Capitolo 2. L’emersione di nuovi scenari urbani tra macrotrasformazioni e
2.1 Principali trasformazioni strutturali
2.1.3 La flexible specialisation e l’economia della conoscenza
A partire dalla fine degli anni ’70 il modello di produzione di massa, tipico delle maggiori economie avanzate, è sottoposto ad un processo di trasformazione radicale provocato da una serie di fattori, il cui effetto combinato mette in crisi le fondamenta su cui si basava il modello di produzione fordista9, segnando gradualmente il passaggio verso un nuovo paradigma produttivo, la cosiddetta flexible specialisation (Piore e Sabel, 1984)10. Le industrie di produzione di massa - che avevano prosperato dal dopo-guerra in poi in una situazione di crescita sostenuta della domanda e mercati del lavoro quasi in equilibrio - cominciano a mostrare i primi segnali di crisi in seguito alla maggiore integrazione dei mercati a livello mondiale, allo sviluppo delle TIC, alla crescita del settore dei servizi e delle attività economiche basate sulla conoscenza. La maggiore turbolenza e volatilità dei mercati internazionali si manifesta attraverso un accresciuto livello di competitività. Cresce soprattutto la competizione all’interno dei settori manifatturieri tradizionali e delle industrie pesanti da parte delle produzioni dei Paesi che beneficiano di un basso costo degli input produttivi, primo fra tutti il lavoro. La più intensa competitività rende quindi necessaria la riorganizzazione dei processi di produzione, con lo scopo di accrescere la reattività delle imprese di fronte alla presenza di mercati sempre più imprevedibili e mantenere livelli di profitto e validità economica accettabili (Buck e Gordon, 2001). La risposta competitiva delle imprese localizzate
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Integrazione verticale del processo di produzione all’interno di grandi imprese, ricerca di economie di scala interne e co-ordinamento economico di tipo verticale basato su modelli burocratici anziché di mercato rappresentano le principali caratteristiche del modello di produzione di massa.
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Partendo dall’evidenza empirica e dal lavoro di alcuni ricercatori, soprattutto quello relativo ai distretti industriali italiani, Piore e Sabel (1984), teorizzano un nuovo modello di produzione le cui caratteristiche principali sono la specializzazione e la flessibilità (flexible specialisation). Posizionando il successo di questa forma di produzione all’interno del contesto macroeconomico e storico, gli autori ipotizzano l’esistenza di un punto di frattura nel processo d’industrializzazione (“industrial divide”), separando quindi l’era attuale della specializzazione flessibile dalla produzione di massa tipica delle economie occidentali del dopoguerra (Storper, 1997). Secondo l’interpretazione dei teorici della regolazione, il modello di produzione flessibile, co-esistito a lungo con il modello di produzione di massa, emerge a partire dagli inizi degli anni settanta in seguito alle criticità crescenti a cui viene sottoposto il sistema di produzione e accumulazione fordista, prendendone così progressivamente il sopravvento in termini materiali e ideologici (Jessop, 1994).
all’interno delle economie avanzate si esplicita sempre più nel tentativo di conquistare i segmenti più alti dei mercati, attraverso l’attuazione di strategie aziendali miranti alla ricerca di una maggiore qualità e differenziazione di prodotto. Tali obiettivi sono resi più facilmente perseguibili proprio attraverso un’organizzazione del lavoro sul modello della specializzazione flessibile, capace di cogliere appieno le opportunità offerte dall’ampliamento dei mercati e di aumentare la capacità di reazione delle imprese di fronte ad una maggiore volatilità degli stessi11.
Il paradigma produttivo della flexible specialisation determina la scomposizione del processo di produzione e il maggior ricorso all’outsourcing al fine di minimizzare i costi di produzione e generare vantaggi competitivi. Nei nuovi assetti produttivi, l’organizzazione economica avviene sempre più attraverso il mercato e soprattutto tramite forme di collaborazione inter- aziendale, invece che attraverso forme di controllo e coordinamento verticale di tipo intra-aziendale12. La produzione di massa non scompare, ma muta l’organizzazione produttiva anche della grande impresa alla ricerca di maggiore flessibilità. L’evidenza empirica mostra una tendenza delle grandi imprese verso la concentrazione delle attività sul core business aziendale, al ricorso sempre più frequente all’outsourcing, alla decentralizzazione delle attività all’interno della struttura produttiva interna e all’introduzione di nuove forme organizzative13.
Riducendo l’importanza delle economie di scala interne, il nuovo modello di produzione attribuisce una sostanziale rilevanza alle economie esterne legate al territorio. La flexible specialisation riscopre l’importanza delle caratteristiche e della qualità del territorio, ignorate durante la fase del
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Approfittando di queste nuove fonti di flessibilità, Jessop (2002) sostiene che i capitalisti intendono (o sperano) di superare l’alienazione e la resistenza delle masse dei lavoratori, le relative stagnazioni della produzione di massa, le minacce competitive provenienti dai Paesi a basso costo del lavoro e la saturazione dei mercati dei beni standardizzati, cercando di soddisfare una domanda maggiormente diversificata e aumentare produttività e profitti nell’industria manifatturiera.
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Aumentano, quindi, le forme di coordinamento e controllo decentralizzate, accompagnate da una deverticalizzazione della divisione del lavoro tra unità indipendenti ma interconnesse, dalla ricerca continua d’innovazione, dalla riduzione dei tempi di approvvigionamento degli input alla produzione e consegna dei prodotti finali. Questi cambiamenti risultano essere particolarmente evidenti soprattutto nelle industrie di nicchia, caratterizzati da elevata volatilità e frequenti innovazioni di prodotto (Amin e Thrift, 1992).
