Parte I La mediazione culturale nei musei archeologici su sito
1.4 Mediazione, comunicazione e interpretazione nei muse
1.4.2 L’esposizione come forma di mediazione culturale
Nella pratica museale si utilizza il termine “mediazione culturale” per indicare una serie di azioni, rivolte a diverse categorie di pubblico, svolte al fine di far comprendere il messaggio del museo in un ambiente di educazione informale. Nel linguaggio corrente, la mediazione “descrive l’azione di costruire un ponte tra esigenze diverse o addirittura contrapposte, per arrivare ad una soluzione considerata soddisfacente” (Nardi, 2011, p. 33); questa azione è favorita da un elemento terzo considerato come intermediario tra elementi (Montpetit, 2011). Più difficile è avanzare una definizione precisa di “mediazione culturale”, poiché questo concetto è ancora soggetto a elaborazioni terminologiche tra coloro che la considerano come elemento interno alle pratiche di operatori della comunicazione in ambito culturale e coloro che tentano una classificazione nell’ambito della teoria della comunicazione (Bordeaux, Caillet, 2013). Jean Davallon proponendo una definizione della mediazione culturale nei musei, ne rileva tutti limiti determinati dalla sua genericità:
“(la médiation culturelle) elle vise à faire accéder un public à des œuvres (ou des savoirs) et son action consiste à construire une interface entre ces deux univers étrangers l’un à l’autre (celui du public e celui, disons, de l’objet culturel) dans le but précisément de permettre une appropriation du second par le premier” (2003, p. 38).
Questa definizione trova diversi contesti di applicazione senza che ne sia chiarita alcuna specificità di azione.
“Certes, l’exposition en tant que dispositif, les médiateurs humains, les outils techniques peuvent être considérés comme des tiers dans la mesure où ils s’interposent entre le monde des visiteurs et le monde de référence représenté par le expôts. Mais le fait d’être identifiables come des tiers ne suffit pas pour fonder une théorie de la médiation” (Bordeaux, Caillet, 2013, p.155).
Nello stesso lavoro (ivi, p. 43), Davallon individua alcuni aspetti comuni ad applicazioni del concetto di mediazione culturale in diversi ambiti disciplinari con la possibilità di circoscrivere le caratteristiche dell’elemento terzo caratterizzante il processo di mediazione. Secondo Davallon, il processo di mediazione culturale:
− provoca sempre un effetto sul destinatario della comunicazione;
− modifica l’oggetto, l’attore o la situazione di partenza poiché questi elementi agiscono in un contesto comunicativo differente;
− utilizza come elemento terzo o un’azione umana o il funzionamento di un dispositivo;
− modifica l’ambiente sociale dove si esplica l’azione dell’elemento terzo.
In questo senso non è possibile considerate il processo di mediazione come una semplice interazione tra elementi, ma è necessario prendere atto di una trasformazione della situazione comunicativa e del dispositivo comunicazionale.
La mediazione culturale è stata considerata come una “forma terza” della comunicazione che potesse superare la contrapposizione tra un approccio fondato sulla trasmissione di conoscenze da un polo emittente a uno ricevente (teoria dell’informazione) e un altro che considera la comunicazione da un punto di vista di interazione tra soggetti sociali, ponendo maggiore attenzione alla relazione tra questi soggetti che alla natura dell’informazione stessa (Cataldo, Paraventi, 2007; Bordeaux, Caillet, 2013). Il modello proposto da Davallon si fonda proprio sulla trasformazione della situazione comunicazionale e sulla ridefinizione degli elementi che si relazionano all’interno dell’esposizione, ovvero oggetti, saperi, individui. È questo stesso processo di trasformazione a rappresentare l’elemento terzo che garantisce la mediazione culturale.
La prima forma di mediazione che il museo garantisce è costituita dall’esposizione stessa. Non è possibile limitare il concetto di esposizione alla semplice ostensione di reperti del passato ma è possibile considerarla come
“une action visant à réduire la tension […] entre l’approche sensorielle, fonction de la proximité physique de l’objet, et l’approche intellectuelle, qui suppose une plus grande distance avec l’objet” (Desvallées et al., 2011, p. 138).
essere intesa come semplice trasposizione di informazioni ma più genericamente come processo di trasmissione di un messaggio per segni che il visitatore ha la possibilità di comprende dal punto di vista emozionale e intellettuale36.
