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Urban entrepreneurialism vs giustizia sociale?

Capitolo 3. Processi di regolazione urbana tra competitività e giustizia

3.1 Urban entrepreneurialism vs giustizia sociale?

Dovendo affrontare le criticità derivanti dal passaggio verso una base economica di tipo post-industriale e i costi associati a questa trasformazione in termini di disoccupazione, declino economico e spopolamento, gli attori locali, a partire dagli anni ’80, cominciano ad assumere un approccio di tipo pro- attivo riguardo a questioni di sviluppo economico, attraverso il sostegno all’imprenditorialità, la predisposizione di campagne di marketing territoriale per l’attrazione di investimenti esterni, la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali e il lancio di candidature per ospitare grandi eventi in ambito sportivo, culturale e politico-economico per accrescere visibilità e prestigio internazionale e attrarre investitori e turisti. I processi di governance urbana tendono, pertanto, a focalizzarsi maggiormente su attività di tipo imprenditoriale riguardanti lo sviluppo economico. Questa mutazione è interpretata da Harvey (1989) come il passaggio nei processi di governance dall’urban managerialism all’urban entrepreneurialism1.

Processi di crescente disuguaglianza ed esclusione sociale all’interno delle città contemporanee anche in presenza di tassi positivi di crescita economica hanno condotto numerosi studiosi ad ipotizzare una crescente inconciliabilità tra questo approccio emergente di governance e la giustizia sociale (Fainstein, 2001). L’idea che esista un trade-off inevitabile tra efficienza (crescita economica) ed equità, tra urban entrepreneurialism e giustizia sociale, è ad esempio centrale nei modelli teorici della urban political

economy nordamericana che propongono una visione antitetica dello sviluppo

urbano. Da un lato, uno sviluppo guidato da logiche di mercato, sostenuto da coalizioni pro-growth, proteso al raggiungimento di obiettivi di crescita economica e ampliamento della città; e, dall’altro, uno sviluppo urbano

1 L’urban managerialism rappresenta la governance urbana tipica del periodo post-bellico, caratterizzato da una forte

espansione economica delle economie nazionali occidentali e dal consolidamento del welfare state, in cui il compito essenziale delle autorità locali era di regolare la localizzazione delle attività economiche sul territorio attraverso i piani regolatori e fornire tutta una serie di servizi pubblici, quali educazione, trasporti pubblici, realizzazione di alloggi popolari e assistenza sociale. Verso la fine degli anni settanta, in seguito ai processi di ristrutturazione economici e l’indebolimento del welfare state, Harvey (1989) ipotizza l’avvento di una nuovo modello di governance, di tipo imprenditoriale, che tende progressivamente a sostituire quello precedente.

orientato al rafforzamento di obiettivi di equità sociale, sostenuto da alleanze

anti-growth, che si oppongono a strategie di crescita2. Savitch e Kantor (2002) argomentano che questa visione della realtà urbana in cui, ad un’estremità, sono collocate città che propendono per un tipo di sviluppo incentrato sul sociale e, all’altra, città che optano per politiche urbane neo-liberiste, orientate al mercato ed alla promozione della competitività territoriale, non è in grado di cogliere la complessità dei modelli di governo e sviluppo urbano esistenti, in cui spesso le dimensioni di efficienza ed equità coesistono. I limiti dell’urban

political economy diventano particolarmente evidenti nell’interpretazione della

realtà urbana europea, dove la contrapposizione tra i due modelli di sviluppo non è così marcata come nel caso di alcune città nordamericane, su cui sono basate le riflessioni di questo filone teorico3. Sulla differenza tra le città nordamericane e quelle europee, e quindi sull’inadeguatezza dei modelli sopraesposti nel descrivere e interpretare i processi di sviluppo delle città europee, Le Galès (2002) precisa che nonostante l’esistenza di trend che tendono a rendere le città del vecchio continente più simili a quelle statunitensi, esistono delle differenze sostanziali nei percorsi di sviluppo, determinati da cultura, politica, sistemi socio-economici, architetture e processi istituzionali differenti. Differenze marcate tra i due contesti esistono, quindi, in merito al ruolo politico della città, alle preferenze dei governi locali e nazionali su servizi e beni pubblici e benessere collettivo, in materia d’urbanistica ed altro ancora. Pertanto, sebbene sia possibile rintracciare un approccio di

governance di tipo “imprenditoriale” in un crescente numero di città europee,

volto alla promozione di crescita economica e competitività, ciò non vuol dire che equità e coesione sociale siano state eliminate dall’agenda politica urbana. In Cities in the international marketplace, Savitch e Kantor (2002) illustrano diversi esempi di città incentrate sul mercato che non necessariamente escludono obiettivi sociali e, viceversa, di città che seppur

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Le coalizioni pro-growth generalmente includono proprietari di terreni e immobili, promotori immobiliari, imprese operanti nel campo dell’edilizia, fornitori di servizi pubblici, associazioni imprenditoriali, politici locali e altri attori che hanno un interesse diretto e indiretto nella crescita di una particolare area. Questo gruppo promuove una concezione positiva della crescita, che si traduce in un maggiore benessere per l’intera comunità. Questa visione è contrastata dalle coalizioni anti-growth che racchiudono movimenti sociali, percettori di reddito modesti, pensionati e, più in generale, tutte le persone che sono interessate in modo negativo dai processi di crescita (inquinamento, congestione, prezzi crescenti di immobili, beni e servizi). Le aree urbane rappresentano le arene dove emergono i conflitti tra coalizioni pro-growth e anti-growth, in cui entrambi i gruppi dispiegano strategie articolate in uno scontro al fine di prevalere sull’altro, cercando di guadagnare il consenso pubblico (Molotoch, 1976; 1993).

