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Le fonti non arabe della letteratura sapienziale

1.3. La letteratura sapienziale

1.3.5. Le fonti non arabe della letteratura sapienziale

Come si è potuto intuire da quanto detto finora, il materiale sapienziale circolante in lingua araba sia in epoca pre-islamica sia in epoca islamica è stato, in parte, prodotto direttamente in tale lingua, in parte tradotto da opere di origine straniera. La nostra conoscenza della società araba pre-islamica è troppo frammentaria perché ci sia possibile determinare l’origine di determinate massime secondo il criterio di quelle che possiamo chiamare “caratteristiche sociali”.134

Al contrario, per quanto riguarda l’epoca islamica sappiamo esattamente in quale modo le massime di origine straniera sono giunte all’interno della lingua araba, attraverso l’assimilazione degli individui provenienti dal retroterra etnico e culturale delle terre conquistate che dovettero imparare ad esprimersi attraverso la nuova lingua franca del Medio Oriente.

Per quanto possa risultare difficile documentare questo fenomeno a livello generale, è comunque possibile effettuare un’indagine sulle singole massime, indicando quelle per le quali è possibile trovare sia una versione araba, sia una versione, o quantomeno una documentazione indipendente. Si può dunque dire con certezza che vi sono quattro culture dalle quali il materiale sapienziale è stato tradotto in lingua araba: quella greca, quella persiana, quella siriaca e quella indiana.

133 Si pensa che il Siwān al-Ḥikma originario dovesse contenere una storia della filosofia greca, le

biografie e i detti dei filosofi greci da Talete a Filopono e infine le biografie e i detti dei filosofi arabi da al-Kindī ad Abū Sulaymān al-Maqdisī, uno degli Iḫwān al-Ṣafā῾; cfr. C. D’Ancona, “Al-Kindī e la sua eredità”, in Storia della filosofia nell’Islam medievale, p. 322 n. 163

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La maggior parte delle massime tradotte provengono dalla letteratura in lingua greca. Esse possono essere prevalentemente suddivise in due gruppi in base al contenuto: il primo gruppo riguarda le massime di argomento politico, il secondo quelle di contenuto etico.

Le massime di natura politica di cui stiamo parlando provengono prevalentemente dalle fonti bizantine del VI e del VII secolo, principalmente da manuali dedicati all’amministrazione dello Stato e all’arte bellica. Esse sono strettamente connesse con la letteratura degli Specula principis.

Questo materiale, con l’aggiunta di massime provenienti da fonti greche più antiche – siano esse classiche, ellenistiche o ermetiche – e da fonti persiane, fu raccolto e tradotto sotto la supervisione di Sālim Abū l-῾Alā᾿, un segretario del califfo umayyade Hišām ibn ῾Abd al-Malik (r. 724-743). Tale materiale, opportunamente riadattato, è andato così a costituire un ciclo di opere in arabo che si presenta come una serie di epistole tra Aristotele ed Alessandro, la quale influenzò enormemente la letteratura dell’adab.

Osserva Dimitri Gutas che l’attività di traduzione associata a questo ciclo di opere rappresenta l’ultima traccia dell’influenza della tradizione amministrativa bizantina sulla burocrazia umayyade, e non va confusa con l’attività di traduzione che sorse più tardi e che riguardò più specificatamente la classe degli intellettuali (scienziati, astronomi, medici, filosofi).

Il secondo gruppo di massime di origine greca, di carattere etico, è anche il più vasto; le fonti sono cronologicamente collocabili nel corso di tutta la storia del mondo grecofono, e sono sia di origine pagana sia di origine cristiana. Dobbiamo la loro traduzione in arabo principalmente a Ḥunayn ibn Isḥāq e ai membri della sua scuola. I già citati Nawādir al-falāsifa e Ṣiwān al-ḥikma sono esempi di collezioni di materiale sapienziale di questo tipo.

