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Comprendere un tema musicale

4.5 Un nuovo gesto.

Prima di procedere al confronto tra i diversi brani wittgensteiniani relativi al rapporto tra comprensione musicale e comprensione linguistica, si era indicata provvisoriamente la direzione che porta dalla musica al linguaggio: ci si era assicurati, in tal modo, che l’indagine non cercasse di giungere a una conclusione sull’eventuale carattere linguistico della musica ma che, viceversa, chiarisse la natura della comprensione linguistica a partire dal carattere istantaneo e interno della comprensione musicale. Si era dunque ammesso, programmaticamente, che la musica potesse spiegare il linguaggio, fungendo da modello; bisogna ora riconoscere, tuttavia, che l’andamento della riflessione wittgensteiniana presenta una circolarità carica di conseguenze. «Il comprendere una proposizione del

59 Come riportato da Rush Rhees, Wittgenstein avrebbe voluto anteporre al testo delle Ricerche

filosofiche una frase tratta dal dramma shakespeariano King Lear: «I’ll teach you differences» (cfr.

RHEES 1981). L’attenzione alle differenze più che alle somiglianze getta una luce particolare sugli “schizzi paesaggistici” delle Ricerche e sull’idea di filosofia che anima l’indagine wittgensteiniana. Se, tradizionalmente, l’interrogazione filosofica si pone nella forma “che cos’è x?”, la mossa del filosofo austriaco rappresenta una reazione contro ogni forma di riduzione delle differenze all’identità. In ciò si trova l’antiessenzialismo che ha portato alcuni a parlare di una “antifilosofia” di Wittgenstein (cfr. BADIOU 2009).

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linguaggio è molto più affine al comprendere un tema musicale di quanto forse non si creda» (PU, §527) ma «la mia comprensione [musicale] presuppone appunto la famigliarità con inferenze, conferme, risposte» e dunque con «l’intiero campo dei nostri giochi linguistici» (Z, §175).

Il confronto tra musica e proposizione si specifica nel comune riferimento al

gesto. Nelle pagine delle Ricerche filosofiche il gesto è ciò che viene offerto come

modello per l’esecuzione di un ordine (PU, §§433-434), ciò che corrisponde a un’intenzione (Ivi, §666), l’accompagnamento espressivo di una parola (Ivi, §673). Esso è inoltre l’occasione di «fare qualcosa» offerta da una determinata parola: per esempio, «la negazione, si potrebbe dire, è un gesto che esclude, respinge» (Ivi, §550). La parola “non” viene utilizzata come uno specifico gesto in quanto, pronunciandola, compiamo l’atto di escludere, di rifiutare: la sua comparsa infatti cambia di segno il senso della proposizione cui viene applicata.

La parola è dunque un gesto nella misura in cui è utilizzata come compimento di un’azione non altrimenti realizzabile; d’altra parte, essa può essere intesa come un gesto che sostituisce altri gesti. Nelle Lezioni di estetica viene sottolineato come, a partire dai nostri giudizi di apprezzamento (“Che bello!”, “Magnifico”), si possano concepire alcune parole come interiezioni, esclamazioni che sostituiscono un’espressione facciale o un gesto (LC, I, §5). Ciò che saremmo portati a intendere come un enunciato constativo (“Il brano è bello”) viene in realtà utilizzato come un’esclamazione, poiché l’aggettivo non attribuisce una qualità a un oggetto ma viene usato in modo espressivo, rappresentando più la nostra reazione a un’esperienza che un effettivo giudizio di attribuzione:

Pensiamo di dover parlare di giudizi estetici come “Questo è bello”, ma troviamo che dovendo parlare di giudizi estetici non troviamo affatto queste parole, ma una parola usata quasi come un gesto, che accompagna un’attività complicata» (Ivi, I, §35).

Se dunque l’espressività della parola può essere paragonata a quella del gesto, allo stesso modo “ciò che ci dice la musica” può essere inteso non come un

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contenuto semantico ma come un repertorio gestuale. Un’espressione musicale, infatti, non traduce né è tradotta da una proposizione del nostro linguaggio; al contrario, essa si offre come ulteriore gesto specifico.

In quanto gesto, il tema si costituisce come una nuova parte del nostro linguaggio: esso non esprime un vissuto precedente e muto, né traduce un gesto linguistico analogo, ma istituisce un’espressione che da quel momento in poi non sarà separabile dalla specifica formulazione musicale.

