Sub specie aetern
2.5 Il vuoto e lo sfondo
Nella proposizione 6.45 Wittgenstein descrive l’esperienza paradossale del mistico come una visione del mondo sub specie aeterni, vale a dire come un tutto limitato. Tale visione suppone una totale separazione dal mondo, uno spostamento dell’osservatore fino a un punto di vista esterno alla totalità. Una variante dell’espressione sub specie aeterni appare in un’annotazione dei Quaderni 1914-
16:
7.10.16
L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; e la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte ed etica. Il consueto modo di vedere vede gli oggetti quasi dal di dentro; il vederli sub
specie aeternitatis, dal di fuori. Così che per sfondo hanno il mondo intero
[…]. La cosa vista sub specie aeternitatis è la cosa vista con tutto lo spazio logico.
La connessione tra arte ed etica si trova nella comune visione sub specie
aeternitatis, applicata nel primo caso all’oggetto, nel secondo caso alla vita. Tale
visione estrae l’oggetto dal suo normale posto nello spazio logico separandolo e mostrandolo accanto a esso: in tale esperienza è dunque lo stesso spazio logico, visto come un tutto, a offrirsi allo sguardo. Sulla base di tale visione si possono comprendere dunque le proposizioni del Tractatus che accomunano logica, etica ed estetica: la logica è prima d’ogni esperienza, «prima del Come, non del Che» (TLP 5.52); allo stesso modo «l’etica è trascendentale» ed «etica ed estetica sono uno» (6.421). La visione sub specie aeterni è dunque la modalità propria che
32 Sul carattere tautologico della semantica musicale e sulla vacuità delle spiegazioni relative al
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accomuna i tre trascendentali individuati da Wittgenstein: logica, etica ed estetica. Essi non trovano spazio nel mondo e nel linguaggio ma ne istituiscono il fuori tracciandone il limite interno.
Avendo rifiutato la lettura “estatica” di Hadot, il quale consegna la triade logica-etica-estetica al campo dell’Unsinn, proponendo di fatto una variante neoplatonica dell’interpretazione ineffabilista, ci si è interrogati sulla posizione di questo fuori, dal quale secondo Wittgenstein è possibile vedere il mondo sub
specie aeterni. Come si è visto, il limite si distingue dal fuori per la sua
ubicazione specifica; d’altra parte, il passo dei Quaderni 1914-16 sembra suggerire che la visione sub specie aeternitatis sia possibile solo come visione esterna. Si tenga presente, tuttavia, che nell’annotazione citata ciò che è visto sub
specie aeternitatis è in un caso la vita, nell’altro l’oggetto. Per vedere
quest’ultimo sotto l’aspetto dell’eternità bisogna operare un taglio rispetto al mondo e dunque procedere a una contemplazione dal di fuori; ma nel caso del mondo questo esterno non vi è, non potendo considerarsi il mondo come un oggetto tra gli altri. La visione sub specie aeterni non sarà dunque necessariamente una visione dall’esterno, come nel caso della visione estetica; suo carattere necessario sarà invece la contemplazione liminare, intesa come paradossale coincidenza con la visione comune (tautologica). Tra la visione dell’oggetto estetico e la contemplazione dell’esistenza del mondo si dovrà dunque instaurare un parallelismo non basato su una presunta possibilità di accesso a un altrove metafisico ma sul carattere tautologico di ciò che viene contemplato.
Si prenda a tal proposito l’esempio wittgensteiniano del poema di Uhland intitolato Graf Eberhards Weissdorn [ Il biancospino del conte Eberardo]. Riportiamo il commento del filosofo: «Quando non ci si studia di esprimere l’inesprimibile, allora niente va perduto. Ma l’inesprimibile è – ineffabilmente – contenuto in ciò che si è espresso» (ENGELMANN 1967, trad. it, pp. 55-56). Un’analisi tecnica della poesia33
non riuscirà a individuare alcuna proposizione metafisica, nessun Unsinn che faccia cenno a un contenuto ineffabile: sono le
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nostre parole ordinarie a presentare il punto cieco, l’irrappresentabile negatività che fa da sfondo alle nostre immagini. Non bisogna dunque intendere la riflessione di Wittgenstein sull’ineffabile come un’apologia dei tentativi, più o meno impacciati, di andare oltre i limiti del linguaggio; al contrario, la visione sub
specie aeternitatis finisce per coincidere con la più rigorosa esaltazione di ciò che
è «mondano» (CACCIARI 1974, p. 95).
