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L’atmosfera linguistica: il significato assorbito

Per una critica del concetto di atmosfera

7.5 L’atmosfera linguistica: il significato assorbito

Come abbiamo visto, la critica wittgensteiniana al concetto di atmosfera identifica almeno tre accezioni del termine: in generale tale parola indica l’accompagnamento psicologico di un processo, l’esperienza vissuta intesa come stato mentale, interno e privato; tra i vari processi interni, essa ricorre nelle descrizioni della comprensione linguistica come fenomeno psicologico; infine, atmosferica è la fisionomia acquisita da una parola, il volto con cui il nostro linguaggio ci guarda. In questo ultimo senso il concetto di atmosfera riceve un posto di rilievo nella tarda riflessione wittgensteiniana, attenta a indagare i molteplici rapporti tra psicologia e grammatica, tra sensibilità e linguaggio. A tal proposito, Wittgenstein si sofferma sull’espressività intrinseca di alcune parole che paiono aver assorbito il loro significato fino a diventare incarnazione di ciò a cui si riferiscono:

131 Un esempio di inseparabilità dell’atmosfera: «Guarda un mobile, che conosci ormai da tanto

tempo, al suo vecchio posto, in camera tua!». Ecco quello che vorresti dire: “È parte di un organismo”. Oppure: “Portalo fuori e non sarà assolutamente più quello che era prima”, e cose simili. […] Sposta una cosa ed essa non è più quella che era. Questo tavolo è questo tavolo solo in questo ambiente. Tutto fa parte di tutto. Qui l’atmosfera è inseparabile […]» (RPP, § 339). La familiarità dell’espressione presuppone un punto di vista olistico in cui non si può modificare un elemento senza snaturare l’insieme. L’atmosfera inseparabile, dunque, nasce dalla composizione delle parti e ne rappresenta così l’effetto caratteristico.

132 Sul rapporto anima-corpo: «Si dice che l’anima abbandona il corpo. Ma poi, per toglierle ogni

somiglianza con il corpo, e perché non si pensi (per l’amor del cielo!) che è una qualche cosa gassosa, si dice che l’anima è incorporea, non-spaziale. Ma con la parola “abbandona” si è già detto tutto. Fammi vedere come usi la parola “spirituale”, e io vedrò se l’anima sia “incorporea”, e che cosa tu intenda con “spirito”» (Z, §127). E ancora: «Di ciò che è inanimato sono propenso a parlare come di un che cui manchi qualcosa. La vita la vedo né più né meno come un di più; come un che di aggiunto a ciò che è inanimato. (Atmosfera psicologica)» (Ivi, §128). Il tentativo di Wittgenstein è quello di pensare l’atmosfera della parola non come un’entità aggiuntiva spirituale che si accompagna al corpo delle lettere ma come l’espressività intrinseca di una forma compiuta.

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È come se la parola che io capisco avesse un leggero aroma133 specifico, che corrisponde al suo essere compresa. È come se due parole a me ben note si distinguessero non solo per il loro suono, o il loro aspetto, bensì, anche se non associo ad esse alcuna rappresentazione, per una loro certa atmosfera. – Ma ricorda come i nomi di famosi poeti e musicisti paiano aver assorbito in sé un particolare significato. Tanto che si può dire: I nomi “Beethoven” e “Mozart” non solo suonano diversi, ma li accompagna anche un diverso carattere. Se però dovessi descrivere più in dettaglio questo carattere, – indicheresti i loro ritratti, oppure la loro musica? […] (RPP, §243).

