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La trasformazione degli Stati nazionali

Capitolo 2. L’emersione di nuovi scenari urbani tra macrotrasformazioni e

2.4 La trasformazione degli Stati nazionali

In questo paragrafo, il quadro interpretativo dei teorici della regolazione è utilizzato, in modo prevalente, per analizzare le mutazioni in atto all’interno

della sfera politico-istituzionale, a livello nazionale43. Secondo questi studiosi, la storia del capitalismo rappresenta un processo che attraversa differenti fasi (modi di sviluppo), ciascuna delle quali caratterizzata da un rapporto coerente tra uno specifico regime d’accumulazione del capitale e un insieme di norme sociali e forme istituzionali (modo di regolazione). Tale coerenza garantisce la stabilizzazione sul lungo periodo di un modo di sviluppo caratterizzato da una crescita regolare, destinata però a sfociare inevitabilmente in una crisi che, quando non può più essere risolta attraverso le misure dell’attuale regime

d’accumulazione e modo di regolazione, segna il passaggio ad un nuovo modo di sviluppo, ossia ad una nuova fase del capitalismo (Boyer, 2004).

Sulla base di questo schema interpretativo, la teoria della regolazione argomenta che, a partire dagli anni settanta, la forma organizzativa della grande impresa e degli Stati nazionali, che hanno fornito le basi per crescita economica e solidarietà nel secondo dopoguerra, non sono state più in grado di garantire la stabilità del regime d’accumulazione fordista. Il modello della crescita economica fordista che aveva permesso allo Stato di legare gli interessi del capitale e del lavoro in un programma di piena occupazione e benessere sociale, sottoposto a tensioni crescenti (internazionalizzazione crescente delle economie, stagflazione, crescita della disoccupazione), cede così il passo ad un nuovo modello di produzione e accumulazione del capitale (post-fordista), flessibile e globale (Jessop, 1994). Il modo di regolazione del fordismo, ancorato allo Stato di welfare keynesiano, entra pertanto in crisi proprio in seguito alle contraddizioni esistenti tra processi di produzione e accumulazione del capitale sempre più globali e forme di regolazione nazionali (Peck e Tickell, 1994). L’impossibilità delle misure tipiche dello Stato

keynesiano di riaffermare le condizioni per l’accumulazione del capitale ha

innescato pertanto un processo di sperimentazione di nuovi processi e interventi che sta determinando una trasformazione strutturale del sistema politico-istituzionale e un riorientamento strategico dello Stato a sostegno dell’emergente processo di produzione e regime d’accumulazione flessibile

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Agli inizi degli anni settanta alcuni economisti, che all’epoca lavoravano per l’amministrazione economica francese (INSEE), autori di modelli macroeconometrici (Bernard Billaudot, Micheal Aglietta, Robert Boyer), osservano una rottura, a partire dal 1967, delle regolarità economiche: aumento costante della disoccupazione in Francia, crescita dell’inflazione e diminuzione della crescita economica. Ispirati dal lavoro di Michal Kalecki, Nicholas Kaldor e Joan Robinson, e attirati da un’analisi di lungo periodo delle trasformazioni del capitalismo, procedono ad una valutazione critica del potere esplicativo delle ipotesi marxiste (Boyer, 2004).

(Jessop, 1994). Attraverso un processo di trial and error, le forze economiche e politiche si sono poste alla ricerca di una nuova forma di Stato che potesse risolvere le profonde contraddizioni e la crisi del modo d’accumulazione e stabilizzare nuovamente il sistema dello Stato. Secondo Jessop (1994; 2002), questo processo ha condotto alla formazione di un nuovo modello di Stato, il

Schumpeterian Workfare State, più adatto alle esigenze regolatrici del nuovo

regime d’accumulazione post-fordista. Il Schumpeterian Workfare State ha come obiettivi principali il sostegno a processi d’innovazione e la promozione della competitività strutturale nazionale all’interno di un sistema economico aperto, intervenendo con politiche sul lato dell’offerta e subordinando le politiche sociali alle necessità dei processi di competizione internazionali e di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro (l’obiettivo è di portare le persone

“from welfare into work”). Nella sua analisi, Jessop (1994; 2002) specifica che

non esiste una forma dominante di Schumpeterian Workfare State, ma differenti varianti: neoliberista, neocorporativa, neostatista e neocomunitaria.

