Parte II La metodologia e l’analisi dei dispositivi digitali nei muse
5 La sezione dedicata al Tempio di Giove Capitolino
5.1 I resti archeologici del tempio di Giove Capitolino
cosiddetto Muro Romano, unica parte del grande podio ancora conservata fino all’antico piano di preparazione in calcestruzzo del pavimento del tempio. Nel 1680 furono messi in luce quattordici filari di blocchi di cappellaccio durante i lavori di sistemazione dello spazio verso la proprietà dei Conservatori da parte della famiglia Caffarelli. Dalla seconda metà del XIX sec., nel fermento degli studi di antichistica, furono effettuati alcuni saggi nel terreno che restituirono parti delle poderose fondazioni in cappellaccio che prontamente Rodolfo Lanciani aveva riconosciuto come appartenenti al tempio capitolino. Nel 1876, in occasione dei lavori per l’allestimento dell’aula espositiva ottagonale all’interno del giardino del Palazzo dei Conservatori, furono messe in luce altre parti della grande fondazione corrispondenti ai limiti orientali della platea, che Lanciani aveva collegato con quelle emerse nell’adiacente proprietà dei Caffarelli, divenuta a quell’epoca Ambasciata di Prussia. Altre parti delle fondazioni furono poi scoperte in occasione della costruzione delle scuderie della suddetta ambasciata e, successivamente, H. Jordan portò alla luce il fianco occidentale della struttura templare. Nel 1919 furono effettuate altre indagini al fine di chiarire le reali misure del monumento (Albertoni, 2008). Il Muro Romano risulta essere stato già precedentemente usato come quinta scenica nel progetto espositivo curato da Lanciani nel 1876.
Le indagini archeologiche effettuate tra il 1998 e il 2000 hanno messo in evidenza, lungo la parete est della platea del tempio, a ridosso del Muro Romano, una lunga parte delle fondazioni con l’impianto del cantiere di lavoro, la cui quota è stata ricostruita grazie al ritrovamento di due frammenti di un’unica olla, uno sul piano di frequentazione del cantiere, l’altro all’interno del riempimento stesso. Il piano di lavoro del cantiere risultava dall’accumulo di strati di distruzione di alcuni edifici di uso abitativo o sacro. Sopra al piano di cantiere si è documentato uno strato di accumulo di argille miste a frammenti di cappellaccio realizzato in seguito alla regolarizzazione del piano dopo la realizzazione delle fondazioni (Danti, 2008).
Ulteriori indagini archeologiche, intraprese nel 2002, hanno messo in luce alcuni dei setti trasversali delle fondazioni all’interno del Museo Nuovo. Le fondazioni erano state realizzate attraverso lo scavo di una larga trincea perimetrale con setti che raggiungevano una larghezza di 6,90 metri, collegata all’interno da un reticolo di trincee minori ortogonali, intagliate direttamente nel banco argilloso e armate attraverso il posizionamento di progressivi blocchi di cappellaccio. Le trincee di fondazione erano state scavate nel banco argilloso fino a raggiungere i più solidi banchi tufacei, come oggi
è possibile vedere nella parte est del tempio integrata nell’esposizione museale. Le fondazioni erano state realizzate a scarpa restringendosi via via che si approfondiva lo scavo. Il filare più basso fu infatti inserito direttamente nel banco tufaceo. Lo scarso materiale ceramico ritrovato nel riempimento di fondazione è indice di una realizzazione molto veloce che avrebbe coinvolto una numerosa manovalanza.
Al di sopra delle fondazioni furono posti in opera i filari di cappellaccio che formavano il podio alto circa quattro metri di cui rimane solamente il Muro Romano. La distanza tra il primo filare di fondazione e la pavimentazione del tempio sarebbe dunque di 12,30 metri. Il sistema di fondazione con la sua struttura a reticolo segnalerebbe i punti di maggior carico dell’alzato e dunque corrisponderebbe alla struttura architettonica del tempio.
Il dibattito sulle ipotesi di ricostruzione dell’architettura del tempio è ancora molto acceso, data la completa distruzione degli elementi dell’alzato ad eccezione della preparazione in calcestruzzo riconoscibile al di sopra del Muro Romano. Non sono sopravvissuti neanche gli elementi della ricca decorazione architettonica. Ciò che compensa questa lacuna sono le numerose fonti letterarie, che si accompagnano ad alcune rappresentazioni su monete o rilievi.
