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L’estetica musicale analitica e il “caso Wittgenstein”

6.2 P Kivy e l’externality claim

Tra le voci che animano il dibattito sul rapporto tra musica ed emozioni e sull’ontologia dell’opera d’arte musicale, quella di Peter Kivy ha un notevole rilievo. Le sue tesi, argomentate inizialmente nei volumi The Corded Shell.

Reflections on Musical Expression (1980) e New Essays on Musical Understanding (2001), hanno trovato diffusione anche presso il pubblico italiano

grazie alla traduzione di Introduction to a Philosophy of Music (2002). Il filosofo americano può essere indicato come il campione dell’orientamento cognitivista, contrapposto abitualmente alla arousal theory o teoria eccitazionista: se per il primo indirizzo le emozioni sono un predicato appartenente all’oggetto musicale (le emozioni sono nella musica), per il secondo il contenuto emotivo di un brano è per prima cosa legato all’esperienza dell’ascoltatore e dunque coincide (in misura differente nelle teorie proposte dai diversi autori) con lo stato d’animo suscitato nel soggetto dall’ascolto musicale103

. La proposta di Kivy si inserisce dunque nell’orientamento cognitivista, caratterizzato da un “requisito dell’esternalità” per cui il contenuto emotivo deve essere cercato nella forma musicale e non nelle effusioni immaginative dell’ascoltatore. Scrive Silvia Vizzardelli:

L’antipsicologismo, il bisogno di sottrarre l’esperienza dell’ascolto alle dinamiche troppo soggettive della vita affettiva, prende un nome nell’ambito della filosofia analitica: externality claim, requisito dell’esternalità. […] [S]i tratta di un requisito che riporta in primo piano l’argomento wittgensteiniano contro le teorie correnti del linguaggio privato, di un linguaggio cioè che renderebbe accessibile la vita intima del soggetto, facendosi tramite di una pura interiorità (VIZZARDELLI 2008, p. 82).

La teoria cognitivista di Kivy, caratterizzata dal requisito dell’esternalità, prende le mosse dall’argomento wittgensteiniano contro il linguaggio privato: ammettendo un’analogia tra musica e linguaggio, le emozioni (in quanto

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contenuto musicale) non coinciderebbero con le associazioni mentali dei diversi ascoltatori, così come il significato di una proposizione (il contenuto linguistico) non sarebbe da ricercare nella sfera psicologica, nelle singole menti dei parlanti. Richiamiamo a tal proposito alcuni passi tratti dalle Ricerche filosofiche:

Ciò che chiamiamo “seguire una regola” è forse qualcosa che potrebbe essere fatto da un solo uomo, una sola volta nella sua vita? […] Fare una comunicazione, dare o comprendere un ordine, e simili, non sono cose che possano esser state fatte una volta sola. – Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni) […] (PU, §199).

Per questo “seguire la regola” è una prassi. E credere di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola “privatim” […] (Ivi, §202).

Così come non si può seguire una regola “privatim”, non si può usare una parola una sola volta in modo unico104: il linguaggio è radicalmente pubblico, dice Wittgenstein, perché non si basa sulla comunicazione di contenuti mentali individuali – il mentalismo è una specie di spiritualismo che nulla ha a che fare con l’esigenza di incarnazione difesa da Wittgenstein – ma su usi e istituzioni, ovvero su prassi originariamente condivise.

Kivy rielabora, in ambito musicale, l’argomento contro il linguaggio privato, elaborando in tal modo una tesi fortemente critica nei confronti della arousal

theory:

Secondo tale teoria [la teoria eccitazionistica] la musica è descritta come “malinconica”, “allegra” ecc., perché rende gli ascoltatori normali, in circostanze normali, malinconici, allegri. […] a seconda delle particolari esperienze di vita di un ascoltatore individuale o forse a seconda del

104 Sulla questione del linguaggio privato si veda il noto KRIPKE 1982. In risposta alla lettura

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particolare stato emotivo dell’ascoltatore nel momento dell’ascolto di un brano musicale, la musica, a causa di quelle particolari esperienze passate o di quel particolare stato emotivo, può suscitare nell’ascoltatore un’emozione davvero reale come la malinconia o l’allegria. Preferisco chiamare questo fenomeno il fenomeno della “nostra canzone” (“stanno suonando la nostra canzone, Cinzia, quella che stavamo ascoltando la prima volta che ci incontrammo, in quel piccolo bar all’angolo”) (KIVY 2002, trad. it. pp. 134- 35).