Il materiale sapienziale di origine persiana, invece, è stato ovviamente tradotto in arabo dalla lingua pahlavi, prevalentemente da musulmani di origine persiana che, come è il caso di Ibn al-Muqaffa῾, ricoprivano incarichi ufficiali. Il periodo più florido per questo tipo di traduzioni va dal II al III secolo dopo l’Egira. Come è stato detto all’inizio di questa introduzione, in buona parte questo materiale proviene dalla letteratura degli andarz, dai libri titolati pandnāmag (libro dei consigli), ma anche da

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scritti politici come i cosiddetti libri degli atti dei re, kārnāmag, al singolare; oppure dalle normative per l’amministrazione del governo, note col nome di āyīn – all’interno delle quali, però, possono essere presenti frammenti provenienti, ad esempio, dai manuali bizantini per l’amministrazione e sull’arte bellica, come è stato mostrato da alcuni studi.135

Alcune di queste traduzioni ebbero una fama decisamente durevole; un esempio è rappresentato dall’opera nota come Kitāb al-Tāǧ fī Aḫlāq al-Mulūk (Libro

della corona nei costumi dei re), attribuita ad al-Ǧāḥiẓ: essa entrò a far parte della

letteratura araba grazie a una traduzione dal pahlavi redatta nel IX secolo, fu largamente citata in molte opere sia arabe sia neo-persiane, e nel XVI secolo fu tradotta in turco.136

Il capitolo dedicato alla sapienza dei Persiani dell’opera di Miskawayh di cui si occupa questa tesi, può essere utile a dare un’idea di che tipo di materiale sapienziale di origine persiana circolasse nel mondo arabo attorno al X secolo; per questo motivo, rimandiamo ai capitoli successivi per una trattazione più puntuale di questo argomento.137

Alcune delle massime tradotte dal persiano, comunque, possono essere state a loro volte tradotte dal sanscrito, e una piccola parte del materiale sapienziale in arabo proviene da una traduzione diretta di questa lingua. Riguardo a queste ultime, si ritiene che esse siano giunte all’arabo in connessione con la traduzione della letteratura medica, e la loro formulazione è quindi attribuita a fisici indiani.

L’insieme delle massime tradotte in arabo dal siriaco, invece, può essere suddiviso in tre categorie: massime di origine biblica, massime tradotte dal greco in siriaco, ed infine massime collegate alla tradizione dell’Aḥīqar.138

Possiamo dunque concludere affermando che il materiale sapienziale circolante in arabo nell’epoca Islamica, preso complessivamente, raccolga in sé le eredità delle molteplici tradizioni di tutti i territori confluiti sotto al dominio arabo grazie all’espansione islamica del VII secolo, rielaborandole e riproponendole in una nuova veste rispettosa dei principi della Rivelazione. Esso è dunque testimone, al contempo, sia della nuova identità comune tutte queste popolazioni, quella religiosa; sia di quella

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D. Gutas, “Classical Arabic Wisdom Literature”, pp. 61, 82 n. 177.

136 Cfr. L. Marlow, “Advice and advice literature”, p. 35. 137 Vedi infra, cap. III, 2.2. “Le massime dei Persiani”, p. 199s. 138 L’Aḥīqar araba è stato infatti tradotto dal siriaco.

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composizione multiculturale che resta un elemento fondante ed ineliminabile della ricchezza del Califfato.

1.4. Le raccolte di aḥādīṯ

A tutto il materiale sapienziale in arabo finora trattato, si possono attribuire diversi scopi che vanno dall’intrattenere la corte al fornire consigli sull’amministrazione dello Stato o su discipline specifiche come la calligrafia; dal promuovere le virtù sociali richieste al gentiluomo al trasmettere insegnamenti ṣūfi. Ma, nel complesso, un unico scopo accomuna tutte le varie forme della letteratura sapienziale: preservare le esperienze, le osservazioni e le opinioni delle passate generazioni, arabe e non arabe; e presentarle alle generazioni presenti e future come conoscenze da considerarsi utili ed autorevoli; nonché come ideali di comportamento ai quali cercare di adeguarsi.

Alla base di questo atteggiamento verso le massime degli antichi, risiedono due assunzioni teoriche, che si presentano come caratteristiche costanti nella cultura araba: la prima è la credenza che i pronunciamenti degli antichi abbiano validità, rilevanza e, soprattutto, autorità in quanto tali; la seconda è la legge estetica per la quale la concisione è una caratteristica fondamentale dell’eloquenza. Infatti, la forma in cui questa conoscenza arcaica si è tramandata di generazione in generazione è stata quella della massima concisa ed eloquente, esteticamente gradevole, facile da ripetere e da ricordare.