L’atmosfera, considerata in partenza «un’immagine sospetta» (Z, §27) dei nostri processi di comprensione, gode invece di un’attenzione rilevante quando si impone come effetto e retroazione della pratica linguistica sul nostro mondo affettivo e sulla nostra sensibilità. Prendendo ad esempio i nomi di celebri compositori, Wittgenstein mette al centro dell’attenzione l’intimità con le parole che caratterizza la nostra forma di vita: il modo in cui utilizziamo alcune locuzioni, la cura con cui scegliamo un vocabolo al posto di un altro non sono aspetti meramente accessori dell’ornatus con cui arricchiamo i nostri discorsi, ma testimoniano la familiarità che abbiamo con le nostre risorse espressive. La grammaticalizzazione del linguaggio psicologico operata da Wittgenstein non consiste in una riduzione semplicistica del significato all’uso né in una sopravvalutazione delle dimensione costitutiva delle regole a scapito degli aspetti vitali, emotivi e affettivi che caratterizzano il modo in cui «frequentiamo il mondo nel linguaggio» (SINI 2005). Scrive a tal proposito Chauviré:

Voilà une dimension de la signification qui ne doit rien aux règles, mais qui doit beaucoup en revanche, holisme oblige, à l’environnement des mots, à la langue, aux jeux de langage où ils sont employés, et au contexte extralinguistique, à la culture, à la vie, dont ces mots sont imprégnés en

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même temps qu’ils diffusent leur signification dans cette vie (CHAUVIRÉ 2003, p. 101).

In un recente saggio dedicato alla realtà dei sentimenti e al loro statuto atmosferico di “quasi-cose”134

, T. Griffero rimprovera a Wittgenstein di non essere «all’altezza dell’approccio atmosferologico, irriducibile all’uso figurato delle parole e attento alla dimensione fonosimbolica» (GRIFFERO 2013, pp. 35- 36). Tale critica pare in realtà più severa del dovuto: con il termine “atmosfera” Wittgenstein ha infatti di mira proprio gli effetti percettivi ed estetici del linguaggio sulla nostra esperienza affettiva e, d’altra parte, il filosofo viennese non riduce affatto tale «sensibilità rinnovata» (cfr. GARGANI 2008) all’uso figurato del linguaggio. Vedremo al contrario come l’atmosfera dischiuda la possibilità di applicazioni linguistiche innovative ma non necessariamente metaforiche.

Stabilita la distinzione tra i diversi usi del termine “atmosfera”, possiamo dire che Wittgenstein ha come obiettivo il rifiuto di ogni forma di accompagnamento psicologico della parola (inteso come contenuto preverbale) e, allo stesso tempo, il recupero della dimensione musicale, espressiva e sensibile del linguaggio inteso, come «seconda natura» (JOHNSTON 1993, trad. it. p. 125) dell’animale umano. Non dunque causa ma effetto del nostro esprimerci, l’atmosfera è la particolare fisionomia acquisita dalla parola nell’uso che ne facciamo; non l’aura psicologica del senso ma l’espressività per cui una parola diventa incarnazione del suo significato. In breve: l’atmosfera non è alle nostre spalle, non è la causa ma è l’effetto paradossale dell’uso delle parole; essa si trova davanti a noi come spunto per nuovi giochi linguistici.

Per spiegare ulteriormente la differenza tra le diverse accezioni del termine atmosfera, può essere utile richiamare la distinzione wittgensteiniana tra uso primario e secondario di una parola. Come è noto, l’uso secondario è il frutto di una applicazione innovativa e originale di una parola il cui uso è ordinariamente

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Contro l’idea di una “quasi-cosa”, impalpabile ma presente ed esperibile, Wittgenstein risponderebbe probabilmente che una «strana e vacillante struttura» finisce per essere una «non- cosa [Unding]» (PU, II, trad. it. p. 259).

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riservato a un dato ambito: è questo il caso dei giorni della settimana “magri” o “grassi”, oppure delle vocali chiare o scure. Scrive Wittgenstein:

Dati i due concetti “grasso” e “magro, saresti disposto a dire che mercoledì è grasso e martedì magro, o saresti disposto a dire il contrario? […] Qui si potrebbe parlare di significato “primario” e di significato “secondario” di una parola. Solo colui per il quale la parola ha significato primario, la impiega nel suo significato secondario […]. Il significato secondario non è un significato “traslato”. Quando dico: “Per me la vocale e è gialla”, non intendo “giallo” in significato traslato – infatti quello che voglio dire non potrei esprimerlo in nessun altro modo se non per mezzo del concetto “giallo” (PU, II, trad. it. pp. 283-284).

