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Sub specie aetern

2.4 Limite, coincidenza, ripetizione

Considerare il mondo sub specie aeternitatis vuol dire dunque assestarsi sul limite del linguaggio, contemplando l’esistenza del mondo come una forma tautologica, una forma musicale. Si noterà che, nella dislocazione che porta in posizione liminare, il soggetto stesso diventa «limite del mondo» (TLP 5.632), come un occhio rispetto al proprio campo visivo (5.633). Solamente da questa posizione il mondo si dà a vedere sub specie aeternitatis, come un tutto limitato dal soggetto che, appunto, è limite. Insieme all’espressione latina già utilizzata da Spinoza, notiamo che anche l’immagine dell’occhio come limite del campo visivo

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è di derivazione schopenhaueriana; eppure, come si è ricordato, Wittgenstein è alla ricerca di una posizione più sottile, meno grossolana rispetto a quella del filosofo tedesco. Possiamo ora concludere che tale posizione è quella che rimane sul limite, senza fughe in avanti che scadano in metafisica. Si noterà infatti che l’apprezzamento del mondo come tautologia, per essere rigoroso, deve rifiutare qualunque ulteriore determinazione positiva, non deve cercare nessun fatto al di là della forma compiuta in sé, in sich selbst abgeschlossen: per un soggetto inteso come limite del mondo, come occhio fuori dal campo visivo, il mondo appare come una tautologia – appare come mondo e nient’altro. Il mondo visto sub

specie aeternitatis corrisponde al mondo in cui viviamo quotidianamente, in un

percorso di coincidenza degli opposti non diverso da quello prospettato nel

Tractatus a proposito di solipsismo e realismo:

5.64 Qui si vede che il solipsismo, portato avanti rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in punto inesteso e resta la realtà coordinata a esso.

Nel percorso che porta in posizione liminare, il mondo viene perso e riacquisito per quello che è: semplicemente mondo, tanto per il solipsista che per il realista. Apprezzare il carattere tautologico di tale visione finisce per corrispondere paradossalmente con l’ordinario stare al mondo; il nonsenso metafisico attende chi, come Schopenhauer, pervenuto a tale visione, pensa di poter esprimere – dire – ciò che ha visto mentre in realtà egli non ha visto nessuna verità particolare ma ha semplicemente maturato un modo di vedere. La grossolanità di Schopenhauer sta proprio nel tentare di dire ciò che – tautologicamente – mostra sé; dire che “il mondo è volontà” vuol dire perdersi nel nonsenso metafisico, come affermare la possibilità per la musica di rappresentare un modello di per sé irrappresentabile. Per quanto riguarda l’arte dei suoni, Schopenhauer commette poi un ulteriore errore: come si è ricordato la musica, secondo il filosofo, potrebbe sussistere anche nell’eventualità che il mondo non fosse. Ebbene, ventilare la possibilità dell’inesistenza del mondo è espressione proprio dell’insensato stupore metafisico

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per quella tautologia che è l’esistenza del mondo. Arrivato sul limite, per così dire, Schopenhauer tenta il passo al di là e si condanna all’Unsinn. Rimane invece in posizione liminare chi, contemplata la tautologia, non riesce a dire nient’altro che ovvietà, le stesse ovvietà che costituiscono il nostro linguaggio quotidiano:

6.521 La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso. (Non è forse per questo che uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso?).

Gli uomini di cui parla il Tractatus si trovano nell’impossibilità di dire ciò che hanno visto perché non hanno visto nulla di diverso da ciò che vedono tutti gli

altri; ogni loro tentativo sfocia in una lapalissiana osservazione che nulla

aggiunge alla nostra comprensione e che tuttavia è il depositato del percorso che li ha condotti sul limite, nel luogo in cui matura una particolare modalità della visione31; in modo analogo si legge nella Conferenza sull’etica: «[…] non possiamo esprimere ciò che vogliamo esprimere e tutto ciò che diciamo sul miracoloso assoluto rimane privo di senso [nonsense]» (LE, trad. it., p. 17). Come nota J. Bouveresse,

l’idée qui suscite […] la méfiance de Wittgenstein, est celle qui nous incite à croire qu’il y a dans les cas de cette sorte une chose que l’on ne peut pas faire, à savoir exprime un fait qui a une importance particulière, et que pourtant il est indispensable de faire. C’est comme si l’on disait que les choses dans la réalité sont bien ainsi, mais son inexprimablement ainsi» (BOUVERESSE 2002, p. 149).

Quella che per lo studioso francese è un’aggiunta inessenziale (“come a dire che le cose stanno proprio così, ma inesprimibilmente così”) costituisce invece la specifica modalità di visione tautologica che non addita alcun contenuto ulteriore

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Tale lettura topologica della modalità della visione del mistico come visione “dall’alto” accomuna alcune tra le prime interpretazioni del Tractatus logico-philosophicus; a tal proposito si vedano COLOMBO 1954, p. 17; HADOT 2004, trad. it., p. 34.

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ma individua precisamente la forma di ciò che si dà a vedere. Fallisce così il tentativo di andare al di là, dietro a ciò che si offre a noi come l’unico mondo, l’unico linguaggio; la sapienza del che, distinta da ogni come, ci riporta alla tautologia del mondo, la tautologia con cui possiamo esprimere la medesima esperienza, ancora e ancora. Se, come nota Schopenhauer, esiste un intrinseco legame tra musica e visione sub specie aeternitatis, ciò avviene non perché l’arte riesca a penetrare in un ineffabile al di là ma perché la struttura logica dell’esistenza del mondo, rivelata nella visione, è tautologica, conclusa in sé come la forma musicale.

Parlando delle singolari esperienze etiche presentate nella Conferenza, Wittgenstein istituisce un parallelismo con alcune espressioni religiose: pensare a un Dio creatore corrisponderebbe alla meraviglia per l’esistenza del mondo, sentirsi nelle mani di Dio significherebbe in ultima analisi sentirsi assolutamente sicuri. Ebbene, pare che tutte queste espressioni siano allegorie, similitudini, ma nel momento in cui si immagina di ricondurre tali espressioni figurate a ciò che viene raffigurato, ci si rende conto che dietro non vi è nulla:

Così sembra che nel linguaggio etico e religioso noi usiamo sempre similitudini. Ma una similitudine deve essere una similitudine per qualcosa, e se posso descrivere un fatto usando una similitudine, devo anche essere in grado di toglier via questa e di descriverlo senza di essa. Ora, nel nostro caso, se cerchiamo di eliminare la similitudine e di asserire i fatti che vi stanno dietro, troviamo che questi fatti non ci sono. Così, quanto sembrava dapprima una similitudine, appare come un puro nonsenso (LE trad. it., p. 15).

Per spiegare non possiamo far altro che ripetere; in ciò, di nuovo, l’elemento tautologico si dà a vedere come forma in sé compiuta, musicalmente riuscita, non ulteriormente significativa ma valida – apprezzabile – per se stessa. Ecco l’intransitività (o meglio la circolarità) della spiegazione, di cui è ben consapevole il musicista al quale si chieda di illustrare il significato di un brano: l’unica

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risposta possibile, come suggerisce il compositore Luciano Berio, è tornare allo strumento e ripetere l’esecuzione32

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