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Le pratiche di mobilità rappresentano dunque una chiave di lettura nodale per l’analisi della qualità della vita.

Esse, come si è dissertato, contribuiscono ad accentuare le disuguaglianze poiché si fondano sulle possibilità e sulle capacità individuali. Queste ultime, a loro volta, sono in stretta correlazione con l’età, l’etnia e la classe sociale di appartenenza e si traducono in immobilità per coloro si trovano, alla periferia delle società mobili, quindi in condizione di staticità.

Le differenze di potere nella mobilità, le differential mobility empowerments,226 rendono manifeste le strutture e le gerarchie di potere già presenti nel tessuto comunitario e riflettono anche quelle relative al genere.

Nelle aree metropolitane sviluppate, se nelle pratiche di mobilità vi è una sostanziale similitudine tra lavoratori maschi e femmine, tuttavia le attività femminili di ‘doppia presenza’227 pongono le donne in una situazione più disagevole, giacché richiedono una continua sincronizzazione degli spostamenti e delle mansioni per attuare una compresenza nella sfera familiare e in quella e lavorativa. Più precisamente, il tempo e la fatica che impegnano le donne nei movimenti giornalieri, in particolar modo nelle grandi aree metropolitane, rendono più difficile la possibilità di agire in entrambe le sfere.

L. Balbo, nell’analizzare l’organizzazione quotidiana del tempo sociale propone il concetto di ‘città accessibile’, in cui il tempo dedicato agli spostamenti è ridotto al minimo. Per l’Autrice l’aumento del cosiddetto tempo connettivo, il tempo necessario per spostarsi da un’azione sociale ad un’altra unito a quello del tempo sprecato, ovvero quello perso nelle attese, favorisce l’insorgere di problemi di burnout, di interruzione, di ‘corto circuito’, ovvero lo stato patologico di stress emotivo, fisico e psichico cui andrebbero maggiormente soggette le donne.228

225 Per alcuni Autori, tra i quali Pritchard (2000), la mobilità è un indice inadeguato della misurazione del grado di libertà di ciascuno, una retorica che si occupa di diritti riferibili ad un’élite, quando nella realtà milioni di persone non possono muoversi in alcun modo. La relazione tra libertà e mobilità appare invece ampiamente condivisibile, in quanto elemento vitale della realtà attuale e talvolta a fondamento della possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita. 226 Tesfahuney M., Mobility, racism and geopolitics, in «Political Geography», 1998, 17, n. 5, p. 501.

227 Per una trattazione sistematica delle questioni di genere si veda l’ultimo capitolo. 228 Cfr. Balbo L., Tempi di vita, Feltrinelli, Milano, 1991.

Ad un’analisi successiva, se da un lato le donne riscontrano una difficoltà supplementare nell’esercizio delle proprie attività quotidiane nelle reti delle mobilità,229 dall’altro tale difficoltà diventa pressoché insormontabile per le donne appartenenti a quelle categorie di forza-lavoro non qualificate e a basso reddito. Se in passato le donne svolgevano gli impieghi extradomestici a breve distanza da casa, eseguendo quelle che O. Blumen denomina neighborhood oriented occupations, attività a bassi contenuto e retribuzione svolte da coloro che portavano in famiglia un secondo reddito, le donne, che riuscivano a praticare questa attività grazie alla vicinanza al luogo di lavoro,230 al contrario, oggigiorno, per le donne dedicarsi alla famiglia e al lavoro nelle grandi aree metropolitane diviene sempre più arduo.

Le attività fuori casa, situate sul territorio anche a lunghe distanze, costringono all’utilizzo di mezzi pubblici che spesso si rivelano non adeguati. In virtù di un frustrante circolo vizioso, le donne svolgono lavori part-time allo scopo di conciliare meglio lavoro e famiglia. E se a causa del salario più basso dato dalle poche ore di impiego, rimane più difficile poter utilizzare un’automobile per i propri spostamenti, dati i notevoli costi per l’acquisto, i rifornimenti, la manutenzione e i parcheggi,231 si preferisce l’impiego in attività part-time, per poter conciliare la cura dei figli, della

parentela e della casa, insieme alle attività extradomestiche. Certamente, in tal modo si alimenta lo stereotipo dei ruoli che vede il maschio sostentatore economico, male breadwinner e la donna dispensatrice di cure domestiche, fissa ed immobile nella propria dimora.

Afferma A. Mela che il più rilevante dibattuto tema degli studi compiuti dalla teoria femminista inglese sulla città, non è rappresentato dalla sicurezza delle donne, ma dall’organizzazione spazio-temporale femminile, sempre più difficoltosa.232 Per E. Ruspini, quando si fa riferimento alle donne pendolari, i carichi di cura e quelli occupazionali raggiungono dimensioni enormi.233

Anche il rapporto tra donne e migrazione assume una configurazione peculiare.