Il carattere puramente negativo della concezione wittgensteiniana dell’ineffabile emerge in un’annotazione del 1930 relativa all’opera d’arte: «Si vuole tappare con la paglia il vuoto che si è aperto nell’organismo dell’opera d’arte, ma per tranquillizzarsi la coscienza si usa la paglia migliore» (VB, trad. it., p. 22). La paglia di cui parla Wittgenstein è l’insieme delle spiegazioni, delle
interpretazioni con cui cerchiamo di spiegare il contenuto dell’opera; esse, invece
di avvicinarci a un’inattingibile essenza, fungono da riempitivo esorcizzando il
vuoto, la discontinuità che l’opera mette sotto gli occhi. Come si legge in un’altra
annotazione dello stesso anno,
L’opera d’arte ci costringe, per così dire, alla prospettiva giusta; senza l’arte però, l’oggetto è un pezzo di natura come un altro, e il fatto che noi, col nostro entusiasmo, possiamo innalzare quell’oggetto non autorizza nessuno a presentarcelo come qualcosa di speciale. […] Mi sembra però che, oltre al lavoro dell’artista, vi sia un altro modo di cogliere il mondo sub specie
aeterni. È, credo, la via del pensiero, che per così dire passa sul mondo a volo
d’uccello e lo lascia così com’è – contemplandolo in volo dall’alto (Ivi, p. 24).
L’opera d’arte non è altro che una porzione ordinaria di materia; in essa non si trova nulla di particolarmente prezioso o esoterico: semplicemente è un oggetto del mondo a cui viene riservata una particolare modalità di fruizione, la visione
sub specie aeterni, una visione dall’alto che non riesce a penetrare in alcun al di là
metafisico ma, al contrario, “lascia il mondo com’è”, ne ribadisce tautologicamente l’esistenza.
Se «il Tractatus allaccia logica, estetica e etica in una visione “sub specie aeternitatis”» (GARGANI 2003a, p. 106), la Conferenza sull’etica, accompagnata
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dalla lettura di alcuni passi dei Quaderni, procede a un approfondimento e a una spiegazione di questa caratteristica modalità del vedere; come scrive E. Halais, «L’étonnement liè à l’existence du monde est l’expérience de le voir comme un miracle» (HALAIS 2008, p. 115). La visione sub specie aeterni corrisponde dunque a un vedere come: in questa espressione riconosciamo con facilità un’anticipazione dei temi fisiognomici legati al problema dell’espressività di cui si occuperà Wittgenstein negli anni della maturità34. Pur senza addentrarci anzitempo in una trattazione specifica, possiamo notare che vedere il mondo come
un miracolo vuol dire contemplare l’ordinario non cercando contenuti al di là di
esso ma scoprendo in esso, all’interno del suo essere tautologico, aspetti immanenti eppure inediti.
Nella riflessione wittgensteiniana l’ineffabile non rappresenta dunque il riferimento misterioso a un’incognita x, non coincide con un contenuto positivo ma sfortunatamente inaccessibile; esso è irrappresentabile in quanto totalmente eterogeneo rispetto agli oggetti cui fa da sfondo: «L’indicibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato» (VB, trad. it., p. 43). È dunque al rapporto tra sfondo e primo piano che fa cenno la nozione di ineffabile, espressione del dilemma riguardante condizione e condizionato.
Se da una parte bisogna tener presente «l’origine esthétique des problématique philosophiques chez Wittgenstein» (POUIVET 2011, p. 9) e considerare l’utilizzo dello sfondo culturale rappresentato dall’arte per ispezionare quello che si mostra come lo sfondo logico delle nostre proposizioni, dall’altra sarà necessario iniziare a segnalare il punto di arrivo della riflessione su tale sfondo e sulla nostra attitudine a lasciare che esso mostri sé. Scrive a tal proposito Badiou:
Si l’acte antiphilosophique de Wittgenstein peut légitimement être déclaré archi-esthétique, c’est que ce “laisser-être” est dans la forme non- propositionnelle de la monstration pure, de la clarté, et qu’une telle clarté ne vient à l’indicible que dans la forme sans pensée d’une œuvre (le paradigme
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d’une telle donation étant certainement, pour Wittgenstein, la musique) (BADIOU 2009, p. 21).
Come specifica lo studioso francese, l’atto anti-filosofico, archi-estetico, non implica una sostituzione della filosofia con l’arte – sebbene lo stesso Wittgenstein, in un’annotazione datata 1933-34, scrivesse «la filosofia andrebbe scritta soltanto come una composizione poetica» (VB, trad. it., p. 56) – ma rivela l’intima natura estetica dello sfondo su cui si stagliano le nostre proposizioni sensate, scientifiche. Quando ciò che fa da sfondo al nostro agire ordinario viene in primo piano – si
mostra – attraverso specifiche formulazioni tautologiche, ci troviamo in presenza
di fenomeni che richiedono un particolare tipo di contemplazione estetica; in essa non dobbiamo cercare spiegazioni ulteriori ma siamo invitati, al contrario, ad arrestarci.
