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La plasticità del corpo mediato

Sezione I – Dispositivo

3.2 Il dispositivo della mente

3.2.3 La plasticità del corpo mediato

Se la struttura muscoloscheletrica ha una conformazione anatomicamente definita, l’esperienza del corpo prodotta dal nostro apparato sensomotorio è una caratteristica altamente transitoria e regolata da un complesso sistema di informazioni simultanee che producono, come espongono Gallagher e Cole, un’immagine corporea di cui abbiamo coscienza (body image) distinta invece da uno schema corporeo (body schema) che afferisce all’inconscio cognitivo.292 Per body

schema si intende un sistema di processi inconsci e sub-personali che giocano un ruolo chiave nel mantenimento della postura e nella coordinazione dei movimenti. È grazie al nostro body schema se riusciamo velocemente a spostare il baricentro ed evitare di cadere quando camminiamo lungo un terreno scosceso o di sbilanciarci a causa di un peso che grava su una parte del nostro corpo. Al contrario, la body image rappresenta l’idea consapevole o la rappresentazione mentale che produciamo del nostro corpo. In questa schema rientra non solo la percezione soggettiva del nostro corpo (limiti fisici, responsività, senso di controllo e presenza, ecc.) ma anche gli stati d’animo e i pensieri legati al nostro aspetto estetico, allo stato di salute, alla prestanza fisica ecc. Entrambi gli aspetti, come è evidente, sono suscettibili di variazioni e di per sé compongono dei quadri frammentari e incompleti del corpo. Su questi presupposti Gregersen e Grodal, interpretano l’esperienza del video game di azione o in prima persona come un trasferimento di agentività attraverso la co-determinazione del nostro body schema e body image con quello dell’avatar o del personaggio che controlliamo, che chiamano “body image in action”:

interagire con i videogiochi può portare ad un senso di embodiment esteso e ad un senso di agentività che risiede da qualche parte fra i due poli dello schema e dell’immagine [corporei] – è una consapevolezza incarnata nel momento dell’azione, una sorta di body image in action – dove si esperisce sia l’agentività sia la titolarità di entità virtuali. Questo processo è una fusione delle

292 Cfr. Shaun Gallagher e Jonathan Cole, “Body image and body schema in a deafferented subject”, «Journal of Mind

intenzioni, delle percezioni e delle azioni del giocatore. Quando il giocatore termina di interagire con il sistema di gioco e presta attenzione cosciente al proprio o alla propria embodiment, questo effetto decresce in favore di una body image più regolare.293

Il “corpo a corpo” con i dispositivi, per riprendere l’espressione di Agamben, si svolge nel campo di battaglia che comprende schemi di percezione-azione-pensiero incarnati ed espressi attraverso i nostri schemi e le nostre immagini corporee. Questo non esclude che i dispositivi possano interfacciarsi direttamente con il nostro body schema, ma assumere che essi intervengano su tutto il “corpo” è una semplificazione teorica che vorrei evitare.

Altresì, l’esempio dell’esperienza videoludica proposto da Grodal e Gregersen riflette sul fatto che il sistema sensomotorio, attraverso i media, possa estendersi oltre i confini della pelle. Questa capacità acquista grande rilevanza attraverso l’uso di dispositivi tecnologici ma affonda le sue radici sulla neuroplasticità della neocorteccia cerebrale. Per neuroplasticità o plasticità corticale, si intende la capacità del SNC di rimodulare le relazioni sinaptiche e non-sinaptiche nel corso dell’apprendimento infantile, nel caso di danni neurali e in generale lungo tutto l’arco della vita adulta attraverso l’esperienza. Mentre nel corso del ventesimo secolo si riteneva assodata l’ipotesi “modulare”, sviluppata in particolare da Jerry Fodor, secondo cui il dispositivo del cervello funzionasse attraverso aree cognitive fisicamente delimitate e dedicate a specifiche attività cognitive, evidenze empiriche hanno dimostrato che il sistema sensoriale e quello motorio sottoposti a limitazioni o a vere e proprie lesioni del tessuto cerebrale sono in grado invece di riadattarsi e riformarsi coinvolgendo con sorprendente velocità e efficienza aree del cervello non dedicate a quei compiti specifici.294

