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Il Kitāb al-Ḥikma al-Ḫālida

1. Storia dell’opera

Il titolo dell’opera, al-Ḥikma al-Ḫalida, altro non è che la traduzione araba di

Ǧāwīdān Ḫirad, il titolo, in persiano, del testamento spirituale del re Ūšhanǧ a suo

figlio e ai suoi successori. Tale testamento è infatti presente all’interno di quest’opera, ma non da solo: ad esso infatti seguono, come vedremo, tutta una serie di altri testamenti e di raccolte di massime tratte da sapienti e re persiani, indiani, arabi e greci, di epoche molto diverse. Il fatto che Miskawayh, nonostante la natura composita dell’opera, abbia scelto per essa il titolo di al-Ḥikma al-Ḫalida – lo stesso di un testamento in particolare contenuto nell’antologia – può essere dunque inteso come un’ulteriore prova del suo motivo conduttore, come Miskawayh stesso, peraltro, si premura di spiegare; afferma infatti nella conclusione che «in tutte le nazioni, gli spiriti si accordano nel seguire la medesima via, non in modo differente a seconda del paese, né mutando a seconda dell’epoca; niente li discosta dal loro cammino nel corso dei secoli e delle generazioni. È per questo motivo che il presente libro porta proprio questo titolo, ovvero Ǧāwīdān Ḫirad».328 Effettivamente, è l’unità della sapienza di tutte le nazioni che quest’opera si propone di mettere in luce; poiché non vi è differenza, secondo Miskawayh, tra la sapienza espressa dagli antichi persiani, quella degli indiani, degli arabi di tutte le epoche, e dei filosofi greci. Al massimo vi potrà essere solo una differenza di stile: la saggezza persiana e quella araba è principalmente comunicata attraverso formule concise e penetranti, quella degli indiani ha invece una predilezione per la simmetria e per la numerazione, mentre quella greca si esprime soprattutto attraverso l’argomentazione razionale.

La composizione dell’opera, secondo Arkoun, è compresa tra il 998 e il 1004; Miskawayh deve infatti aver iniziato molto presto a cercare materiale che potesse essere inserito all’interno della raccolta; e se è esistito anche un Kitāb Uns al-farīd, esso deve essere appartenuto, secondo Arkoun, al medesimo periodo; entrambe le antologie, in tal

328 Miskawayh, Al-Ḥikma al-Ḫālida, pp. 375-376. La citazione è tratta da M. Arkoun, L’Humanisme

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modo, avrebbero lo scopo di confermare, attraverso testimonianze di varia origine, la verità teorica contenuta nel Tahḏīb al-Aḫlāq. Scrive infatti Miskawayh: «Se noi non avessimo già sufficientemente definito tutti i fondamenti (uṣūl) [della Morale] nel nostro libro intitolato Tahḏīb al-Aḫlāq, ci saremmo imposti di farlo qui. Ma il nostro scopo in questo libro è quello di citare le considerazioni particolari sulle regole della buona condotta in rapporto alle esortazioni tramandate dai saggi di tutte le nazioni e di tutte le confessioni».329

Quest’opera ci è pervenuta in ben quattordici manoscritti, di cui solo quattro sono stati utilizzate da ῾A. Badawī per la sua edizione del 1952.330

In essa l’autore non prende la parola direttamente che per poche righe – circa sessanta – nell’introduzione e nella conclusione, mentre tutto il resto è lasciato ai sapienti e ai re dei quali egli sostiene di aver trovato le massime e i testamenti; nell’introduzione, Miskawayh racconta come egli, durante la sua giovinezza, fosse venuto a contatto con un’opera di al-Ǧāḥiẓ, intitolata Istālat al-fahm – la quale, purtroppo, non ci è pervenuta; sarebbe stato proprio grazie a questo libro che Miskawayh sarebbe venuto a conoscenza dell’esistenza di un’opera dal titolo Ǧāwīdān

Ḫirad: al-Ǧāḥiẓ ne riportava alcuni estratti e ne tesseva le lodi. Il nostro autore si mise

dunque sulle sue tracce, e finì col trovarla in Persia, a suo dire presso il Mūbiḏan mūbaḏ, il più alto sacerdote della religione zoroastriana. Si accorse dunque che l’opera aveva una qualche somiglianza con le sentenze dei Persiani, degli Indiani, degli Arabi e dei Greci allora in circolazione, pur essendone molto più antica: si trattava, in effetti, del già menzionato testamento di Ūšhanǧ. Miskawayh dunque si apprestò a ricopiarne il testo originale, per poi aggiungervi tutto ciò che fu in grado di trovare presso i popoli suddetti, affinché il suo lavoro, una volta ultimato, potesse risultare utile alle future generazioni.

Questo è infatti l’incipit dell’opera: «Il libro della Sapienza Eterna (Ǧawīdān

Ḫirad, in persiano nel testo), contenente le massime dei Persiani, degli Indiani, degli

Arabi e dei Greci, donato dal re Ūšhanǧ in eredità ai suoi successori, tradotto dalla lingua antica alla lingua persiana da Kunǧūr ibn Isfandiyār, visir del re dell’Impero

329 Miskawayh, Al-Ḥikma al-Ḫālida, p. 25. La citazione è tratta da M. Arkoun, L’Humanisme Arabe au

IVe/Xe Siècle, p. 118.

330 Tuttavia, fa notare Arkoun, egli non soltanto è ricorso anche agli altri manoscritti per verificare le sue

interpretazioni, ma è anche ricorso alle opere originali dalle quali Miskawayh ha tratto i suoi frammenti; cfr. Ibid., p. 119.

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Iraniano331, tradotto in arabo da al-Ḥasan ibn Sahl, fratello di al-Faḍl ibn Sahl, possessore di due domini, e completato da Aḥmad ibn Muḥammad [ibn] Miskawayh».332

Ūšhanǧ (Hošang) è il nome di un re leggendario della letteratura persiana vissuto, secondo il mito, in un tempo non di molto successivo all’epoca del Diluvio; Kunǧūr non è menzionato altro che in questo testo333, mentre, al contrario, al-Ḥasan ibn Sahl, menzionato come il traduttore, è conosciuto: è vissuto infatti sotto al-Ma᾿mūn e ne fu per un certo tempo il visir. Fu uno scrittore di talento delle cui opere è possibile trovare alcuni estratti presso Tayfūr, al-Husrī e Ibn Rabbihi. Effettivamente, Ibn al- Nadīm riporta nel Fihrist che egli fu un traduttore dal persiano all’arabo. Non si fa menzione, tuttavia, della traduzione del Ǧāwīdān Ḫirad.