, le

informazioni ambientali e quindi il senso di presenza o immersione sono determinate da un lavoro tecnico-stilistico del filmmaker e non in maniera automatica: immagini fisse, film e ambienti virtuali possono semplicemente non funzionare se il loro assetto ottico ambientale non contiene informazioni sufficienti per permettere quell’esperienza abitata del mondo.

Negli ultimi trent’anni gli studi di percezione del film si sono concertati sulla spiegazione di presunti gap narrativi che lo spettatore dovrebbe riempire per considerare un film “realistico”. Come ho mostrato questo approccio è fortemente criticato da Dennett. In un esperimento con

401 Joseph Anderson, “Scene and Surface in the Cinema: Implications for Realism”, «Cinémas. Cinema et Cognition»,

n.2, Vol. 12, 2002, pp. 61-73. Vale la pena ripetere che per la teoria gibsoniana ed enattiva della mente l’opportunità di agire è contenuta nell’atto stesso della percezione, laddove la percezione non è un costrutto creato dalla mente- cervello a fronte del reperimento di dati sensoriali, bensì il ricavamento di informazioni dall’assetto ottico ambientale.

studenti di cinema, Anderson rileva come la perdita di realismo in una scena, dipenda da delle leggi della dinamica ecologica gibsoniana (il modo cioè con cui gli oggetti interagiscono in termini di superficie, occlusione, texture ecc). A volte ambienti o assetti ottici incongruenti sono piazzati volontariamente o involontariamente nel film, generando un disorientamento nello spettatore. Altre volte invece “lo statuto discutibile della maggior parte delle immagini è supportato dalla storia, così da piazzare l’evento irrazionale del film in un contesto narrativo razionale”.402

Non a caso la differenza fra partenza e arrivo, come quella di spazio e ambiente, riecheggia anche nella teoria di Anderson che distingue la relazione spettatoriale fra “scena” e “superficie”. Infatti le immagini in movimento contengono informazioni sia per la “scena”, cioè l’ambiente diegetico, sia per ciò che è contenuto sulla sua “superficie”, il quadro bidimensionale dove ad scorrono i titoli, gli effetti di transizione e le eventuali interferenze e rumori. Come nel caso delle illusioni ottiche prodotte da immagini ambigue, anche l’immagine può essere vista simultaneamente come scena o superficie.403 Anderson rileva come le affordance contenute nella scena diegetica possano essere rivolte sia al personaggio sia allo spettatore. È il caso di scene raffiguranti panorami o azioni di stimolazione sessuale.404 Attraverso la regia si può modulare questa doppia oscillazione di affordance fra spettatore/personaggio in quelle scene che prevedono una transizione invisibile da inquadrature oggettive a soggettive o piuttosto un’indecidibilità referenziale del punto di vista. Secondo Anderson, in questi esempi non è plausibile ritenere che lo spettatore sia trasportato nel mondo diegetico, piuttosto il contrario:

La distinzione fatta qui fra superficie e scena, fra affordance per lo spettatore e per il personaggio, rende molto più plausibile che lo spettatore non entri mai all’interno dello spazio diegetico, ma che lo spettacolo sullo schermo qualche volta invada lo spazio dello spettatore, causando reazioni che in retrospettiva potrebbero sembrare una bizzarra risposta per un’immagine, come quando ci abbassiamo se un oggetto è lanciato verso di noi dallo schermo, o quando solleviamo i piedi dal pavimento della sala cinematografica alla vista di una fossa piena di serpenti a sonagli, o indietreggiamo o quando il mostro si profila minacciosamente a noi dallo schermo.405

Lo stesso Gibson d’altronde si dimostrava scettico nell’allora nascente tecnologia del cinema 3-D proprio in quanto, nonostante l’apparente guadagno in termini di realismo dell’immagine, esso proponeva un sistema ecologico “innaturale” poiché basato sull’invadenza dell’ambiente nei pressi del corpo e non su una profondità di campo funzionale all’esplorazione

402 Ibid., p. 8.

403 Cfr. Joseph Anderson, “Scene and Surface in the Cinema: Implications for Realism”, «Cinémas. Cinema et

Cognition», n.2, Vol. 12, 2002, pp. 61-73.

404 Ibid., p. 69. 405 Ibid., p. 70.

ambientale (apprehension).406

Un esempio a mio avviso significativo si trova nella celebre scena dell’assalto a Grace Kelly nella versione 3-D de L’omicidio perfetto (Dial M for Murder, Hitchcock, ). Sfruttando proprio la vocazione all’intrusione nello spazio peripersonale dello spettatore, Hitchcock inquadra in primo piano il dettaglio delle forbici che potrebbero essere usate come arma da Grace Kelly mentre subisce lo strangolamento da parte del malfattore ingaggiato per ucciderla. La messa a fuoco e l’effetto di “uscita dallo schermo” dell’impugnatura delle forbici, rende questo oggetto una affordance molto saliente, ponendola in un piano di indecidibilità ambientale: è per lo spettatore o per il personaggio? Ovviamente questa domanda avviene idealmente all’interno del nostro inconscio cognitivo ma tuttavia, come accade nelle figure doppie, la nostra esperienza fenomenologica oscilla su due interpretazioni ambientali della medesima scena. Le forbici che fuoriescono dallo schermo, cioè dalla scena, passano a livello della superficie per poi tornare, una volta che Grace Kelly le ha finalmente afferrate, nella scena diegetica, così da poter essere utilizzate per uccidere il cattivo. È altrettanto importante non associare al dualismo presenza/telepresenza quello di spettacolo e narrazione. Primo perché l’engagement e l’attenzione scaturiti dall’esperienza spettacolare avviene perché lo spettacolo è percepito e situato in un mondo-ambiente (reale o di fiction), secondo perché ogni situazione porta con se degli schemi narrativi che producono ritenzioni e anticipazioni temporali a livello cognitivo ed emotivo.

C’è in ultimo da specificare una cosa: mentre nella teoria cognitivista e in certe applicazioni della psicologia culturale questa capacità bio-culturale ad indirizzare la presenza è determinata dai così detti frame o schemi elaborati all’interno della mente umana, nell’approccio ecologico queste disposizioni si formano all’interno del sistema esteso corpo-mente-ambiente. Questa differenza è determinante perché presuppone che per comprendere un film e quindi determinare un mondo- ambiente a partire dall’esperienza mediata della situazione spettatoriale, non ci sia bisogno di estremi calcoli cognitivi coscienti e che, al contrario, l’ambiente e le aree cerebrali primitive siano determinanti. Allo stesso tempo, lo studio ecofenomenologico sui processi coscienti e di attenzione, può ricalibrare lo studio della presenza sugli effetti fenomenologici coscienti (pensieri, emozioni, decisioni, memorie) innescati dall’esperienza mediata e quindi aprire la strada ad uno studio fenomenologico delle ricalibrazioni percettive, dell’esperienze sinestetiche e di sostituzione sensoriale determinate dall’innervazione con i media.