La capacità del parlante di estendere l’uso di una parola fuori dagli ambiti circoscritti dall’abitudine ha uno stretto legame con il tema delle atmosfere: pare infatti che tali usi secondari cerchino di veicolare esperienze evanescenti, vissuti interiori sottili e impalpabili. Abbiamo però visto che secondo Wittgenstein è piuttosto il contrario: la pregnanza degli usi secondari viene dal fatto che le parole paiono aver assorbito il loro significato e diventano per così dire immagine di ciò a cui si riferiscono. Si può dire che le parole non rispecchiano un’atmosfera ma la creano: danno cioè la sensazione agli altri parlanti di un vissuto non attingibile senza quegli specifici usi linguistici. Come scrive Paul Johnston a proposito dell’Interno (intendendo con ciò l’esperienza vissuta):

L’idea che le parole abbiano significato in quanto correlate a un oggetto favorisce l’idea degli oggetti interni privati. Ma, in relazione all’Interno, il linguaggio non descrive alcuna entità indipendentemente esistente: casomai è la base su cui si comincia a parlare di stati interni. Di più: lo sviluppo di un Interno complesso e articolato è possibile solo grazie al nostro rapporto col linguaggio (JOHNSTON 1993, trad. it. p. 136).

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Gli usi secondari inoltre non sono metaforici: è noto l’argomento per cui se fossero semplici usi traslati sarebbe possibile tornare indietro fino alle espressioni letterali di cui sarebbero i sostituti. Ma ciò, per l’appunto, non è possibile: gli usi secondari non esprimono altrimenti qualcosa di già dato ma costituiscono un’inedita esperienza del linguaggio, istituiscono novità nel campo delle nostre espressioni e modificano il nostro accesso alla realtà, arricchendo la nostra esperienza percettiva.

L’atmosfera, dunque, è l’effetto di un uso secondario della parola; possiamo dire tuttavia che anche della parola “atmosfera” vi siano usi primari e secondari: in ciò parrebbe consistere la critica di Wittgenstein a tale concetto. Se infatti con “atmosfera” si intende – secondo un uso primario – il correlato evanescente e psicologico di un processo interno, il sentimento soggettivo e il contenuto ineffabile delle nostre esperienze, un uso secondario come quello proposto da Wittgenstein con l’espressione “atmosfera della parola” porta in primo piano un’applicazione innovativa dello stesso concetto di atmosfera al campo del linguaggio. Se abitualmente si parla di atmosfera per un luogo lugubre, un viso pacificato o una misteriosa notte di plenilunio, l’estensione del campo d’applicazione del termine alle parole rappresenta un’innovazione non semplicemente metaforica: le parole, dunque, hanno un’atmosfera, producono impressioni sensibili non altrimenti esperibili. Utilizzando un’espressione di Paolo Virno, siamo di fronte a un sensismo di secondo grado:

Si tratta si indagare, dunque, l’esperienza sensibile che ha nel linguaggio niente di meno che la propria condizione di possibilità. L’esperienza sensibile che può dirsi provocata da asserzioni, calcoli, metafore; che accompagna le parole o le presuppone, ma, in ogni caso, ne dipende. In quanto risultato di sequenze logiche, e tuttavia in sé pur sempre immediata, essa, a voler usare il gergo kantiano, apre il campo a una estetica che però, lungi dal fondarla, sia rigorosamente successiva a una analitica. Si potrebbe anche utilizzare l’espressione sensismo di secondo grado, intendendo con ciò la percezione (tattile, visiva ecc.) del tutto inconcepibile senza una

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preliminare dimestichezza con una rete di concetti verbali (VIRNO 2003, p. 92).

Nell’atmosfera della parola il linguaggio dischiude un orizzonte sensibile post- linguistico, basato sul pensiero verbale tipicamente umano ma non incastrato nel rimando semantico.