Si può facilmente presumere che la società islamica abbia ereditato e assimilato la forma e gli obbiettivi della letteratura sapienziale, e con essi l’assunto dell’autorità contenuta negli insegnamenti degli antichi, dalla Ǧāhiliyya; anzi, senza dubbio l’importanza della letteratura sapienziale fu maggiore in epoca pre-islamica di quanto non lo fosse nell’epoca islamica dal momento che essa, da sola, costituiva una porzione fondamentale della letteratura in generale, a causa del basso livello di alfabetizzazione della società araba pre-islamica. La conoscenza, quindi, non poteva che provenire in massima parte dagli antichi attraverso la trasmissione orale ed in una forma che potesse sopravvivere facilmente.

Osserva Dimitri Gutas che ponendo l’attenzione su questi aspetti della letteratura sapienziale della società pre-islamica, si potrebbe gettare una nuova luce sul metodo

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della predicazione di Muḥammad, in modo tale da poterlo valutare da un’altra angolazione; oltreché rendere maggiormente intelligibile la natura della rivalità che sorse durante la vita del Profeta – e che, come abbiamo potuto vedere, è testimoniata anche dagli aḥādīṯ – tra il messaggio rivelato a Muḥammad e la pre-esistente letteratura sapienziale.

Riporto la citazione per intero: «Certamente la sua richiesta di obbedienza verso i sui contemporanei posò sulla sua pretesa di essere il Messaggero di Dio; questo Dio, però, non era un dio qualsiasi, bensì quel Dio la cui testimonianza è stata confermata dall’autorità degli antichi: la tradizione di Abramo (il cui maqām [luogo] era la Ka῾ba) e l’intera successione di profeti da Adamo a Muḥammad. Come espressione dell’autorità degli antichi, dunque, la chiamata all’Islam deriva una parte significativa della sua validità dallo stesso quadro concettuale che nella società araba pre-islamica ha conferito autorità alla letteratura sapienziale. E la forma coranica della chiamata all’Islam fa altrettanto: l’unità predominante della Rivelazione è il versetto breve ed eloquente, esteticamente gradevole e facile da ricordare e riprodurre, dotato di distinte affinità formali con la letteratura sapienziale. Anche la letteratura degli aḥādīṯ deriva dal medesimo quadro concettuale: gli aḥādīṯ, originariamente privi di isnād, non sono altro che le massime sapienziali del Profeta».139

Nell’ottica di Dimitri Gutas, quindi, sia il Corano, sia, in modo ancora più esplicito, la “letteratura” degli aḥādīṯ140, avrebbero qualcosa in comune con la letteratura sapienziale, sebbene ciò implichi valutarle, in base allo stile e al contenuto, ponendole sullo stesso piano; il che, ovviamente, dal punto di vista islamico, è inaccettabile.

Se abbiamo voluto accennare anche alle raccolte di aḥādīṯ è perché ciò era doveroso dal momento che, effettivamente, è anche all’influenza dello stile di queste

139 Tradotto da D. Gutas, “Classical Arabic Wisdom Literature”, p. 68. 140

Molti dei profeti, all’interno del Corano, vengono descritti nell’atto di recare consigli alla loro comunità (Hūd: Cor. VII, 68; Noah: VII, 62, XI, 34; Ṣāliḥ: VII, 7; Šu῾ayb; VII, 93) In contrasto con i profeti, Satana adotta la posa di un sincero consigliere di fronte ad Adamo e alla sua consorte con il l’intenzione di nascondere i suoi reali propositi (Cor. VII, 21). I fratelli di Giuseppe fingono di volerlo benevolmente consigliare mentre in realtà vogliono arrecargli un danno (Cor. XII, 11). Aronne è dipinto come un consigliere di Mosè, e quest’ultimo chiede a Dio di rendere suo fratello il suo wazīr (Cor. XX, 29-30, XXV, 35). Muḥammad stesso è così sollecitato: «Consultati con loro sugli ordini da impartire; poi, quando avrai deciso, riponi la tua fede in Dio» (Cor. III, 159); anche il precetto coranico di “comandare il bene e proibire il male”, è stato spesso inteso come obbligo ad offrire consigli.