Per Vilayanur Ramachandran (1951-) il nostro corpo è un “fantasma”. Il neuroscienziato di origine indiana ha studiato la plasticità cerebrale attraverso pazienti affetti da deficit percettivi come la prosopagnosia (un disturbo neuronale che impedisce il riconoscimento dei volti) o precedentemente soggetti all’amputazione di un arto, offrendo interessanti casi di studio neuro- fenomenologici riguardanti il fenomeno degli arti fantasma, della visione cieca e della sinestesia che mostrando come sia possibile una rimappatura o riconversione neurale in età adulta.295 Le ipotesi di Ramachandran basate sui report soggettivi dei pazienti coinvolti in esperimenti specifici hanno trovato riscontro negli screening magnetoencefalografici che mettono in evidenza le zone del

293 Cfr. Andreas Gregersen e Torben Grodal, “Embodiment and Interface”, in Bernard Perron e Mark Wolf, The Video Game Theory Reader 2, Routledge, New York, 2009, p. 67.

294 Sulla modularità del sistema nervoso v. Jerry Fodor, The Modularity of Mind. An Essay on Faculty Psychology

(1983), tr. it. La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, Milano, Il Mulino, 1988. Sulla neuroplasticità in opposizione alle teorie modularità v. Paul Churchland, “Perceptual Plasticity and Theoretical Neutrality: A Reply to Jerry Fodor”, «Philosophy of Science», Vol. 55, N. 2, Giugno-1988, pp. 167-187.

295 Cfr. Vilayanur S. Ramachandran, The Emerging Mind. The Reith Lectures 2003, Profile, Londra, 2003, tr. it. Che

cervello attivate durante lo stimolo di una determinata parte del corpo e sul monitoraggio delle reazioni galvaniche della pelle.

Altri studi di matrice neurofisiologica sui “neuroni bimodali” atti a mappare, in contemporanea, un’area del corpo mediante il tatto e un’area dell’ambiente in prossimità dell’area di interesse attraverso la vista, confermano la stessa tesi: il nostro corpo-mente è predisposto per “proiettare” ed estendere le sensazioni corporali aldilà dei confini fisici del proprio apparato muscoscheletrico, cioè del corpo.296 Pur riconoscendo delle invarianti filogenetiche nella creazione della nostra body image, il corpo è un dispositivo basato su circuitazioni sensomotorie (che collegano in particolare tatto e visione, propriocezione ed esterocezione) che continuamente ri- creano e ri-negoziano il nostro senso di agentività e di presenza mediante la rimappatura dei nostri processi neurali. Tutto ciò può avvenire nell’ordine di anni come nell’ordine di pochi secondi.

Anche il neuroscienziato affettivo Jaak Panksepp, che pur prende le distanze dai modelli computazionalisti, paragona le disposizioni innate del cervello animale ad un “sistema operativo” dove attraverso l’influenza delle esperienze di vita, girano vari “software modularizzati” che formano le funzioni superiori della neocorteccia (come l’apprendimento, la memoria e il linguaggio). Criticando l’approccio monolitico della psicologia evolutiva che vedrebbe lo sviluppo della mente per così dire “congelato” all’interno dei traguardi genetici raggiunti dall’homo sapiens al termine dell’epoca dei cacciatori-raccoglitori del Pleistocene (circa 11.700 anni fa), Panksepp insiste sul “rimarcabile grado di plasticità neocorticale all’interno del cervello umano, specialmente durante lo sviluppo [infantile]” ricordando come “le interazioni di sviluppo fra antichi circuiti a finalità-specializzate del cervello e i più recenti meccanismi a finalità-generali possono generare molte delle abilità umane ‘modularizzate’ di cui si occupa la psicologia evolutiva”.297