Il viaggio è un fatto tradizionalmente maschile a cui sono contrapposte le esperienze dell’attesa e del silenzio come connotazione specifica dell’agire femminile.234

229 Alcuni studi medici hanno persino rilevato una correlazione tra la lunghezza del viaggio quotidiano e danni potenziali alla fertilità della donna (Reale, 1986).

230 Cfr. Blumen O., Dissonance in Women’s commuting? The experience of exurban employed mothers in Israel, in «Urban Studies», vol. 37, n. 4, 2000.

231 Per un’idea della rilevanza delle spese per i trasporti all’interno della famiglia si consideri che in Italia esse rappresentano circa il 17% della spesa complessiva domestica, al terzo posto dopo quelle relative all’abitazione e gli alimenti. Fonte: Istat, Rapporto 2009 per l’anno 2007-2008.

232 Cfr. Mela A., Sociologia delle città, Nis, Roma, 1996.

233 Cfr. Ruspini E., Povertà delle donne, povertà delle misure, in Bimbi F. (a cura di), Differenze e disuguaglianze, Il Mulino, Bologna, 2003.

Alcune teoriche femministe hanno inoltre sostenuto che la teoria del nomadismo rimane una ‘interpretazione romantica’ per coloro che hanno il privilegio di una mobilità cosmopolita, che si scontra invece con le realtà specifiche sessualmente discriminanti di alcuni Paesi.235

Proprio a causa di questa prerogativa maschile allo spostamento, secondo le formulazioni di B. Skeggs il paradigma delle mobilità è strettamente collegato ad una ‘soggettività borghese maschile’ che descrive se stessa come ‘cosmopolita’.236

Le riflessioni di questa Autrice, per la quale la mobilità e il controllo su di essa riflettono e rinforzano il potere dominante, sono riscontrabili in ciò che accade nel contesto internazionale. In alcuni Paesi, soprattutto di religione islamica, la barriera alla mobilità per le donne si ritrova soprattutto nell’impossibilità di esercitare il proprio diritto alla mobilità, nella mancanza di una libertà positiva al movimento, la propria motility. Questa trova una sua manifestazione pratica nel divieto di conseguire la patente di guida; tale divieto rappresenta un caso emblematico di controllo della mobilità e quindi di controllo della relazionalità limitando fortemente la libertà individuale.

Alcuni autori hanno ritenuto di poter rintracciare un’arcaica e stretta connessione tra le donne e il movimento. In passato le donne hanno vissuto segregate nello stay at home237 perché

altrimenti nella mobilità sarebbero state libere. La donna infatti per il ruolo cruciale che riveste all’interno della famiglia è stata ed è assimilata al concetto di ‘casa’, nozione meaningfulness,238 dal duplice significato di stasi e di sicurezza. Le case sono centri di significato, di radici e di identità.239 Le analisi di numerosi teorici, tra i quali Bourdieu, hanno altresì concepito la casa come manifestazione dei valori sottostanti della cultura all’interno della quale è stata costruita.240 La casa è il regno privato che «garantisce un senso di sicurezza ontologica» nel quale si formano le identità dei singoli e dove si riproducono le società.241 Il movimento affonda le sue basi solo nella presenza di una casa come punto centrale al quale si farà ritorno, la cui accoglienza è sovente prerogativa femminile.

L’attenzione verso le migrazioni femminili è aumentata negli ultimi anni. Il cambiamento nelle migrazioni ha riguardato sia la quantità, sia la tipologia. Si calcola che ad oggi circa la metà

235 Per questi studi si vedano le analisi di Pritchard (2000), Kaplan (2006) e Tsing (2002). 236 Skeggs B., Class, Self, Culture, Routledge, London, 2004, p. 48.

237 Hay J.- Packer J., Crossing the media. Auto-mobility, the transported self and technologies of freedom, in Couldry N.-McCarthy A. (eds), Mediaspace. Place, Scale and Culture in a Media Age, Routledge, New York, 2004, p. 140. 238 Cfr. Després C., The meaning of home: literature review and directions for future research, in «The Journal of Architecture and Planning Research», vol. 8, n. 2, 1991.

239 In particolare, si vedano gli studi di Buttimer, (1980), Seamon e Mugerauer (1989), Rykwert (1991).

240 Bourdieu (1971) analizza gli spazi domestici della casa kabyla propria della popolazione berbera in Algeria ed osserva che gli spazi domestici e diurni sono una prerogativa maschile, mentre gli spazi abitativi notturni, legati alla maternità e al focolare, sono frequentati maggiormente dalle donne. A proposito dell’analisi del concetto di casa e della sua relazione con il senso di radicamento, si vedano anche gli studi di Rapoport (1969) e, più recentemente, di Kent (1990) e Stone (1991).