Dalla critica al fenomeno della “nostra canzone” discendono per Kivy numerose conseguenze relative all’espressività della musica e all’ontologia dell’opera musicale. Richiamandosi a Hanslick, il filosofo americano formula una teoria nota come “formalismo arricchito”, in cui il contenuto emotivo non è del tutto escluso dall’esperienza estetica ma va ricercato nella stessa forma musicale, intesa come oggetto intenzionale: seguendo uno schema fenomenologico- intenzionale, «l’oggetto dell’emozione è […] la bellezza della musica¸ la credenza è che la musica sia bella; il sentimento è il tipo di eccitazione o di euforia o di stupore o di meraviglia… che una tale bellezza comunemente suscita» (Ivi, p. 159). Le emozioni musicali sono dunque piene, causate dalla stessa struttura musicale e, dal momento che intenzionano la bellezza della musica, sono riducibili all’unico sentimento della meraviglia, dello stupore per la bellezza stessa.

In questa prospettiva, ogni esecuzione di un certa opera musicale non fa che riattualizzare quel particolare bello musicale (unico tipo di contenuto emotivo ammesso) costituendosi come occorrenza contingente di un modello eterno o, per utilizzare la distinzione peirciana abitualmente adottata nel dibattito analitico, come specifico token di un type che sarebbe l’opera d’arte musicale in sé. In tal modo l’esito della riflessione di Kivy conduce a quello che egli stesso considera un «platonismo estremo», secondo cui «le opere musicali sono lo stesso genere di tipi che, per il realista matematico, sono anche i numeri […] e tutte le interpretazioni dell’opera sono esemplificazioni dell’opera: occorrenze del tipo» (Ivi, p. 256).

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Non è questa la sede per proporre una valutazione delle tesi sostenute da Kivy e tantomeno per addentrarci nel dibattito in cui la sua proposta si inserisce105. Quel che ci interessa è invece l’ispirazione wittgensteiniana (e hanslickiana) che anima il progetto del filosofo americano. La critica contro il fenomeno della “nostra canzone”, infatti, ricalca l’argomento contro il linguaggio privato costituendo in tal modo una critica al diffuso orientamento mentalista e psicologista che vorrebbe trovare il senso (musicale o linguistico) nella testa dei singoli parlanti (o ascoltatori). Tuttavia le affinità tra l’externality claim e la critica wittgensteiniana al linguaggio privato si fermano qui: Kivy, infatti, si propone di combattere lo psicologismo ancorando i contenuti emotivi alla forma musicale, facendone un oggetto intenzionale dotato di proprietà autonome. A tal proposito, lo stesso filosofo americano imposta la propria battaglia contro l’arousal theory partendo da una battuta di un altro studioso di matrice wittgensteiniana, O. K. Bouwsma, secondo il quale «La tristezza sta alla musica più come il rosso sta alla mela, che non come il rutto sta al sidro» (citato in KIVY 1999, trad. it. p. 43). L’anti-psicologismo si nutre in questo caso di una teoria relativa alle proprietà – primarie, secondarie, terziarie – di marca lockiana106 e di uno schema fenomenologico basato sulla triade oggetto-credenza-sentimento che non ha nessun riscontro nell’opera di Wittgenstein.

Bisogna infatti sottolineare come l’argomento contro il linguaggio privato presentato nelle Ricerche filosofiche non miri a stabilire un’oggettività del contenuto linguistico inteso come proprietà della parola (il senso non è una proprietà dell’espressione) ma tenda a legare fortemente il nostro agire linguistico a una dimensione istituzionale: il linguaggio è una prassi che prevede un uso condiviso di parole, gesti, espressioni che non possono essere messi in scena nel privato senza riferimento a una sfera pubblica (almeno implicita o fittizia). L’anti- mentalismo di Wittgenstein riporta dunque i nostri giochi linguistici a una dimensione estetico-pratica della nostra forma di vita che manca in Kivy e che nulla ha a che fare con i suoi esiti intenzionali (e tantomeno con il suo professato

105Per un commento alle posizioni di Kivy si veda BERTINETTO 2007.