Secondo Davallon (1999) è possibile considerare l’esposizione come un medium, poiché la disposizione di sostanze semiotiche nello spazio (atto che l’autore definisce médiatisation) prende senso solamente in un contesto di comunicazione e agisce, allo stesso tempo, nell’indicare come utilizzare questo strumento per apprendere il contenuto trasmesso. L’esposizione diviene, dunque, un “espace où peut advenir une rencontre, une connaissance entre le récepteur et le monde que les témoins, le faits rapportés, les images, les discours représentent” (ivi, p. 37). Ciò che rende l’esposizione uno spazio privilegiato di mediazione, è la compartecipazione del visitatore che non è considerato solamente come soggetto ricevente l’informazione, ma come attore del suo funzionamento semiotico, simbolico e sociale:
“Ce qui fait la particularité de l’exposition, c’est que le récepteur participant au média est en prise directe avec ces éléments. Ils sont en contact avec lui. Lui les voit, eux lui donnent découverte, plaisir, émotion, compréhension. […] La mise en exposition, médiatisation qui à ce stade s’efface devant l’exposé en se mettant à son service, participe ainsi de la médiation instaurée entre le visiteur e le monde représenté” (ibidem).
All’interno di un museo, la comunicazione si contraddistingue per il suo legame indissociabile e insostituibile con il supporto materico (Deloche, 2011). Più in generale il reperto, attraverso un processo semiotico di tipo indicale (Volli, 2003), diventa il mezzo con cui è possibile stabilire un rapporto con chi lo ha prodotto o più generalmente con il suo mondo d’origine (Davallon, 2002).
Tutte le esposizioni sono una rappresentazione artificiale di una realtà non più esistente, attraverso l’utilizzo di oggetti reali nel presente ma che derivano da quella stessa realtà perduta.
Come è stata riconosciuto un grado di soggettività nell’interpretazione del dato archeologico, così l’esposizione manifesta un’intenzionalità comunicativa che segue a
36 Nella descrizione del processo di trasformazione della conoscenze in museo, Solima (2000) distingue un
processo di socializzazione inteso come circolazione del sapere senza che si faccia ricorso a qualsiasi tipo di
linguaggio o di codifica, da un processo di esteriorizzazione dove la conoscenza si formalizza in linguaggi
testuali e simbolici. Entrambi questi processi hanno lo scopo di operate un’interiorizzazione delle conoscenze da parte del visitatore.
un’interpretazione di colui che l’ha progetta. Attraverso l’allestimento, il curatore dispone sostanze semiotiche per produrre un processo di significazione e di rielaborazione che riporti fatti e valori non visibili, indicando allo stesso tempo come questo processo possa attuarsi, senza che ci sia un riferimento diretto all’autore dell’allestimento: l’esposizione, in questo senso è al servizio di ciò che mostra e non di chi l’ha progettata (Davallon, 1999). Questa operosità silente dell’esposizione non è meno indicativa di un’interpretazione da parte di colui che l’ha ideata. Ricollegandosi a quello che è riconosciuto come primo assioma della comunicazione, “non si può non comunicare” (Volli, 2003, p. 3), anche se un reperto fosse esposto senza alcun’altra forma di mediazione, sarebbe comunque, esso stesso, un produttore di un messaggio e dunque oggetto di interpretazione. In questo quadro, il ruolo del curatore dell’esposizione diviene quindi assolutamente determinante poiché, per definizione, non può esistere nessuna esposizione oggettiva (Delarge, 2001).
Ogni ricostruzione che si rivolge a un processo del passato è necessariamente riferita a una realtà artificiale. Grazie all’esposizione museale, l’immagine del passato, evocata attraverso il contatto con oggetti reali è recepita, comunque, attraverso il filtro rappresentato dal sistema culturale contemporaneo.