Analogamente, Daniel Dennett, da una prospettiva fisicalista e anti-rappresentazionalista, paragona la mente ad una “macchina virtuale” seriale installata su un hardware che, biologiamente, sarebbe predisposto ad operare in parallelo.298 Rimemorare e rinfocolare (to rekindle) eventi tramite l’uso della “memoria episodica” (una memoria che tra l'altro basa la sua forza anche nell'evocazione di potenti immagini mentali) è la caratteristica che distingue l’apparato cognitivo umano e che porta all’emergere della coscienza. Questo upgrade però rappresenterebbe un vantaggio per la specie, in quanto attraverso la trasmissione della cultura l’hardware del cervello può potenziarsi molto più velocemente rispetto ai tempi lunghi dell’evoluzione filogenetica.299

296 V. Francesco Parisi, “Corpi e dispositivi: una prospettiva cognitivista”, «Fata Morgana», Dispositivo, n. 24, 2014, p.

52.

297 Panksepp, J. & Panksepp, J., The Seven Sins of Evolutionary Psychology. Evolution and Cognition, 6:2, 108-131,

2000.

298 Daniel Dennett, Coscienza, cit., p. 200. 299 Ibid., p. 206.

In un’espressione che lo ha reso celebre, Clark sostiene che gli esseri umani siano “natural- born cyborg” in quanto l’architettura neurale della specie umana è biologicamente equipaggiata con un inusuale grado di plasticità corticale rispetto alle altre specie che, abbinata ad un lungo periodo di sviluppo e apprendimento (l’infanzia), ci permette di co-evolvere e ri-orientare facilmente le nostre abilità di risoluzione dei problemi (cioè il nostro pensiero) in relazione a repentini cambiamenti del corpo e dell’ambiente.300

L’allegoria del cyborg non è certo nuova e trova nel celebre “Manifesto Cyborg” (1984) di Donna Haraway un esempio paradigmatico per l’avvicinamento, sul piano politico e teorico, delle scienze cognitive, il pensiero continentale e gli science & technology studies. La Haraway utilizza l’allegoria del cyborg per ipotizzare una nuova “ontologia” dell’umano che travalichi i confini di specie, genere, cultura, luogo e appartenenza fissati dalla scienza e dalla politica Occidentale a dominanza maschile e capitalista. La coscienza-cyborg evocata da Haraway è “perversamente” invischiata in un sistema tecnologico onnipervasivo, e si situa in quel filone del pensiero spesso definito “postmoderno” dove la distinzione fenomenologica fra naturale e artificiale, reale e simulato perde consistenza.301 Importante notare come anche Haraway tracci un paragone fra la progressiva miniaturizzazione e ubiquità dei media e la corrispondente distribuzione e frattalizzazione dell’identità e della coscienza individuale e collettiva. Una fusione ideale fra la soggettività ibrida del cyborg e un ambiente bio-tecnologico capace di estendere e amplificare le fenomenologie, che negli anni ottanta e novanta veniva chiamato “cyberspazio”. Il cyborg inoltre, sancisce l’ingresso nel regime della “bestialità”, in un incontro disturbante quanto piacevole fra umano, dispositivo e animale.302 Un riferimento all’allegoria cyborg di Haraway, di cui Clark è ben cosciente seppure non vi dedichi molto spazio.303 La distinzione fra l’immaginario cyborg degli anni ottanta e quella che a tutti gli effetti può essere identificata come una “metafora concettuale” della mente, è che per Clark non c’è bisogno di impiantare una componente artificiale in un organismo biologico per considerarlo un cyborg. Lo sviluppo della mente umana, afferma il filosofo cognitivo, è già di per sé “artificiale” in quanto si serve “naturalmente” di tecnologie esterne per assicurare la propria sopravvivenza: “Tools R us”, il medium siamo noi stessi.