La forma neoliberista sostiene un progetto di transizione verso un nuovo regime economico, guidato da meccanismi di mercato. Deregolamentazione dei mercati, privatizzazione delle imprese pubbliche, adozione di criteri di mercato nel settore pubblico, introduzione di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro rappresentano alcune delle caratteristiche principali dell’orientamento neoliberalista.

Il Schumpeterian Workfare State di tipo neocorporativo, differentemente del precedente modello corporativo di Stato keynesiano, include nel processo di concertazione, oltre alle organizzazioni del capitale e del lavoro, altre comunità politiche (legate al mondo della scienza, della salute, dell’ educazione, ecc.), che svolgono attualmente un ruolo importante nel perseguimento dei nuovi obiettivi strategici dello Stato (innovazione e competizione). Le politiche industriali e del reddito sono caratterizzate da una maggiore selettività: interessi forti di alcuni settori industriali tradizionali tendono ad essere esclusi e soppiantati dagli interessi dei nuovi settori economici emergenti. Infine, nella versione neocorporativa, considerata la maggiore flessibilità dell’economia post-fordista, la concertazione passa dal livello macro, di concertazione macroeconomica, ad un livello micro (imprese e territori).

La forma di Stato che fa riferimento al neostatismo è caratterizzato dal ruolo centrale e dirigista dello Stato nel processo di ristrutturazione economica. E’ lo Stato a stabilire gli obiettivi strategici per l’accumulazione flessibile, la promozione dell’innovazione e il sostegno alla competitività strutturale dell’economia nazionale. E’ ancora lo Stato a promuove un’attiva politica del lavoro per riqualificare e accrescere le competenze della forza lavoro, incoraggiando la costituzione di un mercato del lavoro, caratterizzato da una maggiore flessibilità delle competenze e non del costo.

Per ultimo, la forma neocomunitaria enfatizza “il contributo del terzo settore e dell’economia sociale nel processo di sviluppo economico e coesione sociale, nonché il contributo della mobilitazione economica e sociale dal basso nell’elaborazione e implementazione di strategie economiche. […] La strategia neocomunitaria è indirizzata su spazi economici meno competitivi (come città deindustrializzate o città situate nel livello più basso delle gerarchie urbane) con i maggiori rischi di perdere dalla competizione, a somma zero, per risorse esterne. Contro la logica del capitalismo globale, l’economia sociale rende prioritario il valore d’uso sociale. Essa mira a porre rimedio al disequilibrio tra ricchezza privata e povertà pubblica, creare una domanda locale, riqualificare disoccupati a lungo termine e reintegrarli in un mercato del lavoro ampliato, affrontare alcuni dei problemi della rigenerazione urbana, rinnovare la fiducia all’interno della comunità e promuovere forme di

empowerment. Questo comporta strategie economiche e sociali coordinate tra

differenti scale d’azione” (Jessop, 2002: 462-463, traduz. it. a cura dell’autore). L’autore sostiene che queste differenti versioni del Schumpeterian

Workfare State nella realtà spesso coesistono all’interno e attraverso differenti

livelli dell’organizzazione politica (sopranazionale, statale, regionale e locale). I mutamenti associati all’adozione di queste strategie implicano, inoltre, una riorganizzazione delle relazione tra differenti livelli di organizzazione politica e del modo di regolazione economica.

In sintesi, i teorici della regolazione tendono ad enfatizzare, all’interno delle loro analisi, la centralità di due processi strettamente intrecciati: il cambiamento degli obiettivi strategici dello Stato che, da piena occupazione e riequilibrio territoriale, sono indirizzati oggi verso la promozione di maggiore flessibilità e competitività; e, la trasformazione di architetture e processi

istituzionali che, sull’effetto degli attuali processi di ristrutturazione del capitale e di globalizzazione, sono riorganizzati su scale geografiche differenti. Su questo secondo aspetto, Brenner (1999) rimarca che il processo di

riterritorializzazione di spazi socio-economici e politico-istituzionali rappresenta