3 Per una critica relativa all’utilizzo dei modelli teorici dell’ urban political economy nordamericana nel caso delle città

orientate al sociale aprono verso il mercato. Ciò li porta ad affermare che la realtà è, quindi, molto più complessa di quella rappresentata da una battaglia tra due orientamenti, che si contendono il campo della politica urbana. Pertanto, piuttosto che una questione di scelta tra un approccio o un altro, gli autori sostengono che il quadro reale contiene un ibrido di scelte. Ci sono, infatti, numerose città che perseguono entrambi gli scopi: crescita economica e giustizia sociale. Questa possibilità sembra essere scartata dai teorici della regolazione urbana che, individuando nel neo-liberismo il motore delle maggiori trasformazioni economiche e politico-istituzionali in corso, sostengono che le città siano inserite in un limbo, caratterizzato da politiche urbane imprenditoriali, competizione territoriale esasperata (a somma zero) e crescente disparità sociale e spaziale (Brenner, 2003, 2004; Brenner e Theodore, 2002; Jessop, 2002; Peck e Tickell, 2002)4. Nonostante riconoscano l’esistenza di un qualche spiraglio di speranza riguardo la possibilità di creare una città più giusta5, questi studiosi sostengono che lo sviluppo delle città, seppur con modalità differenti, è proiettato su un unico percorso di natura neo-liberista6. Criticando questa visione, Le Galès (2002) dibatte che l’analisi avanzata da questo filone di studiosi privilegia dei modelli analitici di convergenza delle città, anziché proporre modelli che tengano conto delle divergenze tra di esse. L’autore rigetta, quindi, il determinismo delle spiegazioni di questa corrente teorica e, sebbene riconosca che la bilancia di potere sia cambiata in favore delle forze di mercato, sostiene che i conflitti esistenti su scale differenti riguardo le forme di regolazione possano modificare le logiche di mercato. Queste ultime si scontrano, infatti, con dimensioni politiche, sociali e culturali che non inevitabilmente si lasciano

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“Il neo-liberismo promuove e normalizza un approccio allo sviluppo urbano improntato in prima istanza alla crescita, considerando i meccanismi di welfare come costi anti-competitivi e rendendo le questioni della redistribuzione e degli investimenti sociali in contrapposizione ai principali obiettivi di sviluppo economico”(Peck e Tickell, 2002: 394, traduz. in italiano a cura dell’autore).

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“Attualmente, rimane da vedere se le potenti contraddizioni inerenti all’interno dell’attuale dispiegamento neo- liberista nella composizione urbana determinerà aperture per riappropriazioni più progressive e radicalmente democratiche dello spazio urbano, o se, invece, agende neoliberiste si radicheranno ancora più a fondo all’interno delle esistenti strutture istituzionali di governance urbana. Se ciò dovesse accadere, abbiamo ogni ragione per anticipare la cristallizzazione di geografie urbane ancora più malvagie in cui: le città dispiegano aggressive politiche di marketing territoriale, mutuamente distruttive; al capitale transnazionale è concesso di sganciarsi dal sostegno della riproduzione sociale locale; e il potere dei cittadini di influenzare le condizioni di base della loro vita è sempre più insidiata” (Brenner e Theodore, 2002: 376, traduz. italiana a cura dell’autore).

6 “I processi attuali di globalizzazione, integrazione europea e l’allargamento ad est dell’UE sono stati dominati da

agende neo-liberiste che rinforzano la politica imprenditoriale della competizione territoriale” (Brenner, 2003: 214, traduz. italiana a cura dell’autore). Sulle differenti modalità di costituzione della cosiddetta città neo-liberista, Brenner e Theodore (2002: 368) scrivono: “i diversi percorsi di ristrutturazione urbana neo-liberista che si sono cristallizzati attraverso il vecchio mondo industrializzato riflettono non solo la diversità dei progetti politici neo-liberisti ma anche le interazioni specifiche contestuali di questi progetti con i pre-esistenti assetti di regolazione politico-economica urbana” (traduz. italiana a cura dell’autore).

dominare dalle forze di mercato. Su questo aspetto, Di Gaetano e Strom (2003) aggiungono che l’analisi macro (di tipo strutturalista) condotta dai teorici della regolazione urbana – che focalizza l’attenzione su trasformazioni generali nei modi di regolazione, quali l’affermazione del neo-liberismo e il conseguente passaggio all’imprenditorialità nella governance urbana – non riesce a cogliere le enormi variazione nei processi di governance urbana esistenti. Tradizioni culturali e norme differenti generano, infatti, secondo gli autori, una varietà di risposte a processi di ristrutturazione economica e politica.

Da questo approccio teorico – che prende in considerazione oltre agli aspetti strutturali, gli elementi legati alla tradizione e alle specificità culturali e la capacità di azione degli attori locali – discende l’ipotesi, e le rispettive domande di ricerca, della tesi di dottorato.