241 Cfr. Saunders P., A Nation of Home Owners, Unwin Hyman, London, 1991, citato in Metcalfe A., ‘It was the right

dei migranti sia composta da donne: la femminilizzazione è considerata un tratto saliente dei fenomeni migratori contemporanei ed apre nuove prospettive di ricerca sulle migrazioni stesse.242

Dopo gli anni Settanta, nel proliferare delle piccole imprese e della nascente industria di servizi, le migrazioni femminili fornivano un bacino di lavoratrici prontamente disponibili, una manodopera nel contempo «la più vulnerabile, la più flessibile, e, almeno agli inizi, la meno esigente».243 Queste migrazioni sono differenti rispetto alle precedenti, che invece coinvolgevano le donne non sole, ma in qualità di madri e mogli di lavoranti. Al contrario, le nuove migrazioni femminili favoriscono l’indipendenza delle donne e contribuiscono ad aumentare in esse la consapevolezza di poter divenire artefici del proprio destino. Inoltre, le migranti provvedono alle esigenze della propria famiglia grazie alle rimesse inviate in patria a fronte dei guadagni ricavati. Ciò permette loro di aumentare la propria capacità decisionale nella famiglia d’origine, costituendo un percorso al femminile delle migrazioni.244

La maggior parte degli studi condotti sulle migrazioni femminili sostiene che quando il migrante è donna è soggetto a difficoltà e a discriminazioni maggiori.245

Tra queste vi è lo stereotipo che relega la donna alle attività domestiche e nei servizi di cura alle famiglie ed agli anziani perché più adatta a svolgerli, stereotipo dal quale difficilmente la donna migrante riesce a liberarsi, per inserirsi in attività maggiormente qualificate e più consone alle proprie capacità.

Ciò comporta, secondo M. Ambrosini, gravi conseguenze.246 Innanzitutto la correlazione sempre più preponderante tra uno stereotipo etnico ed uno stereotipo di genere, ovvero l’attribuzione alle donne, di una certa provenienza etnica di una serie di doti che le renderebbero particolarmente adatte a rivestire certi ruoli.247 La seconda conseguenza riguarda l’adattamento di molte donne a questi stereotipi e conseguentemente la loro rinuncia a perseguire ambizioni di miglioramento sociale, muovendo lungo un adeguamento che è sempre al ribasso. In terzo luogo, il settore della collaborazione familiare può trasformarsi, più facilmente rispetto ad altri, in un luogo di lavoro servile poiché più collegabile a maltrattamenti, a molestie e anche a violenze sessuali.

Infine, l’Autore evidenzia un’altra drammatica conseguenza. Recentemente si è cominciato a prestare attenzione al fatto che le donne che curano i figli o gli anziani del Paese d’arrivo sono le stesse donne che lasciano i propri figli in patria alle cure di altri familiari e che sono pertanto

242 A questo proposito si vedano gli studi di Castles e Miller (1993), Koser e Lutz (1998) e Kofman (2000).

243 Morokvasic M., Birds of passage are also women, in «International Migration Review», 1984, vol. 18, n. 4, p. 886. 244 Cfr. Favaro G. - Colombo T., I bambini della nostalgia, Milano, Mondadori, 1993, citato in Ambrosini A.,

Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna, 2005.

245 Secondo Campani (2003) la razza, il genere e la classe formano una ‘trimurti’ di caratteri che definiscono il ruolo delle donne immigrate: nelle società riceventi generano una discriminazione a cui i migranti maschi non sono sottoposti. 246 Cfr. Ambrosini M., Sociologia delle migrazioni, op. cit.

247 L’Autore porta l’esempio della terminologia utilizzata per indicare la collaboratrice familiare, il cui sinonimo nel linguaggio italiano corrente è anche ‘la filippina’.

soggette ad una ‘dislocazione delle relazioni affettive’,248 che diviene l’elemento costitutivo della loro identità. La separazione fisica ed emotiva porta al ‘dolore della genitorialità transnazionale’,249 fatta di ansia, sensi di colpa e solitudine, in cui vi è l’impossibilità di tornare indietro perché i propri figli vivono del sostentamento dato loro dalla madre migrante.

È certamente indubbio che il dolore di questa che è stata definita transgenitorialità colpisca anche i padri, che ugualmente soffrono per la distanza dai figli lasciati in patria, ma le donne in questo senso si trovano di fronte ad una scissione psicologica più forte, dato il contrasto evidente con il lavoro di cura familiare che svolgono per altri.

Un’ulteriore drammatica equivalenza cui sono soggette le migrazioni femminili è quella tra immigrate e prostituzione. Le donne che migrano verso un Paese per migliorare la loro condizione economica e sociale o per sfuggire a orrori in patria, sovente si ritrovano nelle mani di aguzzini che le costringono a prostituirsi riducendole in schiavitù.