Come scrive Paolo Virno, «per Wittgenstein lo sfondo acquista il massimo risalto soltanto in due occasioni: nell’etica e nei motti di spirito lapalissiani» (VIRNO 2005, p. 87). Così come nella meraviglia per l’esistenza del mondo la condizione tautologica soggiacente a ogni proposizione sensata viene innalzata ad oggetto specifico di una proposizione, allo stesso modo nei motti di spirito ciò che è sullo sfondo balza in primo piano. Leggiamo nelle Ricerche filosofiche:
È pur certo che, se nessuno potesse dubitarne, l’informazione “Questo è un albero” potrebbe essere una specie di motto di spirito, e, come tale, avrebbe senso. Una battuta di questo genere è stata fatta, una volta, da Renan (PU, § 463).
Virno nota che «i motti […] imbandiscono l’ovvio come fosse una primizia» (VIRNO 2005, p. 87), ovvero mostrano tautologicamente lo sfondo delle nostre credenze consegnandoci formulazioni in cui le regole del gioco, solitamente irrigidite, tornano allo stato fluido presentandosi come se fossero proposizioni empiriche. Notiamo inoltre che nel numero dei motti di spirito lapalissiani potrebbe figurare anche la proposizione 1 del Tractatus, «Il mondo è tutto ciò che
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accade»: essa è infatti più vicina a una verità tautologica che a un mero nonsenso metafisico35, al contrario di quanto sostengono gli autori del New Wittgenstein. Ricordiamo che per Conant e Diamond, convinti assertori dell’insensatezza delle affermazioni contenute nel Tractatus, sono sottratte al nonsenso solamente la
Prefazione e la penultima proposizione (6.54), indicate come “cornice”
significativa dell’opera (e dunque appartenenti alla sfera delle sinnvollen Sätze). Già si è detto dell’arbitrarietà di tale scelta; sulla scorta della distinzione tra
Sinnlos e Unsinn è possibile ora vedere che tale lettura non è solamente arbitraria
ma anche fuorviante. Se si analizza la proposizione 7 del Tractatus, per esempio, si può vedere con facilità che la formulazione «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» può essere tradotta come una tautologia: «Di ciò di cui non si può parlare, non si può parlare». Scrive L. Tarca:
Ciò non dice che c’è qualcosa che non può essere detto, ma dice che la visione assoluta della realtà […] non si presenta come contenuto problematico di un dire. Pensata come tautologia la conclusione del
Tractatus (cioè l’espressione del suo senso complessivo) evidenzia meglio il
fatto che il silenzio mistico non è qualcosa che possa essere infranto […] (TARCA1986, pp. 78-79).
Contro la lettura austera, il riconoscimento del carattere tautologico della proposizione conclusiva consegna l’intero Tractatus non al regno dell’Unsinn o del Sinnvoll ma al campo logico ed estetico del Sinnlos36. Tale lettura permette di
35 Sul carattere tautologico delle proposizioni del Tractatus si basa BLACK 1964; tale lettura
viene sottoposta a critica da HACKER 2000. L’interpretazione che fa delle proposizioni ovvie altrettante tautologie pare condivisa anche da McGuinness: «La forma letteraria [del Tractatus] e il contrasto in cui essa si trova con il contenuto ci dicono che le cose, a un tempo, sono e non sono così semplici come sembrano n questa presentazione. Ma con queste proposizioni sulla forma del mondo, paradossalmente qualificate come ovvie, Wittgenstein ci dice anche che nella sua ontologia […] c’è qualcosa di strano» (McGUINNESS 1988, trad. it. p. 448). Il carattere ovvio delle proposizioni del Tractatus consentirebbe di leggere il testo come una collezione di tautologie; al carattere tautologico delle proposizioni sarebbe collegato il valore letterario dell’opera: «Ebbene, un aspetto del suo carattere letterario è che esso, al pari di una poesia, non è il veicolo indifferente di qualcosa che potrebbe venire espresso in altri modi, ma mostra e comunica qualcosa di unico con la sua stessa forma espressiva» (Ivi, p. 449).