L’esposizione lega quindi in un comune spazio semiotico il messaggio (i fatti passati), il mediatore (colui che ha pensato l’esposizione), il medium (l’esposizione) e il ricevente (il visitatore). Dal punto di vista semiotico, lo spazio espositivo è più generalmente inteso come un sistema significante all’interno di un processo di comunicazione tra uomini, fatti e segni/oggetti (Desvallées et al., 2011). Mutuando questi tre elementi che costituiscono i poli in cui si sviluppa il processo di mediazione attraverso la reciproca trasformazione di oggetti, saperi e individui, Davallon (1999) riconosce altrettante tipi di muselogie:
− Museologia degli oggetti che ha come obiettivo la conoscenza delle collezione attraverso la mobilitazione di saperi; l’esposizione, in questo caso, si concentra sugli oggetti esposti offrendo al visitare uno spazio di incontro. Questo tipo di museologia è ampiamente utilizzata nei musei nazionali o regionali, in cui i reperti esposti sono rappresentativi di determinate civiltà. L’organizzazione dello spazio espositivo è generalmente orientata a suddividere i reperti per categorie tipologiche (epoca o luogo di produzione, evoluzione stilistica, ecc.). − Museologia delle idee che ha come obiettivo la comunicazione e la comprensione
di saperi attraverso l’esposizione di oggetti. Questo tipo di museologia è molto comune nei musei scientifici, in cui l’oggetto perde l’attributo di rarità per essere al servizio del messaggio che l’esposizione vuole comunicare. Anche in ambito archeologico trova la sua applicazione nelle sezioni dei musei che intendono approfondire alcuni aspetti della vita del passato, come l’evoluzione di specifici contesti urbani attraverso l’esposizione di oggetti provenienti da indagini sul campo combinate con la documentazione di scavo, o l’approfondimento della diffusione di particolari produzioni, o una rappresentazione di alcuni aspetti sociali della vita del passato. Questo tipo di museologia risponde all’esigenza di strutturare una narrazione coerente che possa essere facilmente riconoscibile dal visitatore per agevolarne l’orientamento durante l’esperienza di visita. La museologia che utilizza l’esposizione e gli oggetti del patrimonio per sviluppare temi è la forma più comune di presentazione dei contenuti nei musei archeologici su sito.
− Museologia del punto di vista, centrata sull’esperienza vissuta dal visitatore e caratterizzata da un allestimento che riporta a un mondo fittizio in cui il visitatore vive un’esperienza di immersione. Questa museologia si fonda sul concetto di mondo utopico, distinto dallo spazio sintetico, che coincide con quello reale della visita. Il mondo utopico deriva dalla ricostruzione da parte del visitatore di un mondo simbolico di rappresentazioni derivanti dall’organizzazione dei significati prodotti nel corso della visita. Questo mondo è ancorato a riferimenti reali quando si forma per fruizione di oggetti del patrimonio.
La museologia del punto di vista ha l’obiettivo di far coincidere lo spazio sintetico dell’esposizione con il mondo utopico attraverso gli allestimenti, per trasmettere conoscenze e informazioni sugli oggetti esposti. Al contrario, la museologia degli oggetti e la museologia delle idee hanno la finalità di proiettare il visitatore nel proprio mondo utopico attraverso il contatto con gli oggetti e la trasmissione di contenuti (Flon, 2012).
La museologia del punto di vista trova oggi molte applicazioni, favorite probabilmente anche dalla diffusione di allestimenti che ricorrono a ricostruzioni virtuali. Allo stesso tempo, con i suoi riferimenti a mondi non reali, ha suscitato due diverse reazioni nel dibattito scientifico: critiche da coloro che preferiscono un approccio più tradizionale
alla comunicazione museale e che denunciano una deriva verso la spettacolarizzazione e snaturalizzazione dell’istituzione museale; entusiasmi da coloro che, aderendo ad approcci costruttivisti, rifiutano l’idea stessa di una trasmissione delle conoscenze e che, in alcuni casi, arrivano a non considerare determinante il riferimento e l’integrazione di reperti originali nelle esposizioni. La museologia del punto di vista prende le distanze da questo ultimo approccio proprio perché prevede l’integrazione di oggetti riferiti a un mondo reale (i reperti originali) in allestimenti che riproducono un mondo utopico.
A questo punto del discorso, è necessario procedere a due tipi di precisazione circa l’applicazione di questi tipi di museologie nel contesto museale. La prima prende le mosse dalla considerazione che nell’analisi delle esposizioni non è possibile riconoscere il ricorso a un unico tipo di museologia, ma a una combinazione delle stesse.