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“platonismo estremo”107). Altra differenza tra l’esternalismo di Kivy e l’anti-

filosofia dell’incarnazione di Wittgenstein è la totale assenza, nel primo, della dimensione tecnica della comprensione. Nello stesso paragrafo dedicato al linguaggio privato, infatti, Wittgenstein scrive: «Comprendere una proposizione significa comprendere un linguaggio. Comprendere un linguaggio significa essere padroni di una tecnica» (PU, §199). Di contro, Kivy sostiene la totale ininfluenza della competenza sull’apprezzamento del bello musicale, unico orizzonte possibile di comprensione del contenuto espressivo di un brano:

Ma non si deve pensare che io stia affermando che le credenze di una persona sulla musica debbano essere guidate da concetti desunti dalla teoria musicale, o dalla conoscenza dello stile che un musicologo deve avere. Una persona non ha bisogno di credere che ciò che sta ascoltando è un contrappunto quadruplo per essere emotivamente colpito dalle battute conclusive del maestoso finale in forma di fuga di Mozart. Egli non ha bisogno di sapere cosa sia un contrappunto o una fuga. Ciò che egli deve davvero avere è una qualche credenza relativa a ciò che sta ascoltando, e la convinzione che ciò che sta ascoltando sia bello, o splendido, o meraviglioso (KIVY 1999, trad. it. p. 50).

Sappiamo come per Wittgenstein la grammatica del verbo “comprendere” sia significativamente affine a quella del verbo “sapere” e a quella dell’espressione “padroneggiare una tecnica”: la filosofia dei giochi linguistici si basa infatti sul carattere operazionale delle somiglianze di famiglia (cfr. CAPPELLETTO 2012) che vede nell’affinità un punto d’arrivo, l’esito di una pratica comparativa. Di conseguenza, la comprensione del gesto – musicale o linguistico che sia – non può contentarsi di un’estatica approvazione né, tantomeno, di un’intima convinzione relativa alla bellezza della musica. Una valutazione simile, secondo Wittgenstein, ci riporterebbe a una modulazione intimista ed emotivista del mentalismo (da cui, come abbiamo visto, l’externality claim avrebbe voluto prendere le distanze):

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Quando formuliamo un giudizio estetico su una cosa, non ci limitiamo a rimanere a bocca aperta dicendo “Oh, che splendido!”. Distinguiamo tra una persona che sa ciò di cui sta parlando e una che non lo sa. Se uno ammira la poesia inglese, deve sapere l’inglese. […] Usiamo la frase “Un uomo è musicale” non per chiamare musicale un uomo che dice “Ah!” quando si suona un pezzo di musica, allo stesso modo che non chiamiamo musicale un cane se muove la coda quando si esegue musica (LC, trad. it. p.60).

Il passo wittgensteiniano ci permette inoltre di escludere qualunque forma di comportamentismo: la comprensione musicale non riguarda stati mentali (come, per esempio, la convinzione circa la bellezza di un brano) ma allo stesso tempo essa non si risolve nel pronunciare determinate esclamazioni in coincidenza dell’esecuzione di un’opera – non più di quanto lo scodinzolare puntuale di un cane possa rappresentare una forma di apprezzamento estetico. Pare dunque che sul versante cognitivista i fautori dell’externality claim, ovvero i principali avversari dell’arousal theory, prendano in prestito da Wittgenstein solamente alcune suggestioni per poi sviluppare un discorso del tutto indipendente dai reali esiti della riflessione sulla musica condotta dal filosofo austriaco. Per corroborare tale lettura, ci concentreremo ora su un altro rappresentante dell’orientamento cognitivista, sebbene riconosciuto da più parti come un esponente “moderato” di tale schieramento.