36 Ciò non significa che tutte le proposizioni del Tractatus siano tautologie: alcune sono
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specificare inoltre la critica contro l’interpretazione ineffabilista: il carattere tautologico delle proposizioni del Tractatus (o almeno di alcune di esse) non può essere confuso con un nonsenso sostanziale che farebbe cenno a contenuti metafisici ma si attesta come tentativo lapalissiano – e per questo mistico – di «realizzare la perfezione attuale del linguaggio» (Ibidem), di dire il dicibile esponendo, mostrando, il fatto del linguaggio. L’unico testo pubblicato da Wittgenstein – l’unica forma compiuta della sua produzione – lungi dall’essere un esercizio di ironia kierkegaardiana o una terapia filosofica sprovvista di qualunque contenuto definito37, potrebbe invece essere letto come un’opera dalla complessa articolazione estetica, in quanto «da un lato presenta tormentose difficoltà esegetiche, dall’altro sembra trasmettere asserzioni quasi come ovvietà o banali tautologie» (GARGANI 2003a, p. 37).
Tornando alla visione sub specie aeterni, possiamo dunque provare a comprendere il tautologico riconoscimento dell’esistenza del mondo e la sua
alcune proposizioni, per esempio, vengono attribuite proprietà formali a specifici oggetti (il che condanna le suddette proposizioni al nonsenso); d’altra parte, quando diciamo che “A è un oggetto” affermiamo qualcosa di cui non possiamo immaginare il contrario. La mancanza di bipolarità (che in questo caso significa necessità) è una caratteristica tipica della tautologia. Dunque, pur non potendo ridurre l’intero Tractatus a una collezione di tautologie, possiamo ammettere che la finalità di Wittgenstein fosse quella di raggiungere un punto di vista logico corretto da cui osservare il rapporto tra mondo e linguaggio. Tale punto di vista coincide con la visione sub specie aeterni, una visione per così dire tautologica relativa ai limiti del linguaggio. L’errore di Wittgenstein, al limite, è di provare a dire ciò che si può soltanto mostrare – fermo restando l’intento dell’autore di mostrare qualcosa. Si veda a tal proposito HACKER 2000.
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Sull’ironia dell’impresa wittgensteiniana e sul rapporto con Kierkegaard, cfr. CONANT 1992; sulle finalità terapeutiche del percorso proposto nel Tractatus, cfr. DIAMOND 1991. È curioso notare come interpreti “austeri” e “standard” convergano talvolta su letture analoghe. A proposito della presunta ironia che caratterizzerebbe il Tractatus, si legga per esempio l’interpretazione di McGuinness: «Il fatto che in realtà il libro sia scritto e strutturato come un manuale rappresenta un ulteriore e assolutamente tipico motivo di ironia. La numerazione delle proposizioni mima, come abbiamo visto nel discutere gli ultimi stadi della gestazione del libro, l’asseto logico dei Principia Mathematica (e in generale quello di qualsiasi trattato che adotti un’impostazione matematica o euclidea. Ma il principio effettivamente seguito nella strutturazione del libro non è affatto chiaro» (McGUINNESS 1988, trad. it. p. 448). L’ironia del Tractatus deriverebbe dalla caricaturale imitazione dell’ordine tipico dei manuali di logica; ma essendo la numerazione dell’opera quasi del tutto incomprensibile, l’ostentato rigore del testo andrebbe letto come un’operazione antifrastica. Contro questa tesi, segnaliamo i recenti studi di L. Bazzocchi (in particolare BAZZOCCHI 2010), in cui la numerazione del Tractatus viene spiegata e ricondotta alla struttura “arborea” del dettato wittgensteiniano. Chiarito il valore della numerazione (e riletto il testo nell’ordine pensato dall’autore), la tesi di McGuinness perde un importante punto d’appoggio. Si può pertanto concludere che le proposizioni del Tractatus, sebbene ovvie (o addirittura tautologiche), non sono affatto ironiche; esse, infatti, hanno la serissima finalità di mostrare riflessivamente il rapporto tra linguaggio e mondo.
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composizione fattuale come un motto di spirito, senza condannare tale espressione all’insignificanza della metafisica; in ciò saremo fedeli all’intuizione di Wittgenstein, secondo cui l’etica coincide con un disperato tentativo di avventarsi contro i limiti del linguaggio, «ma la tendenza, l’urto, indica qualcosa» (WAISMANN 1967, trad. it., p. 56). Nel tentativo di avventarsi contro i limiti del linguaggio si finisce per fare un’esperienza paradossale, precaria ma allo stesso tempo necessaria, sempre da ripetere: spingendosi contro i limiti dell’esperienza si fa esperienza del limite. Non appena raggiunta, la posizione liminare non consente che un assestamento momentaneo, obbligando nuovamente a uno sconfinamento e a una ricaduta che innesca nuovamente il percorso38.