una specificità importante dell’attuale fase di globalizzazione. Questo processo di riterritorializzazione è, ad esempio, particolarmente intenso e articolato nel processo di integrazione dell’UE che, come suggerisce Le Galès (1998: 486), sta determinando “una nuova distribuzione di poteri e competenze, differenti processi di mobilitazione territoriale e una crescente proliferazione di network di azione pubblica non centrati sullo Stato e la creazione di un nuovo ordine politico”. Queste interpretazioni teoriche indicano che una delle più importanti conseguenze geografiche della nuova fase di globalizzazione è il processo di decentramento della scala nazionale di accumulazione e regolazione statale in favore di nuove configurazioni territoriali sopra e sub nazionali (Brenner, 1999). Di conseguenza, Swyngedouw (1997) argomenta che la ricerca di nuovi modi di regolazione sociale, atti a garantire una stabilità di medio termine per il nuovo modo di produzione e regime d’accumulazione, avviene, più che in passato, su differenti scale spaziali. Ad esempio, la relazione tra capitale e lavoro, se durante il fordismo veniva regolata su scala nazionale, oggi, la regolazione di questo rapporto avviene sempre più di frequente a livello locale; una situazione analoga, sebbene con movimento di scala differente, riguarda la regolazione dei sistemi monetari che sta passando gradualmente dal livello nazionale a quello internazionale. Avviene, pertanto, che nella ricerca di un nuovo “institutional fix” (Peck e Tickell, 1994) – che consiste

nell’individuazione di nuovi assetti istituzionali in grado di disinnescare le contraddizioni e le crisi insite in tutte le fasi del capitalismo – alcune delle funzioni che prima ricadevano tra le competenze dello stato trasmigrano in alto, verso organismi e istituzioni internazionali, e in basso, verso organismi e istituzioni sub-nazionali. Da un lato, si verifica, dunque, una crescita dei regimi sopra-nazionali e, dall’altro, la rinascita di governance locali e regionali (Jessop, 1994), che agendo su scale territoriali differenti, ma strettamente interconnesse, sperimentano nuove forme di regolazione.

Queste trasformazioni hanno suscitato un acceso dibattito sul destino degli Stati nazionali, le cui differenti posizioni sono efficacemente esaminate nel libro Global Transformation di David Held e colleghi (1999). Il dibattito comprende, da un parte, una scuola di pensiero che ipotizza uno svuotamento, in termini di poteri e funzioni, degli Stati nazionali dinanzi gli attuali processi di globalizzazione. I fautori di questa visione, gli iperglobalisti, considerano lo spazio del mercato globale quale nuovo ed unico sistema di regolazione dell’emergente società mondiale; e sostengono che il nuovo ordine economico sia governato dai mercati internazionali e dalle multinazionali che, travalicando i confini nazionali, indirizzano e gestiscono i flussi di risorse su scala mondiale. Le attività economiche si

deterritorializzano, nel senso che possono essere facilmente spostate e

localizzate in qualsiasi posto; ne consegue, quindi, un processo di de-

nazionalizzazione delle economie a vantaggio dei network di produzione

transnazionali governati dal potere delle multinazionali (cfr. su questo aspetto Ohmae, 1990). In breve, secondo la tesi degli iperglobalisti nel nuovo contesto globalizzato, gli Stati perdono la loro centralità nel processo di produzione a vantaggio delle multinazionali. A questa visione si contrappongono le argomentazioni dei fautori della inamovibile centralità degli Stati nazionali, o gli

scettici della globalizzazione (cfr. ad esempio Hirst e Thompson, 1996), i quali

sostengono che la globalizzazione rappresenti più un mito che non la realtà, dove le attività economiche sono prevalentemente distribuite all’interno di tre blocchi regionali (Stati Uniti, Europa e Giappone), e il ruolo degli Stati nazionali è ancora predominante (Held et al., 1999). Brenner (1999: 439), situandosi al di fuori di queste due scuole di pensiero, sostiene invece che entrambe le interpretazioni non colgono “le varie trasformazioni attuali dell’organizzazione territoriale statale attraverso cui: nuove istituzioni e forme di regolazione sono attualmente prodotte su scale sopra e sub nazionale; e, il ruolo della scala nazionale, come livello di regolazione, viene ridefinito radicalmente in risposta all’attuale fase di globalizzazione capitalista. Questo processo di rescaling dell’organizzazione territoriale dello Stato deve esser quindi visto come un momento costitutivo e rafforzativo del processo di globalizzazione” (traduz. it. a cura dell’autore). Per Brenner (2003), quindi, gli Stati non reagiscono semplicemente alle presunte forze geo-economiche

esterne, ma producono attivamente e rimodellano di continuo il terreno istituzionale all’interno delle quali le dinamiche spaziali del capitale globale si dispiegano.

