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Secondo la ricostruzione offerta nelle pagine precedenti, il dibattito tra ineffabilisti e risoluti ha come principale terreno di scontro la diversa valutazione del ruolo e della natura dell’Unsinn: distinto in nonsenso sostanziale e mero nonsenso per gli interpreti del primo orientamento, per gli studiosi del New

Wittgenstein esso non sarebbe altro che mero nonsenso, incapace di “fischiettare”

ciò che non si può dire. Sorprende che tale dibattito si concentri sull’Unsinn senza prendere in considerazione ciò che Wittgenstein definisce Sinnlos: l’insieme delle

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proposizioni della logica – tautologie e contraddizioni. Non che la distinzione tra

Sinnlos e Unsinn venga ignorata: come precisa Conant, «A Satz wich is sinnlos

possesses a (logical) form but no content. Unsinn, on the other hand, possesses neither a form nor a content» (CONANT 2000, p. 214). Per quanto degenerata e liminare, la tautologia è sinnlos ma rimane una proposizione; in essa si riconosce il simbolo nel segno e anzi si può leggere il valore di verità guardando al solo simbolismo, senza bisogno di confronto con la realtà. Viceversa il terreno dell’Unsinn appartiene a un simbolismo cui non è stato assegnato alcun determinato metodo di simbolizzazione. Come scrive Wittgenstein,

6. 53 Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha da fare –, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno.

La distinzione tra Sinnlos e Unsinn è dunque chiara ma per certi versi rimane sullo sfondo, essendo sempre in questione lo status del solo Unsinn. La distinzione viene così espressa da S. Laugier:

Les propositions de la métaphysique sont dénoncées comme des non-sens […] mais en quel sens sont-elles des non-sens? Est-ce au même sens que la logique? Non, clairement. (Il y a des propositions de la logique, mais pas de la métaphysique). (LAUGIER 2009, p. 62)

La distinzione tra i due ambiti è evidente: «Noi non possiamo pensare nulla d’illogico, poiché altrimenti dovremmo pensare illogicamente» (TLP 3.02), le proposizioni della logica non sono di certo illogiche, al di là della logica, ma probabilmente al di qua di un qualsiasi giudizio sulla loro logicità. Le proposizioni della logica appaiono dunque come il metro non a sua volta misurabile: per questo motivo sono sinnlos ma non unsinnig. Al posto della bipartizione all’interno dell’Unsinn, non presente nel Tractatus, pare più

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promettente concentrarsi sulla tripartizione tra Sinnvoll (proposizione “normalmente” capace di raffigurare fatti), Sinnlos (proposizione della logica) e

Unsinn. In tale articolazione, sinnlos risulta tutto ciò che si trova al limite del

linguaggio, al limite della raffigurazione, unsinnig ciò che eccede il limite finendo nello spazio dell’insignificanza. Se la lettura standard sbaglia nel cercare contenuti ineffabili oltre i limiti del linguaggio, la lettura risoluta pare trascurare la posizione liminare della tautologia, alla quale Wittgenstein assegna il grado zero del dire e la possibilità di ostensione della forma logica: un’approfondita considerazione della tautologia pare così riabilitare il regime del mostrare come alternativo al dire. La lettura ineffabilista afferma l’esistenza di un contenuto metafisico oltre i limiti del linguaggio sensato; la lettura risoluta nega tale possibilità; nessuno dei due orientamenti prende in considerazione la dimensione liminare che si trova, sotto gli occhi di tutti, nella forma logica, presente in ogni proposizione e tanto più evidente nella tautologia. Tale considerazione comporta una conversione dall’Unsinn al Sinnlos ma anche un ridimensionamento delle pretese metafisiche, identificabili con «l’idée d’un point de vue sur le monde comme un tout» (LAUGIER 2009, p. 72). La tautologia infatti, convocando simultaneamente tutte le possibilità alternative, dispiega l’intero campo logico, ci mette in presenza della totalità; d’altra parte tale esperienza non ha un contenuto positivo, anzi non è nemmeno un’esperienza in senso stretto, essendo «prima d’ogni esperienza – d’ogni esperienza che qualcosa è così [..] prima del Come, non del Che cosa» (5.52). Il mistico emerge dunque non al di là dei limiti del linguaggio, nel campo dell’Unsinn, ma nel punto cieco della teoria raffigurativa, nel mostrarsi della forma logica nella tautologia.

È noto il privilegio, piuttosto arbitrario, accordato dalla lettura risoluta alla presunta “cornice” del Tractatus, costituita dalla prefazione e dalle proposizioni conclusive 6.53, 6.54, 719. Una lettura integrale dell’opera, al contrario, non può ignorare, accanto alla proposizione 6.54 relativa al “gettare la scala”, la proposizione 6.522: «Vi è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico».

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Sul ruolo ermeneutico attribuito dalle letture risolute del Tractatus logico-philosophicus alla “cornice” del testo, cfr. DIAMOND 2000; MARION 2005, p. 123; BASTIANELLI 2008, p. 222; BAZZOCCHI 2010.