Le fonti antiche, che non rimontano comunque oltre l’età cesariana, permettono di tracciare la storia del monumento e di collegare le informazioni con le evidenze archeologiche (Arata, 2010). A Tarquinio Prisco si deve la consacrazione dell’area e la sistemazione del colle con muri di contenimento, a Servio Tullio la prosecuzione dei lavori, mentre all’ultimo re della dinastia etrusca, Tarquinio il Superbo, la realizzazione del tempio che fu inaugurato il primo anno della repubblica, nel 509 a. C. Durante i lavori per la costruzione dell’edificio, come racconta Dionisio d’Alicarnasso, fu ritrovata la testa di un uomo eccezionalmente conservata che fu interpretata come segno di presagio per la futura grandezza di Roma. Questo ritrovamento è probabilmente da collegare alle numerose sepolture ritrovate nel Giardino Romano datate alla prima età del Ferro. Lo stesso autore greco ci informa della struttura e delle dimensioni dell’edificio: si trattava di un tempio di modello etrusco, con pianta quadrata, cella tripartita per accogliere le divinità della triade capitolina nella metà posteriore mentre quella anteriore, verso sud, era occupata da tre file di colonne. La tipologia di materiale utilizzato per le fondazioni conferma pienamente la datazione all’età di Tarquinio il Superbo. Le decorazioni erano state affidate a officine etrusche di Veio e in particolare
nelle fonti si fa riferimento al coroplasta Vulca, al quale viene attribuita la realizzazione della quadriga posta sul tetto, poi sostituita nel 296 a.C, e della statua votiva di Giove.
La prima grande ricostruzione del tempio si ebbe nell’83 a.C. sotto le guerre civili tra Silla e Mario. La sua riconsacrazione avvenne nel 69 a.C. a cura del console Quinto Lutazio Catulo che aveva ricostruito sulle stesse fondazioni differenziando solamente i materiali delle strutture in alzato. Tra questi dobbiamo includere le colonne prese da Silla dal tempio di Zeus Olimpico di Atene. In epoca imperiale, il tempio subì due gravi distruzioni ravvicinate: la prima nel 69 d.C. con il seppellimento delle macerie in paludes e la ricostruzione sullo stesso basamento modificando leggermente l’altezza dell’alzato; la seconda nell’80 d.C. a causa di un grandissimo incendio che sconvolse Roma, a cui fece seguito la ricostruzione ad opera dell’imperatore Domiziano. Il tempio, ancora intatto nel IV secolo, subì successivamente spoliazioni ad opera di Stilicone, dei Vandali di Genserico e nel VI secolo del generale bizantino Narsete.
Nell’analisi delle facciate del Muro Romano si riconoscono alcuni elementi che possono essere ricollegati ai numerosi interventi di ristrutturazione del tempio e ai successivi cambiamenti di destinazione d’uso delle murature sopravvissute. All’interno del muro si riconosco due vani con feritoie in corrispondenza di alcune parti restaurate con tufelli in epoca altomedievale. Anche la presenza di barbacani è probabilmente da collegare a un utilizzo a scopo difensivo in corrispondenza del confine con i territori dei Conservatori.
La ricostruzione del Tempio di Giove che il museo propone prevede una pianta quadrata di circa 60 metri quadrati (54 x 62 metri) che occupava tutta la superficie della platea, di cui il Muro Romano ne delinea una porzione del lato orientale. Questa interpretazione, integrando le evidenze archeologiche con le fonti storiche, considera l’edificio come esempio di tempio “tuscanico” codificato da Vitruvio: periptero sine postico con sei colonne sulla fronte e con copertura sostenuta da una trabeazione lignea protetta da decorazioni in terracotta dipinta. Molte critiche sono state avanzate a questa ricostruzione che riconosce nel Tempio di Giove Capitolino uno dei più imponenti edifici del periodo arcaico. Esso trova solamente pochi confronti nel Mediterraneo, superando per grandezza anche i maggiori santuari della Grecia (Arata, 2010). Le grandi dimensioni porrebbero anche diversi problemi di natura statica se si prendesse in considerazione la struttura lignea della copertura. Per quanto riguarda la pianta non si troverebbero altri riscontri coevi nemmeno in quelle colonie che replicavano fedelmente
e in dimensioni ridotte i principali monumenti di Roma, tra i quali anche il tempio dedicato a Giove. L’archeologo Arata dunque propone, insieme ad altri, di distinguere la platea dall’effettive dimensioni del tempio che dovevano essere sicuramente più coerenti con altri edifici coevi di Roma e di altre grandi città del Latium Vetus, dell’Etruria e della Magna Grecia. Il tempio doveva essere costruito inizialmente con quattro file di colonne sulla fronte, con la parte anteriore occupata da tre file di colonne parallele e quella posteriore con le tre celle dedicate alle tre divinità venerate. Con la ristrutturazione del 69 a.C. si sarebbe creata una peristasi solamente sui due lati lunghi con la conseguente aggiunta di due colonne sulla fronte. In questo modo si giustificherebbe la descrizione dettagliata fornita da Dionisio d’Alicarnasso.