La seconda considerazione ha lo scopo di rilevare che l’applicazione di questi tipi di museologia va oltre la semplice organizzazione scenografica degli allestimenti per incontrare forme di coinvolgimento diretto del visitatore anche attraverso interventi che agiscono sulla natura stessa della trama narrativa su cui si articola il discorso espositivo37. La disposizione degli oggetti del patrimonio, le caratteristiche specifiche degli strumenti di comunicazione utilizzati, più in generale l’esposizione, sono forme in cui si esplicano i processi di mediazione culturale con lo scopo di orientare il processo di creazione di significato del visitatore attraverso la sua esperienza di visita (Gottesdiener, 1992; Gottesdiener, Kawashima, 1998, Flon, 2012).
Anche se i musei presentano caratteristiche molto differenti nella composizione delle loro collezioni e nella scelta dei loro obiettivi, i processi di comunicazione e di mediazione culturale possono essere adattati a qualsiasi circostanza e trovano la loro applicabilità a prescindere dalla specificità del contesto museale (Nardi, 2011). Che si tratti di un museo archeologico, d’arte o scientifico, le dinamiche di trasformazione proprie dei processi di mediazione culturale riguarderanno sempre i tre poli di comunicazione: oggetti, saperi, individui.
Nel difficile tentativo di identificare le caratteriste specifiche di un museo archeologico su sito, evidenziato all’inizio del capitolo, a questo punto possiamo riconoscere proprio nei processi di mediazione attivati attraverso l’esposizione, l’elemento che contraddistingue questa forma di contatto con le presenze archeologiche.
37 Jean Davallon parla della dimensione testuale, non tanto come insieme di elementi significanti, quanto
come un’entità comunicativa, di natura instabile a causa della natura degli elementi che la compongono, che ha bisogno di essere attualizzata grazie alla collaborazione del visitatore (1999, p.14).
Non si tratta, infatti, solamente di una fruizione di un sito attraverso la combinazione di presenze archeologiche, reperti e strumenti di mediazione, quanto alla possibilità di creare le condizioni di una mediazione culturale attraverso l’organizzazione spaziale e narrativa di un’esposizione che guidi il visitatore nella costruzione di significato attraverso processi di interpretazione. Rispetto ai musei open air o agli Antiquaria, riconosciamo nelle caratteristiche delle tre azioni di creazione dell’esposizione, individuate da Davallon (1999) la specificità di un museo archeologico su sito:
“les deux opérations de langage38 qui aboutissent à l’institutions de quatre mondes (le monde
quotidien d’où vient le visiteur, le monde d’où vient l’objet, l’exposition comme monde de langage, le monde utopique comme mode de signification e de valeurs construit) ; les deux énonciations (celle du producteur aboutissant à l’espace synthétique et celle de la visite) ; le résultat de l’activité du visiteur, activité d’interprétation à l’origine de la production du monde utopique” (p. 143).
Lo spazio sintetico dell’esposizione permette al visitatore di vivere un’esperienza che si distacca dalla quotidianità attraverso la presenza di oggetti reali che assumono significati simbolici e valori socialmente riconosciuti. Il sito archeologico si trasforma da luogo di ricerca a testimonianza materica su cui si depositano valori condivisi fino a divenire uno spazio artificiale dove è possibile sviluppare un’esperienza di contatto reale con un “mondo altro”.
1.4.2.1 La narrazione del sito tra passato e presente
Come è stato precedentemente osservato, il museo archeologico su sito presenta una convergenza dei contesti che generalmente sono riconoscibili nell’istituzione museale, considerando l’edificio-contenitore e l’istituzione come anelli di una narrazione cronologica che lega le vicende umane al luogo identificato come sito (Nardi, 2011). Il museo diventa, allo stesso tempo, agente e oggetto destinatario di un processo di valorizzazione.
Le presenze archeologiche sono considerate come testimonianze di un mondo passato e come risorse di discorsi che possono articolarsi attorno ad esse, offrendo la
38 L’autore si riferisce alle seguenti operazioni: la selezioni di elementi presi dal mondo reale al di fuori
dell’esposizione e il loro assembramento nel contesto specifico dell’esposizione con la creazione consequenziale di un mondo altro (ivi, p. 166).
possibilità di sviluppare una narrazione che contempli categorie sempre più generali a prescindere dalla specificità delle singole scoperte.