Senza entrare nel merito di questo dibattito, ci si limita a rilevare come il ruolo dello Stato sia, ad esempio, ancora centrale e lungi dallo scomparire nella gestione dei conflitti sociali e nella predisposizione di politiche e programmi di welfare, in particolar modo in Europa. Per cui, nonostante sia importante riconoscere l’accresciuta rilevanza dei livelli sopra e sub regionali come nuovi centri di regolazione, è necessario evidenziare che prescindere dal livello nazionale nella costruzione di un nuovo compromesso sociale, sotto un nuovo modo di regolazione sociale, non sembra oggi una possibilità praticabile. Le organizzazioni sopranazionali non sono, infatti, in grado di raggiungere un tale compromesso, poiché non dispongono ancora di un livello sufficiente di legittimità popolare e democratica.

E’ opportuno evidenziare, in conclusione, alcuni dei limiti dell’interpretazione dei processi di trasformazione degli Stati nazionali, e più in generale dei processi di regolazione, proposta dalla teoria della regolazione. Gli studiosi appartenenti a questa scuola di pensiero sostengono come i cambiamenti in corso nella sfera politico-istituzionale siano governati essenzialmente dall’ideologia neo-liberista, che mira ad accrescere la competitività ed eliminare lo stato sociale. In realtà, però, se si guarda con più attenzione alle numerose riforme introdotte all’interno dei Paesi dell’UE nello scorso decennio, si comprende quanto poco esse abbiano seguito le ricette del manuale neo-liberista Hemerijck (2002: 227), ma si ispirino piuttosto a modelli di “solidarietà competitiva” (Streeck, 2000)44. Inoltre, i processi di State

restructuring e decentramento non derivano, in modo esclusivo, dalla

percezione di dover rinforzare la competitività economica della nazione e rispondere alle pressioni della globalizzazione, come suggeriscono i teorici della regolazione, ma dipendono, invece, ampiamente, da dinamiche di natura politica (in particolare, da pressioni provenienti dal basso e dalla volontà dei

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Nella prospettiva della “solidarietà competitiva”, l’eguaglianza tra cittadini viene ricercata attraverso un tentativo di rendere eguali le risorse e le posizioni iniziali degli attori, specialmente nei termini di capitale umano e occupabilità, piuttosto che correggendo politicamente ed ex post gli effetti del mercato. La competizione viene dunque accettata non solo come un fatto naturale, ma anche come strumento utile per ottenere uno sforzo ulteriore sia dalla comunità come insieme compatto nei confronti del mondo esterno, sia dall’individuo come singolo attore” (Streeck, 2000:22).

politici locali di espandere il proprio ambito di manovra) (Harding, 2005; Le Galès e Pinson, 2005).

La teoria della regolazione è diventata per molti studiosi uno strumento utile per analizzare le trasformazioni intervenute nelle scale subnazionali45. Le interpretazioni fornite dalla scuola della regolazione sulla centralità della promozione della competitività territoriale quale obiettivo di governo, dei processi di rescaling delle modalità di regolazione e dell’avvio di nuove politiche costituiscono, infatti, una buona base conoscitiva da cui partire per esaminare le nuove forme di regolazione che si stanno sviluppando a livello locale. Si tratta, tuttavia, è bene precisarlo di una base incompleta, perché i teorici della regolazione non prendono in adeguata considerazione la crescente importanza delle relazioni orizzontali nelle pratiche di governo tra istituzioni, organizzazioni, associazioni, ecc. (poiché si focalizzano esclusivamente sulle relazione verticali tra istituzioni di governo) e tanto meno l’importanza di culture, tradizioni e società locali nel gestire e indirizzare i processi di trasformazione, che definiscono, in ultima istanza, le differenze nei percorsi di sviluppo e di governo delle città (Harding, 2005). Aspetti che saranno, invece, tenuti in adeguata considerazione in questo lavoro.

2.5 La crescente rilevanza della scala locale come spazio di regolazione