E il tema, a sua volta, è anche una parte nuova del nostro linguaggio, si incorpora in esso; impariamo un nuovo gesto. Il tema interagisce con il linguaggio (VB, trad. it. p. 103).

L’intreccio tra gesto linguistico e gesto musicale può produrre il gioco dei confronti, innescare reazioni formatrici di nuovi gesti, ma non si risolve mai in una gerarchizzazione univoca a partire da un senso dato. Si prenda in esame l’analisi della specifica “sensazione di passato” proposta da Wittgenstein nelle pagine del Libro marrone:

Esaminerò un solo caso particolare: il caso d’una sensazione di “molto, molto tempo fa”. Queste parole e il tono in cui esse sono dette sono un gesto di “passato”. Ma specificherò ulteriormente l’esperienza che io intendo, dicendo che essa è l’esperienza che corrisponde ad una certa melodia (Davidsbündler

Tänze – “Wie aus weiter Ferne”). Io immagino che questa melodia sia

eseguita con l’espressione giusta e venga registrata, poniamo, su disco. Allora questa è l’espressione più elaborata e più esatta di sensazione di “passato” che io possa immaginare (BrB, II, §25).

La singolare “esperienza di passato” di cui parla Wittgenstein è veicolata dalle parole “molto, molto tempo fa”; esse vengono utilizzate come un gesto: non fanno riferimento a un vissuto interiore ma producono un peculiare effetto sull’ascoltatore, generando una sensazione e istituendo un’esperienza di

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significato60. A tale uso gestuale del linguaggio corrisponde una certa melodia: l’esempio citato è tratto dalle Danze dei compagni di David di R. A. Schumann (Op. 6 n. 17). L’indicazione riportata sulla partitura (“Wie aus weiter Ferne”, “Come da gran distanza”) prescrive una particolare esecuzione, «l’espressione giusta», che, una volta raggiunta, fa della composizione pianistica in questione «l’espressione più elaborata e più esatta di sensazione di “passato”». Il brano, eseguito secondo l’indicazione, viene assunto come un nuovo gesto, il peculiare “gesto di passato”: esso è in relazione con altri gesti (come le parole “molto, molto tempo fa” o la stessa indicazione della partitura “come da gran distanza”) ma si costituisce come espressione inconfondibile e insostituibile di quella particolare sensazione. Ormai si ha a disposizione anche quel gesto, esso è incorporato nel nostro linguaggio: quando mi troverò a spiegare il mio particolare stato d’animo, non potrò far di meglio che dire: “Hai presente l’espressione del brano di Schumann?”. La sensazione e il gesto musicale sono dunque inseparabili poiché la prima non è un «[…] quid amorfo in un luogo: la mente […]» (Ibidem) e la seconda non ne è l’accidentale concretizzazione.

Ricapitolando: il confronto tra comprensione linguistica e comprensione musicale trova nuova luce nella figura del gesto, inseparabile dall’espressione che manifesta. Tra gesto musicale e gesto linguistico non si viene a creare un ordine analogico regolato gerarchicamente ma una rete di relazioni, di confronti, di reazioni produttive. Nel confronto tra musica e linguaggio rimane però l’ambivalenza precedentemente rilevata: il tema è un’espressione autonoma, conclusa in sé, eppure essa ci è comprensibile nella misura in cui abbiamo familiarità con la varietà dei nostri giochi linguistici. La duplice caratterizzazione del tema e della parola come gesto si inserisce in questa apparente alternativa tra autonomia espressiva e dipendenza da un modello esterno. Da una parte, infatti, il gesto è compiuto in se stesso e resiste a ogni spiegazione:

60 Non è il sentimento (o il contenuto mentale) che trova un eventuale mezzo d’espressione nelle

parole; al contrario, il saper fare (saper utilizzare gesti, parole, giochi linguistici) ha una priorità sul sapere (sulla conoscenza e sulla comprensione dei concetti). Per esempio, il concetto di passato si impara ricordando. «Per contro, si potrebbe forse parlare di un sentimento del “Tanto, tanto tempo fa”, perché ci sono un tono di voce, un gesto, che appartengono a certi racconti di tempi passati» (PU, XIII, trad. it. p. 300).

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Vorrei dire: “Queste note dicono qualcosa di grandioso, ma non so che cosa”. Queste note sono un forte gesto, ma non posso affiancar loro nulla che le spieghi (PU, §610).