Nei processi comunicativi di questo tipo di museo, il tema della narrazione sembra essere centrale. L’esposizione è generalmente orientata a ricostruire le sequenze di una narrazione, obiettivo ultimo della ricerca archeologica che interroga il terreno svelandone, non i suoi testori, bensì i suoi indizi. La memoria del luogo si fa materia e la testimonianza visibile rende il visitatore partecipe e testimone, al tempo stesso, del passaggio del tempo (Ruggieri Tricoli, 2004). Rispetto ad altre forme di musealizzazione, il museo su sito sembra essere maggiormente orientato al racconto della storia della presenza antropica, a causa della natura stessa del sito, inteso come insieme di tracce da interpretare in una trama narrativa, della necessità di organizzare informazioni ed elementi cronologicamente disomogenei, dell’origine delle informazioni raccolte secondo gli scopi e i principi propri della ricerca archeologica.
La ricerca museologica ha evidenziato l’importanza della narrazione nella mediazione culturale nei musei (Silverstone, 1998). Nel lavoro di ricerca sulla pratica della visita guidata, Gellereau (2005) ha mostrato la centralità del racconto nei processi di comunicazione e mediazione culturale
“Une de forces de la narration, son lien avec l’action, est de donner de la vie aux lieux visités, de reconstruire le sens qu’ils ont pour les hommes qui les ont occupé, ou qui y vivent, ou le rôle que les hommes font jouer aux objets” (ivi, p. 121).
Mutuando il discorso al più generale contesto dell’organizzazione della trama espositiva, possiamo ritrovare alcuni elementi considerati da Gellereau come concorrenti alla costruzione di quello che Davallon (1999) definisce “mondo utopico”. Il racconto permette di
− caratterizzare luoghi dello spazio espositivo attraverso l’utilizzo di personaggi che mettono in scena delle rappresentazioni;
− organizzare le informazioni in un sistema coerente in modo da agevolare il processo di interpretazione;
− agevolare la circolazione di idee, valori e fatti per la costruzione di un racconto condiviso e collettivo.
Alcuni di questi elementi sono stati rilevati attraverso ricerche qualitativa sul pubblico (Flon, 2012) al fine di esplorare il ruolo del racconto di finzione nei processi di interpretazione dei visitatori39. Le indagini hanno confermato come il racconto di finzione (fiction) sia uno strumento utile al visitatore per organizzare le informazioni raccolte e a creare un legame e un termine di confronto con le esperienze personali.
L’apporto dato da questo di tipo di ricostruzione ipotetica sotto forma di racconto, che trova applicazione nelle discipline, come l’archeologia, che basano l’acquisizione delle conoscenze attraverso processi di tipo abduttivo, influenza direttamente l’esposizione in termini di organizzazione spaziale o discorsiva. Il racconto diventa lo strumento di mediazione che non si limita a creare un legame tra due mondi, quello del passato e quello del visitatore, ma ne favorisce la creazione di un terzo la cui sostanza è data dalle conoscenze della ricerca archeologica e la sua concretizzazione è garantita dall’esposizione. In questo senso
“la médiation n’est plus un passage, mais une oscillation entre deux mondes qui en produit un troisième, un espace tierce qui possède sa propre épaisseur et son propre mode de fonctionnement. Cet espace tierce participe à modifier les deux monde qu’il met en contact : il installe une porosité qui empêche une distinction nette entre producteur de savoirs et destinataires des messages. Il n’y a d’ailleurs plus un message, mais significations produites en collaboration, qui sont par conséquent multiple” (ivi, pp 119-120).
I musei archeologici su sito non espongono solamente la testimonianza di un mondo passato, ma anche del “tempo della ricerca”, attraverso la comunicazione delle metodologie con le quali le conoscenze si sono prodotte. Anche nei casi in cui l’esposizione non preveda unità tematiche sulla ricerca archeologica, il modo in cui il sito stesso si presenta è il prodotto finale di attività di esplorazione del terreno e di conservazione delle presenze individuate. Il visitatore avrà sempre un riferimento constate all’azione che ha prodotto le informazioni sulle quali si basa il progetto museale, che possiamo considerare come l’ultima fase di trasformazione e valorizzazione del sito. Ecco dunque che la trama narrativa del museo coinvolge direttamente il visitatore nel presente della sua esperienza, facendogli percepire di essere parte della
39 La ricerca riportata da Flon (2012, pp. 97-100) è stata condotta nei musei di Pont du Gard (Provenza) e di
stessa storia che ha avuto occasione di esplorare40.
40 In questo caso possiamo considerare un coinvolgimento del diretto del visitatore in quel mondo