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raccolte che è stato connesso il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida, ed in generale l’affermarsi della letteratura sapienziale in arabo nel corso dei secoli.141

Dice infatti Mohammed Arkoun in L’Humanisme Arabe au IVe/Xe Siècle: «Le

masse popolari […] non dovettero essere completamente estranee al contenuto di queste antologie aperte a una saggezza di essenza universale e laicizzante. Senza dubbio, un uomo come Miskawayh non scrisse solo per loro; ma i testi che esso accoglie comunicano delle norme così antiche e così caratteristiche della mentalità medievale che possono essere considerate il bene comune di tutta l’umanità. Non va dimenticato che, con diverse tonalità, il senso del divino sta ugualmente presso il ricco e il povero, presso lo spirito colto e l’ignorante. Tuttavia, la sensibilità religiosa delle classi popolari si nutre delle rappresentazioni mitiche, delle credenze non affrancatesi dallo stadio del magico, delle immagini ideali suscitate dai racconti dei predicatori (quṣṣāṣ) e dall’insegnamento dei tradizionisti (ahl al-ḥadīṯ). All’interno di una trama così fortemente tessuta, il ritratto del Profeta – o di ῾Alī per gli šī’iti – si impone come l’esempio della perfezione voluta da Dio, vale a dire come un valore sacro che trascende tutti i valori umani».142

Nel Kitāb adab al-dunyā wa-l-dīn (Libro dell’adab del mondo inferiore e della

religione)143, il famoso giurista sunnita al-Māwardī del X secolo144 scrive: «Le massime […] hanno sull’udito un effetto e sui cuori un’azione che non sarebbe raggiunta dall’azione della lingua corrente. É così che le massime illuminano le idee e forniscono delle immagini chiare; le anime ne sono affascinate, i cuori confidano in esse e le intelligenze vi aderiscono. Questo è il motivo per il quale Dio fece uso delle parabole nel suo prezioso Libro».145

Ovviamente, come ho accennato sopra, nelle classificazioni dei generi letterari del periodo classico né le raccolte di aḥādīṯ, né tantomeno il Corano vengono considerati alla stregua di normali opere letterarie da classificare in base allo stile, ma

141 Vedi, ad esempio, G. C. Anawati, “La Sagesse Éternelle de Miskawayh”, Revue du Caire, 1952, pp.

59-81.

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Traduzione da M. Arkoun, L’Humanisme Arabe au IVe/Xe Siècle, p. 150.

143 Māwardī, Adab al-dunyā wa-l-dīn, ed. M. Saqqā, Il Cairo, 1955.

144 Abū l-Ḥasan al-Māwardī, nato a Baṣra e vissuto nel X secolo, fu un giurisperito e un qādi del maḏhab

šafi῾ita, la cui opera più importante fu il Kitāb al-Ahkam al-sultaniyya (Le ordinanze di governo); cfr. C. Bori, “Il pensiero politico sunnita nel Medioevo. La questione del Califfato: al-Mawardi (m. 1058) e Ibn Taymiyya (m. 1328)” in Storia del pensiero politico islamico, a cura di M. Campanini, Le Monnier, Milano, 2017, pp. 47-67.

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vengono piuttosto considerati sui generis146, e non collegati, perlomeno non esplicitamente, a nessuno stile che sia paragonabile a quello utilizzato da opere prodotte dagli esseri umani. Questo vale specialmente per il Corano, per il quale la sussunzione a un genere letterario potrebbe entrare in contraddizione con il dogma teologico dell’inimitabilità (i῾ǧāz). La riflessione degli arabisti non musulmani, non vincolata dai principi della religione, non si pone particolari ostacoli nel considerare quello degli

aḥādīṯ un esempio di letteratura sapienziale, o nel collegare il Corano allo stile letterario

del saǧ῾147

, quando al contrario la questione fu oggetto di dibattito in ambito musulmano, in particolare a causa di un ḥadīṯ nel quale si mette in guardia dall’uso del

saǧ῾, essendo questa forma letteraria utilizzata dagli oracoli e dagli indovini.148

Critici letterari come al-Bāqillānī (m. 1030) affermarono infatti esplicitamente che il Corano non contiene esempi di saǧ῾.149