Dall’altra parte, il gesto è quanto di più culturalmente caratterizzato possiamo immaginare. Si prenda, per esempio, l’episodio – vero o immaginario che sia – assunto dall’agiografia wittgensteiniana come origine del passaggio dalla concezione logica del Tractatus alla filosofia dei giochi linguistici. Durante un viaggio in treno insieme all’economista italiano Pietro Sraffa, Wittgenstein avrebbe cercato di illustrare al proprio interlocutore la teoria del linguaggio come raffigurazione. Davanti alla tesi del filosofo austriaco, per tutta risposta, Sraffa avrebbe chiesto quale fosse la forma logica di un tipico gesto napoletano61. L’episodio è di solito utilizzato come immagine icastica di ciò che Wittgenstein inizierà a intendere con “gioco linguistico”: «tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto» (PU, §7). Del gesto di Sraffa viene dunque sottolineato il carattere immediato, l’espressività intrinseca, la significatività come attività; più raramente si insiste sul fatto che tale gesto sia tipicamente napoletano, radicato in una cultura, caratteristico e circoscritto a un particolare ambiente. Come scrive lo stesso Wittgenstein: «I gesti cinesi non li comprendiamo più di quanto non comprendiamo le proposizioni cinesi»62 (Z, §219).

Il gesto è autonomo ed espressivo, paradigma stesso della non referenzialità del linguaggio; eppure esso è profondamente condizionato, legato all’intero insieme delle pratiche linguistiche accettate nell’ambiente culturale in cui viene adottato. La totalità culturale in cui si inserisce la comprensione del gesto non va interpretata tuttavia come un paradigma esterno; al contrario, la sua natura linguistica rivela la sedimentazione delle diverse pratiche, delle espressioni, dei

61 L’aneddoto è riportato in MALCOLM 1958, trad. it. p. 74. Sul rapporto tra Wittgenstein e Sraffa

si veda anche McGUINNESS 2008; LO PIPARO 2010 e 2014.

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Bisogna notare, tuttavia, come in Wittgenstein coesistano accenti diversi: accanto ai passi più “culturalisti”, bisognerebbe sempre citare le annotazioni in cui il filosofo fa riferimento ad alcune costanti che caratterizzano il comportamento e la gestualità dell’intero genere umano.

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giochi linguistici che, accumulandosi, l’hanno costituita come sfondo necessario alla comprensione. In questo modo, il richiamo al contesto culturale non mina l’autonomia del gesto ma riconduce la sua espressività alla fitta rete di parole, gesti e attività che costituiscono l’intero campo dei nostri giochi linguistici.

È strano: La nostra comprensione d’un gesto vorremmo spiegarla traducendo il gesto in parole, e la comprensione di certe parole vorremmo spiegarla traducendola in un gesto. (Così, quando vogliamo cercare dove, propriamente, abbia sede il comprendere, siamo sballottati qua e là.)

E nel fatto spiegheremo le parole ricorrendo a un gesto, e un gesto ricorrendo a parole. (Ivi, §227).

Senza che ci sia bisogno di risalire a un paradigma esterno, che starebbe disincarnato e inerte nella mente dei parlanti (o degli attori), la «cultura» di cui c’è bisogno per comprendere un gesto si rivela come un campo di relazioni instabili e variabili: un gesto spiega una parola, una parola spiega un gesto senza che sia possibile arrestarsi davanti ad un significato ultimo.

Nelle pagine del Tractatus eravamo alla ricerca del “che cosa”, della forma logica, ma ci trovavamo sempre alle prese con i differenti “come” delle proposizioni specifiche; la “seconda” filosofia di Wittgenstein incontra un’alternativa simile trattando il problema filosofico della comprensione: andando alla ricerca di un senso condiviso dalle diverse espressioni isomorfiche, ci troviamo «sballottati qua e là» tra parola e tema musicale, in definitiva tra gesti diversi. Nel Tractatus il registro del mostrare demandava alla sfera dell’estetica l’illuminazione – per quanto obliqua – di ciò che è sottratto al dire; in questa distinzione, il tema musicale rappresentava il paradigma tautologico di ciò che non dice nulla ma si dà a vedere come forma compiuta. Nella “seconda” filosofia di Wittgenstein, l’autonomia espressiva del gesto ci conduce all’interno della rete di cui è composto il nostro linguaggio, portando in primo piano lo sfondo culturale di pratiche, parole, gesti, temi musicali che rappresenta la condizione

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svolge un ruolo imprescindibile nell’indagine filosofica: non più explanans univoco dell’explanandum linguistico ma elemento correlato di un confronto variabile e non gerarchico tra espressioni differenti.

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CAPITOLO 5