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Le ipotesi atipiche di risoluzione

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO (pagine 101-105)

9. L’azione di risoluzione

9.4. Le ipotesi atipiche di risoluzione

A chiusura della presente sezione, pare opportuno affrontare – in forma sintetica, ma organica – una questione che si è già intravista tra le pieghe del discorso sinora condotto: le

species di risoluzione espressamente previste dalla legge rappresentano gli unici casi in cui

l’effetto risolutivo di un contratto può essere ottenuto oppure esistono ipotesi atipiche di risoluzione?

La risposta è semplice per quanto riguarda le ipotesi di risoluzione giudiziale. Come sottolineato all’inizio del capitolo (290), le sentenze con cui si estinguono rapporti giuridici sostanziali – quali sono le sentenze che provocano l’effetto di risoluzione e di conseguenza estinguono rapporti contrattuali – non possono essere pronunciate se non “nei casi previsti dalla legge” (art. 2908 c.c.). Ne segue che, al di fuori dei casi disciplinati dagli artt. 1453 e 1467 ss. c.c., non sono ammesse ipotesi di risoluzione giudiziale.

La soluzione si complica, invece, con riferimento alle fattispecie di risoluzione che si perfezionano senza passare dalle autorità giurisdizionali.

Secondo un primo orientamento, nessuna forma di risoluzione stragiudiziale atipica trova cittadinanza nel nostro ordinamento (291). Le ragioni addotte a supporto di tale conclusione sono essenzialmente due. In primis, in termini generali, il legislatore ha inteso limitare l’esperibilità di rimedi in autotutela ai soli casi stabiliti dalla legge. In secundis, nel settore dei contratti, l’esigenza di ottemperare al principio per cui “il contratto ha forza di legge tra le parti” (art. 1372 c.c.) impone che i modi di estinzione del vincolo contrattuale siano certi e ben definiti.

Un diverso esito è propugnato da alcune voci minoritarie, che reputano efficaci anche tipologie di risoluzioni stragiudiziali diverse da quelle contemplate in esplicite previsioni normative.

La prima ipotesi che viene individuata è quella in cui gli interessi delle parti convergano sull’effetto risolutivo. Ciò avviene, per esempio, quando il diffidato, il contraente cui viene comunicata l’intenzione di avvalersi di una clausola risolutiva espressa o il debitore che non rispetta un termine essenziale scelgono di astenersi dal contestare la sussistenza dei fatti che costituiscono la risoluzione di diritto. Così, ben può accadere che il contratto rimanga concretamente inattuato anche se non sussistono i presupposti per il suo scioglimento.

(290) Cfr. supra, par. 3.

(291) Abbracciano tale linea di pensiero U. CARNEVALI, La risoluzione per inadempimento cit., p. 44; R. E. CERCHIA, Quando il vincolo contrattuale si scioglie cit., p. 117. Applicazioni di tale tesi sono, poi, rinvenibili in quelle sentenze in cui si afferma che le dichiarazioni stragiudiziali di risoluzione per inadempimento non sono vincolanti per l’autore, il quale è libero di mutare successivamente opinione e richiedere l’adempimento: v., per esempio, Cass., 21 luglio 2016, n. 15070, Trib. Brescia, 8 aprile 2015, n. 1061, in DeJure, Cass., 29 maggio 1990, n. 5017, che enunciano il principio per cui, “poiché la risoluzione del contratto in difetto di una clausola risolutiva espressa della quale la parte dichiari di avvalersi può essere ottenuta a norma dell’art. 1454 c.c., solo mediante intimazione ad adempiere entro un congruo termine indicato come risolutorio, la semplice dichiarazione unilaterale della parte di ritenere il contratto risolto, configurandosi come mera pretesa che non consente all’altra parte l’attuazione del rapporto, deve considerarsi a tale scopo priva di effetto e quindi non preclusiva della successiva domanda di adempimento, alla quale è ostativa, a norma dell’art. 1453 c. 2 c.c., solo la domanda giudiziale di risoluzione”.

Una seconda forma di risoluzione che si concretizza al di fuori delle aule dei tribunali è quella che si perfeziona tramite il rifiuto dell’adempimento tardivo (292), che, come precisato dalle sezioni unite sul finire degli anni ’90, è legittimo anche se opposto prima dell’instaurazione del giudizio di risoluzione (293). In simili occasioni, il rifiuto determina lo scioglimento immediato del rapporto negoziale, senza che al debitore sia concesso alcun termine per sanare l’inadempienza (294).