Riprendendo un concetto introdotto da Bateson riguardante il controllo delle nostre azioni, Andy Clark commenta:

300 Cfr. Andy Clark, Natural-Born Cyborgs, cit.

301 Donna Haraway, “A Cyborg Manifesto” (1983), tr. It. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo,,

Milano, Feltrinelli, 1999, p. 73. Per una ricognizione storico critica degli studi di Haraway v. Joseph Schneider,

Donna Haraway. Live theory, New York, e Londra, Continuum, 2005. 302 Ibid.,p. 72.

È un errore presupporre una “natura umana” biologicamente data con un semplice incarto di strumenti (tools) e cultura; gli strumenti e la cultura sono invece sia determinanti della nostra natura sia il prodotto di essa. Noi siamo (per natura) cervelli eccezionalmente plastici e opportunistici il cui funzionamento biologico propriamente detto ha sempre coinvolto il reclutamento e lo sfruttamento di sostegni (props) e strutture (scaffolds) non-biologiche.304

In un altro intervento Clark non ha paura ad affermare che siamo dei “simbionti bio- tecnologici”, laddove per tecnologia egli intende “l’apparato mentale” (mental apparatus) delle persone, piuttosto che un apparecchio tecnologico o meccanico.305

Mediante un percorso di studi che parte dal connessionismo, abbraccia e successivamente critica il pensiero embodied, l’esemplare lavoro di Clark riporta l’attenzione su quelle tecnologie “invisibili” che Michel Foucault si riprometteva di studiare negli ultimi anni della sua vita. Il corpo- mente come tecnologia è un paradigma epistemologico che va aldilà della semplice affinità terminologica. Infatti se il corpo può estendersi e rimodellarsi in relazione all’ambiente in cui si immerge di volta in volta, allora anche il nostro apparato concettuale, l’esperienza fenomenologica e il senso del sé sono suscettibili di modificazioni davvero sostanziali.

Infatti, secondo le ricerche confermate sul piano neurofisiologico e fenomenologico, la plasticità cerebrale dell’essere umano (comune anche ad altri animali) permette di estendere e proiettare le sensazioni coscienti su altri dispositivi. Poiché la nostra esperienza è determinata da un feedback loop di percezione e azione che passa attraverso componenti periferiche non biologiche, il cervello riesce a generare delle versioni alternative e temporanee della nostra immagine-corporea che include anche gli artefatti esterni al nostro corpo. Pensiamo ancora al caso dell’avatar virtuale come trasferimento di agentività studiato da Gregersen, ma anche alla capacità di varie forme di storytelling nel simulare altre forme di esperienza incarnata, studiate da Herman nella letteratura e da Grodal nell’esperienza spettatoriale.

L’esempio più radicale è la sensazione che si prova nel “sentire” input tattili o reagire come se si provasse dolore, attraverso stimoli o colpi inferti ad un artefatto extra-corporeo che stiamo utilizzando. Ad esempio i piloti più esperti giurano di “sentire l’asfalto” o il “vento”, nonostante il contatto diretto del nostro corpo con il medium sia fisicamente frapposto dal veicolo che guidiamo. La sensazione, che potrebbe essere legata ad un’impressione meramente soggettiva e neuralmente “non verosimile”, è invece presa molto sul serio dal nostro sistema propriocettivo che si comporta come se il nostro corpo si estendesse lungo i confini degli oggetti che stiamo manipolando.306

304 Andy Clark, Natural-Bron Cyborgs, cit., p. 78.

305 Cfr. Andy Clark, “Toward a Science of the bio-technological mind”, in Barbara Gorayska e Jacob Mey, a cura di, Cognition and Technology. Co-existence, Convergence, and Co-evolution, Amsterdam e Filadelfia, John Benjamin,

2004, pp. 25-36.

Queste prove ci riportano al concetto di “dis-allontamento” di Heidegger e all’effetto di tele- presenza generato dai media tecnologici.