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Una delle principali critiche rivolte alla teoria della flexible specialisation riguardava il fatto che i sistemi di produzione, basati sul modello della specializzazione flessibile, erano in realtà rappresentati esclusivamente in mercati di nicchia, mentre i produttori di massa occupavano ancora le parti più consistenti dei propri mercati. I fautori della flexible specialisation argomentavano di contro che anche la grande impresa stava intraprendendo la strada della flessibilità e del lean production system, così come la ristrutturazione di grandi imprese quali la IBM (maggiore decentralizzazione interna e flessibilità) tendeva a confermare. Il nuovo modello, pertanto, non interessava solo una piccola parte marginale dei mercati, ma la sua influenza si estendava sull’intero sistema di produzione (Storper, 1997).
fordismo, quale asset strategico per la generazione e il mantenimento di vantaggi competitivi. Le nuove circostanze del mercato richiedono una radicale riorganizzazione del sistema di produzione verso accordi flessibili intra e inter-aziendale che possono combinare simultaneamente economie di scala, scopo e versatilità. Tutto ciò determina un ritorno ai luoghi, una certa dipendenza dalla prossimità geografica degli attori, alle dinamiche di agglomerazione e i suoi effetti (Amin e Thrift, 1992).
In breve, le nuove condizioni di mercato aumentano il livello d’incertezza, il quale è affrontato attraverso la deverticalizzazione e l’esternalizzazione di fasi del processo di produzione; tutto ciò, da un lato, per minimizzare i rischi di esposizione associati alla sovra-capacità (in termini sia di produzione che di forza lavoro) e, dall’altro, per massimizzare i benefici della specializzazione e minimizzare il pericolo di lock-in tecnologico. L’esternalizzazione delle attività tende ad accrescere i costi di transazione derivanti dalle relazioni tra le imprese. Più le relazione sono frequenti, complesse e non standardizzate, più aumenta il loro costo con il crescere della distanza geografica. Ne consegue, pertanto, un processo di agglomerazione spaziale delle attività quale risultato della minimizzazione dei costi di transazione (che includono tutti quei costi sostenuti per effettuare una transazione che prescindono dal costo dell’oggetto scambiato) (Storper, 1997)14.
Per la creazione e il mantenimento di vantaggi competitivi in molte attività economiche acquistano importanza fattori (intangibili e soft) legati al territorio, quali il ruolo delle istituzioni locali, la presenza di norme condivise, convenzioni e rapporti di fiducia15, che contribuiscono ad accrescere la produttività statica e dinamica delle imprese locali16.
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Le attività che tendono maggiormente a concentrarsi nello spazio sono soprattutto quelle più avanzate, caratterizzate da procedure complesse e non standardizzate basate su conoscenze tacite, che richiedono maggiore intensità delle relazioni tra gli attori coinvolti, contatti faccia a faccia e scambio frequente d’informazioni.
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La letteratura sulle agglomerazioni industriali (ma non solo, si veda a riguardo tra le altre la letteratura sulla sociologia economica tra cui Granovetter, 1985), in particolare quella riguardante i distretti industriali italiani (Bagnasco, 1977; Becattini, 1987, 1998, 2000; Brusco, 1989; Brusco e Paba, 1997), ha riconosciuto l’importanza di “un’atmosfera istituzionale” e la presenza di capitale sociale “nella creazione e mantenimento delle agglomerazioni”. Senza negare l’importanza dei fattori economici quali specializzazione di prodotto, divisione del lavoro, economie di scala e prossimità a mercati ampi e sofisticati, la teoria dei distretti industriali conferisce particolare enfasi “alle caratteristiche sociali e istituzionali quali le relazioni di fiducia, non di mercato” (Amin e Thrift, 1995: 99-100), convenzioni, regole informali e abitudini (le cosiddette untraded interdependencies), che aiutano a “coordinare gli attori economici in condizioni d’incertezza” (Storper, 1997: 5). Queste relazioni rappresentano sempre più di frequente
asset specifici nel processo di produzione capaci di generare vantaggi competitivi.
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La produttività statica delle imprese operanti all’interno di agglomerazioni è accresciuta attraverso la possibilità di accesso ad input specializzati della produzione (in particolare, forza lavoro qualificata), a fonti d’informazione, dalla presenza di complementarità nel processo di produzione e dai contatti con istituzioni e organizzazioni. La produttività
dinamica dipende, invece, dalla capacità d’innovare che deriva, oltre che dalle specificità interne all’impresa, anche
Il rinnovato interesse per il territorio, quale importante asset produttivo, si deve anche alla maggiore trasformazione intervenuta nelle economie avanzate, ossia il passaggio da economie sostanzialmente industriali, volte alla produzione di beni, ad economie basate sulla conoscenza, laddove questa rappresenta sia l’input che l’output del processo di produzione. Questo passaggio ha delle implicazioni notevoli per una nuova divisione funzionale del lavoro. L’accesso a fonti d’informazione e conoscenza, rappresenta per questo tipo d’economia, il fattore localizzativo più importante. L’accesso avviene in due modi, attraverso il trasferimento elettronico delle informazioni e i contatti faccia a faccia. Questa differente tendenza determina delle conseguenze importanti per i territori, incoraggiando processi d’agglomerazione soprattutto nelle grandi città, che rappresentano da sempre i maggiori centri di produzione, raccolta e trasferimento dell’informazione (Hall, 1993).
Prima di analizzare l’impatto di queste macrotrasformazioni sulla sfera urbana e le possibilità di risposta delle città dinanzi ai mutamenti derivanti dai fattori fin qui discussi è opportuno soffermarsi sulla relazione tra l’attuale organizzazione della produzione e la localizzazione, sottolineando le implicazioni che tale connessione ha nei percorsi di sviluppo delle città17.