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L’insistenza di quel “davvero” [allerdings] pare rimettere con forza al centro il tema dell’ineffabile. Come sostengono Conant e Diamond, non si tratta qui di “contenuti” misteriosi, non si afferma l’esistenza di qualcosa di inaccessibile al dire, non si vuole rendere presente un’assenza che è tale in maniera costitutiva: la questione è che il punto cieco e irrappresentabile della teoria raffigurativa – la forma logica – è del tutto eterogeneo rispetto ai fatti di cui ci facciamo delle immagini e permane come irrappresentabile all’interno delle nostre rappresentazioni. Non si danno contenuti al di là del linguaggio né dunque nonsensi sostanziali che ci permetterebbero di fischiettare ciò che non si può dire; al contrario, in ciò che diciamo si mostra la forma, la relazione tra proposizione e fatto, in nulla assimilabile a un oggetto. Qui la filosofia è tratta in errore dalla grammatica: usando un sostantivo come “relazione” si pensa di avere a che fare con un oggetto mentre, al contrario, con esso si cerca di mostrare ciò che tra gli oggetti si dà come irrappresentabile. Come scrive Alain Badiou, «il s’atteint là où “quelque chose”, qui n’est justement pas une chose, vient en rest de cette relation» (BADIOU 2009, p. 34).

La reificazione, la riduzione allo stato di res, è un classico errore filosofico: contro di esso Wittgenstein si pronuncia nella nota disputa con Russell sui nomi verbali20. Se per il filosofo inglese la proposizione “A è differente da B” è analizzabile in tre elementi (A, B e la differenza) e dunque la «forma [logica] è qualcosa» (RUSSELL 1983, p. 56), per Wittgenstein le cose stanno in tutt’altro modo:

3.1432 Non: «Il segno complesso <a R b> dice che a sta nella relazione R con b», ma: Che «a» stia in una certa relazione con «b» dice che aRb.

La relazione R non è un terzo elemento, un oggetto accanto ad a e b21, né il complesso “aRb” può essere visto come un quarto oggetto; al contrario, R è

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La questione dei nomi verbali viene approfondita in CONANT 2010.

21 La relazione, secondo Wittgenstein, non è un oggetto in aggiunta agli oggetti che connette: «So

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appunto la connessione tra due oggetti – e nient’altro. La forma logica della proposizione “aRb” coincide con il che enfatizzato da Wittgenstein, il fatto del linguaggio che si mostra nell’articolazione. L’analisi di “aRb” esclude dunque la reificazione della relazione R o del complesso. Come in altri casi, la lettura dei

Quaderni 1914-1916 può essere illuminante:

15.5.15

La teoria del complesso si esprime in proposizioni come questa: «se una proposizione è vera, allora esiste Qualcosa»; sembra esservi una distinzione tra il fatto espresso dalla proposizione: a sta nella relazione R a b, ed il complesso: a nella relazione R a b, complesso il quale è appunto ciò che “esiste” se quella proposizione è vera. Sembra che noi potremmo designare questo Qualcosa, e precisamente con un segno composto vero e proprio […].

19.5.15

Noi possiamo intendere quale cosa persino un corpo concepito in movimento, e precisamente insieme con il suo movimento. Così la luna, ruotando intorno alla terra, si muove intorno al sole. Qui mi sembra chiaro che in questa reificazione non v’è altro che una manipolazione logica […]. Oppure consideriamo reificazioni come: una melodia, una proposizione detta.

Dovendo spiegare il modo in cui siamo portati a reificare relazioni o fatti (che sono in realtà frutto del rapporto tra gli oggetti e non oggetti essi stessi), Wittgenstein ricorre a due esempi caratteristici di reificazione: la melodia e la proposizione detta. Sulla scorta della precedente analogia tra tema musicale e tautologia, possiamo ora spingerci a vedere come al Sinnlos non corrisponda alcuna cosa – e dunque nessuna cosa ineffabile. Se la tautologia, riduzione del dire al regime musicale del mostrare, è allusiva, ciò non significa che essa mostri

qualcosa, indicando un contenuto ineffabile: niente viene mostrato poiché,

Relations are not things, are not entities; relations cannot be labeled or designated» (RICKETTS 1996, p. 72).

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riflessivamente, la forma si mostra come relazione, eterogenea rispetto agli oggetti che coordina.

Si può dunque ribadire la distinzione wittgensteiniana tra Sinnlos e Unsinn: grazie a essa appare più chiaramente la funzione della tautologia, formulazione che, ridotto a zero il registro del dire (TLP 4.461), si risolve in un puro mostrare. Da essa la forma logica si mostra, non potendo essere altrimenti raffigurata (detta) (2.172). Negando che all’interno dell’Unsinn si diano differenze tra nonsenso sostanziale e mero nonsenso, possiamo ritenere che l’ufficio attribuito dalla lettura standard al nonsenso “sostanziale” sia dunque da riferire al Sinnlos, alla tautologia, sebbene in un’ottica aliena da ogni reificazione. La tautologia, come vedremo di seguito, fornirà la struttura dell’unica esperienza etica e metafisica ammessa dall’autore del Tractatus – la visione sub specie aeterni.

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CAPITOLO 2