In terzo luogo, il recesso per giusta causa ex art. 1385 c.c. viene considerato una peculiare forma di risoluzione di diritto, che si affianca a quelle dal legislatore così espressamente qualificate (295). L’elemento meramente fattuale dello schema di produzione dell’effetto estintivo del rapporto giuridico è costituito, anche in questa occasione, da un inadempimento imputabile e di non scarsa importanza (296). L’atto con cui viene esercitato il recesso attua direttamente l’effetto giuridico, senza necessità dell’intermediazione giurisdizionale; ciò in quanto, poiché la parte fedele può autotutelarsi ritenendo la caparra confirmatoria, si reputa inutile imporle l’onere di agire in giudizio. Ne segue che, ove venga proposta domanda giudiziale, essa avrà di certo natura di mero accertamento (297).

(292) In tal senso, cfr. M. DELLACASA, Offerta tardiva cit., pp. 515, 517, per cui “il creditore che ha rifiutato l’offerta non può mutare opinione ed esigere l’adempimento: lo preclude un’elementare esigenza di rispetto dell’affidamento della controparte”; quando detto rifiuto viene opposto, quindi, il contratto è “virtualmente risolto”. V. anche G. OSTI, La risoluzione del contratto per inadempimento. Fondamento e principi generali, in Scritti giuridici, vol. I, Milano, 1973, p. 401, spec. 406, il quale ritiene necessario far coincidere “col momento dal quale il creditore può respingere l’esecuzione della controparte il momento in cui non può nemmeno più pretenderla dovendo accontentarsi della risoluzione già verificatasi: a meno che non si provi e non si giustifichi che il debitore non possa più efficacemente liberarsi eseguendo il contratto mentre ancora la risoluzione del medesimo non abbia avuto luogo”. Ad ogni modo, la dottrina non manca di osservare che la figura della risoluzione per rifiuto dell’adempimento tardivo presenta alcuni problemi: da un lato, può comportare squilibri nel caso in cui una parte della prestazione sia già stata eseguita; dall’altro, il debitore compie uno sforzo considerevole per eseguire una prestazione destinata ad essere rifiutata (per approfondimenti su tali criticità, cfr. M. DELLACASA, Offerta tardiva cit., p. 517 ss.).

(293) Per i riferimenti giurisprudenziali, v. supra, nota 224.

(294) Una voce dottrinale propone un temperamento alla rigidità di tale assunto, sostenendo che, “se per la natura della prestazione e le circostanze del caso concreto è ragionevole ritenere che il creditore conservi interesse per la prestazione e il debitore sia impegnato ad eseguirla, l’offerta deve essere accettata anche se il ritardo è obiettivamente grave”: così M. DELLACASA, Offerta tardiva cit., p. 525. La tesi è espressa dall’Autore anche in un altro contributo, ove quest’ultimo afferma che “il creditore perde la legittimazione ad invocare la risoluzione del contratto (cioè, deve accettare la prestazione tardivamente offerta) se alla luce delle circostanze del caso concreto sapeva o poteva ragionevolmente prevedere che la controparte fosse intenta ad adempiere”: v. M. DELLACASA, Risoluzione giudiziale cit., p. 166.

(295) Cfr. L. ATTADEMO, Risoluzione per inadempimento, in Giur. it. 2009, p. 1907, spec. 1910; M. DELLACASA, Risoluzione giudiziale cit., p. 172; P. GALLO, Inadempimento reciproco cit., p. 318; S. GUADAGNO, Risoluzione stragiudiziale e diritto di ritenzione della caparra confirmatoria, in Contratti 2012, p. 791, spec. 794.

(296) Così P. GALLO, Inadempimento reciproco cit., p. 318; S. GUADAGNO, Risoluzione stragiudiziale cit., p. 794; F. PADOVINI, Risoluzione e recesso, in Obblig. e contr. 2012, p. 86, spec. 87.

(297) In tal senso si esprimono L. ATTADEMO, Risoluzione per inadempimento cit., p. 1910, la quale parla di domanda di “risoluzione per avvenuto esercizio del diritto di recesso”, che “presenta l’unico scopo di accertare (con una sentenza dichiarativa) che la risoluzione è già intervenuta”; M. DELLACASA, Risoluzione giudiziale cit., p. 172, per cui l’atto di recesso è “la dichiarazione stragiudiziale unilaterale che scioglie il rapporto contrattuale con effetto immediato”; M. DELLACASA, Risoluzione per inadempimento cit., p. 76; A. MOTTO, Domanda di risoluzione cit., p. 618.

In termini estremamente generali si esprime, poi, chi include nella cerchia delle risoluzioni stragiudiziali atipiche l’eccezione di risoluzione opposta in via stragiudiziale e la dichiarazione stragiudiziale di risoluzione (298).

Come si nota, le ipotesi di risoluzione stragiudiziale atipica appena elencate sono proprio quelle che sono state sfruttate da alcuni studiosi al fine di dimostrare che anche la risoluzione

ex art. 1453 c.c. si perfeziona in via stragiudiziale. Occorre, però, tenere distinto il problema

della sussistenza di forme atipiche di risoluzione operanti sul piano sostanziale (oggetto di queste pagine) da quello delle possibili conseguenze interpretative cui tale sussistenza conduce (di cui, per ragioni di consequenzialità espositiva, ci si è occupati supra al paragrafo 9.1.4.).

Della non condivisibilità dell’attribuzione di natura stragiudiziale alla risoluzione di cui all’art. 1453 c.c. si è già detto nella sede da ultimo citata, alla quale si rimanda. Quanto, invece, alla questione, logicamente pregiudiziale, dell’effettiva sussistenza di casi atipici di risoluzione stragiudiziale, è d’uopo precisare subito che essa non ha rilevanza ai fini dell’indagine che ci si propone di compiere in materia di limiti oggettivi del giudicato: a tale scopo, ciò che è necessario comprendere è la natura sostanziale o giudiziale del diritto potestativo di risoluzione, e il conseguente carattere dichiarativo o costitutivo della sentenza che lo riguarda; che poi tale diritto sia espressamente disciplinato da una norma di legge o meno non ha importanza.

In ogni caso, per provare a risolvere il problema qui in esame, si possono svolgere le seguenti osservazioni.

Innanzitutto, quando gli interessi delle parti convergono sull’effetto risolutivo, non si ha una vera e propria risoluzione, figlia dell’esercizio di un diritto potestativo, ma tutt’al più un tacito accordo tra le parti nel senso di ritenere il contratto improduttivo di effetti. In secondo luogo, come si è già notato, pare preferibile non ricollegare alcun effetto risolutivo automatico al rifiuto dell’adempimento tardivo, all’eccezione di risoluzione opposta in via stragiudiziale e alla dichiarazione di risoluzione resa al di fuori delle aule giudiziarie. Tenendo come punto fermo il dato normativo dell’art. 1453 c.c. (e quindi seguendo un percorso inverso rispetto a quello di Pagni e Paladini), non si può che concludere che il nostro ordinamento contempli un’ipotesi di risoluzione giudiziale per inadempimento, nella quale l’effetto estintivo del rapporto negoziale può essere conseguito solo all’esito di un processo; se l’ordinamento consentisse altresì di ottenere il medesimo effetto senza passare dall’autorità giurisdizionale, la portata dell’art. 1453 c.c. sarebbe estremamente ridotta, se non addirittura annichilita.

Quanto, invece, al recesso ex art. 1385 c.c., certamente non si può negare che si tratti di un rimedio concesso alle parti per assicurarsi l’estinzione del rapporto giuridico in via

(298) Cfr. le tesi di Ilaria Pagni, Mauro Paladini e Matteo Dellacasa su cui si è soffermati supra, par. 9.1.4. V., inoltre, in dottrina, M. DELLACASA, Offerta tardiva cit., p. 517; R. SACCO, I rimedi sinallagmatici cit., p. 638, secondo il quale “l’esercizio stragiudiziale del diritto di risoluzione non perfeziona, nel nostro diritto, la fattispecie risolutoria di cui all’art. 1453; ma la buona fede non sopporta che il creditore, il quale ha stragiudizialmente esonerato il debitore dal prestare, e preteso che si prepari a restituire ciò che ha ricevuto, e l’importo dei danni, muti parere quante volte gli piaccia e agisca infine per l’adempimento”.

stragiudiziale. Qui l’atipicità non riguarda l’effetto ablativo in sé, il quale è espressamente indicato dal legislatore, ma riguarda – per così dire – la qualificazione di tale effetto come effetto “risolutivo”. Giova, inoltre, evidenziare che la possibilità di raggiungere tale risultato senza l’intermediazione del giudice è strettamente legata ad alcune circostanze preesistenti e oggettive, ossia il preventivo accordo tra le parti in tal senso e la dazione di una caparra confirmatoria. Per converso, simili forme di autotutela non sono ammesse ove tali circostanze non sussistano.

Pare, allora, preferibile ritenere che non sussistano forme di risoluzione atipiche, ad eccezione del recesso ex art. 1385 c.c., ove lo si voglia così qualificare (299).

(299) Tematica diversa da quella analizzata nel presente paragrafo è quella relativa alla possibilità di applicare il rimedio risolutorio nelle ipotesi di difetto sopravvenuto di presupposizione. Il dubbio che si pone nella specie, infatti, non riguarda l’opportunità di ricorrere a una ipotesi atipica di risoluzione del contratto (in tal senso si registra solo una isolata voce dottrinale: v. G. F. AIELLO, L’applicabilità del rimedio risolutorio al difetto sopravvenuto della presupposizione in un recente revirement della Cassazione, in Nuova giur. civ. comm. 2011, II, p. 305, spec. 314 ss.), ma più semplicemente la sussunzione del difetto sopravvenuto di presupposizione nell’una o nell’altra forma di risoluzione già espressamente disciplinata dal legislatore. Secondo l’insegnamento tradizionale, la presupposizione è una circostanza esterna che, senza essere prevista quale condizione del contratto, ne costituisce un presupposto oggettivo e assume un’importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo (v. C. M. BIANCA, Diritto civile, III cit., p. 463 ss.; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 965; A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale cit., p. 708 ss.). L’istituto della presupposizione non trova espressione nella legge; esso è stato elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che si sono anche occupate di determinare i rimedi esperibili nelle ipotesi in cui un contratto sia affetto da un vizio sopravvenuto di presupposizione. Per vero, sarebbe più accurato dire che hanno tentato di determinare i rimedi esperibili, ma che la pluralità di teorie susseguitesi in materia ha impedito di raggiungere una proposta condivisa. La giurisprudenza maggioritaria parla di risoluzione del contratto per causa non imputabile alle parti, equiparando l’ipotesi in discorso a quella di impossibilità sopravvenuta: cfr. Cass., 24 marzo 1998, n. 3083; Cass., 8 agosto 1995, n. 8689, che discorre di “risolvibilità” del contratto “per fatto non imputabile alle parti”; Cass., 22 settembre 1981, n. 5168 (s.m.). Secondo un diverso orientamento, l’estinzione del rapporto giuridico non può avvenire ipso iure, come accade ai sensi dell’art. 1463 c.c. Si osserva, infatti, che, nel caso di difetto sopravvenuto di presupposizione, rileva l’impedimento ad attuare il programma negoziale prefigurato dalle parti, benché sia comunque ancora possibile effettuare materialmente lo scambio delle prestazioni. Sicché appare ragionevole rimettere “al contraente danneggiato dalla sopravvenuta mancanza del presupposto, ed altrimenti tenuto alla controprestazione, la facoltà di riconsiderare il contratto ed agire eventualmente per lo scioglimento”. In questa prospettiva, il rimedio è analogo a quello della risoluzione per impossibilità parziale ex art. 1464 c.c. o per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c.: di tale avviso sono F. AZZARRI, Difetto di presupposizione e rimedi esperibili: il revirement della Suprema Corte, in Nuova giur. civ. comm. 2007, I, p. 1181, spec. 1186; C. CAMARDI, Economie individuali e connessione contrattuale. Saggio sulla presupposizione, Milano, 1997, p. 499, per la quale “l’impossibilità di attuare il programma negoziale, che sopravvenga nonostante la possibilità di effettuare materialmente lo scambio delle prestazioni, deve essere trattata secondo una logica non oggettivistica, ma che rimetta invece al contraente danneggiato dalla sopravvenuta mancanza del presupposto, ed altrimenti tenuto alla controprestazione, la facoltà di riconsiderare il contratto ed agire eventualmente per lo scioglimento”; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 966 (se ben s’intende); in giurisprudenza, v. Cass., 31 ottobre 1989, n. 4554. Una terza corrente di pensiero rinviene il rimedio che più si addice al caso in esame nel recesso unilaterale a favore della parte per la quale il vincolo è divenuto intollerabile o inutile: così C. M. BIANCA, Diritto civile, III cit., p. 467; F. MACIOCE, La presupposizione, in I contratti in generale, diretto da G. ALPA – M. BESSONE, vol. III, Torino, 1991, p. 538; A. RICCIO, La presupposizione è, dunque, causa di recesso dal contratto, in Contr. e impr. 2008, p. 11, passim; in giurisprudenza, v. Cass., 13 ottobre 2016, n. 20620; Cass., 25 maggio 2007, n. 12235, in Nuova giur. civ. comm. 2007, I, p. 1177, con nota di F. A , Difetto di presupposizione cit.

SEZIONE SECONDA:

LE ECCEZIONI DI IMPUGNATIVA CONTRATTUALE

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