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Obbligo di indicazione dell’origine e libera circolazione delle merci.

Origine delle merci e comunicazione al consumatore

7. Obbligo di indicazione dell’origine e libera circolazione delle merci.

Se il quadro giuridico descritto rende ragionevolmente difficile individuare margini di autonomia nazionale nella specificazione della nozione di origine con riferimento ad obblighi di discovery sui vari “passaggi” della filiera (origine ma- terie prime, luoghi di particolari lavorazioni intermedie, trasformazione e condi- zionamento finale, ecc.), più complessa appare la questione della possibile intro- duzione di vincoli a precisare l’origine dei prodotti in etichetta pur rimanendo entro quanto previsto dalla sua nozione “europea”.

Al riguardo, laddove la disciplina dell’Unione non contempli alcuna partico- lare disposizione (ed il relativo silenzio non debba essere interpretato come una forma di preemption, ossia come la volontà di non contemplare indicazioni sul- l’origine fra le diciture obbligatorie della comunicazione commerciale) eventuali interventi normativi nazionali si qualificherebbero senz’altro come misure tecni- che, capaci almeno potenzialmente di produrre effetti equivalenti alle restrizioni quantitative della circolazione delle merci, vuoi per gli effetti dissuasivi derivanti dalla necessità per i produttori esteri (non solo di merci finite, ma anche di se- milavorati o ingredienti) di adeguare la propria struttura produttiva di modo da tenere traccia del passaggio delle varie lavorazioni onde fornire (solo per quel mercato) le informazioni richieste, vuoi per gli oneri di adeguamento in sé delle etichette (che dovrebbero essere modificate in funzione del luogo di commercia- lizzazione), vuoi, infine, per i potenziali effetti distorsivi in sede di cernita dei prodotti da parte dei consumatori, portati ad accordare istintiva preferenza ai prodotti “locali” o comunque di provenienza nazionale.

Già in epoca risalente la direttiva 70/50/CEE della Commissione 98, dedicata

specificamente ad un programma di superamento degli ostacoli tecnici alla libe- ra circolazione delle merci, aveva definito questo tipo di imposizioni veri e pro- pri disincentivi all’acquisto rientranti nell’ambito dell’allora art. 30 del Trattato (oggi 34 TFUE). Secondo la direttiva, infatti, tali devono intendersi le «disposi- zioni legislative, regolamentari ed amministrative, nonché ogni altro atto posto in essere da una autorità pubblica, ivi compresi gli incitamenti, che ostacolano delle importazioni che potrebbero avere luogo ove tali misure non esistessero, ivi comprese quelle che rendono le importazioni più difficili ed onerose rispetto allo smercio di prodotti nazionali» 99.

98 Cfr. la direttiva della Commissione delle Comunità europee del 22 dicembre 1969, che trova la sua fonte normativa nel disposto dell’art. 33, par. 7, del Trattato, equivalente a restrizioni quan- titative non contemplate da altre disposizioni prese in virtù del Trattato CEE, in GUCE, L 13 del 19 gennaio 1970, p. 29 ss.

99 Cfr. la direttiva 70/50/CEE, cit., art. 2. La disciplina in questione è oggi sostanzialmente ri- presa dal regolamento (CE) n. 765/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 luglio 2008, che stabilisce procedure relative alla applicazione di determinate regole tecniche nazionali a pro- dotti legalmente commercializzati in altro Stato membro, in GUUE, L 218 del 13 agosto 2008, p. 21 ss.

L’indicazione ha, poi, trovato puntuale riscontro nella primissima giurispru- denza della Corte sulla libera circolazione delle merci: la nota sentenza Dasson-

ville 100, infatti, ha esteso il campo di azione della disciplina del Trattato anche

solo agli effetti dissuasivi potenziali o indiretti, così rafforzando la natura protet- tiva delle norme in questione rispetto all’integrità del mercato unico in costru- zione. La successiva sentenza Cassis de Dijon 101, pur muovendo dalla riafferma-

zione della sovranità nazionale nelle materie di competenza concorrente in cui la Comunità (oggi Unione) non abbia ancora adottato disposizioni, ha di fatto in- vertito l’onere della prova, imponendo agli Stati membri l’obbligo di dimostrare la sussistenza di una esigenza imperativa e la proporzionalità della misura nazio- nale adottata onde sfuggire al divieto in oggetto 102.

È in questo contesto che la Corte, a cavallo fra gli anni Settanta ed Ottanta, si è occupata anche dell’impatto delle varie leggi nazionali che avevano introdotto obblighi di indicazione dell’origine dei prodotti sulla base della asserita necessi- tà di tutelare le aspettative e la buona fede dei consumatori in merito all’autenti- cità delle merci poste in vendita ed alle loro caratteristiche essenziali.

L’analisi della giurisprudenza relativa alle diverse vicende in cui la questione è emersa mostra costante coerenza con una visione spiccatamente economica del processo di integrazione dei mercati, come del resto era lecito attendersi in quella fase storica.

Nella sentenza Commissione c. Germania 103 (c.d. caso “Sekt”) i giudici del

Lussemburgo, analizzando le esigenze di “tutela del consumatore” con riferi- mento ad alcune indicazioni relative alla qualificazione dei vini di origine nazio- nale, affermano chiaramente che per l’acquirente non è necessario sapere se una determinata merce abbia o meno un’origine precisa, a meno che detta origine non implichi una determinata qualità, particolari materie prime di base o un de- terminato procedimento di fabbricazione, o, ancora, un certo ruolo nel folclore o nella tradizione della regione di cui trattasi 104.

100 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia CE 11 luglio 1974, causa 8/74, Procureur du Roi c.

Benoit e Gustave Dassonville, in Racc., 1974, p. 837 ss.

101 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia 20 febbraio 1979, causa 120/78, Rewe-Zentral AG, cit. 102 Presupposti e contenuti della giurisprudenza della Corte in materia sono anche troppo noti per meritare una ampia ricostruzione in questa sede. Sia perciò consentito rinviare alla manualisti- ca fondamentale di diritto UE, cit.

103 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia CEE 20 febbraio 1975, causa 12/74, Commissione

delle Comunità europee c. Repubblica federale di Germania, in Racc., 1974, p. 181 ss., su cui si ve-

dano M.MARENCO, I termini “Sekt” e “Weinbrand” non sono riservati ai prodotti tedeschi, in Dir.

com. sc. int., 1975, p. 358 ss.; F.-K.BEIER, La nécessité de protéger les indications de provenance et

les appellations d’origine dans le marché commun – En marge de l’arrêt “Sekt / Weinbrand” de la Cour de justice des ce du 20 février 1975, in La propriété industrielle, 1977, p. 160 ss.; ID., The Need

for Protection of Indications of Source and Appellations of Origin in the Common Market: The Sekt/Weinbrand Decision of the European Court of Justice of 20 February 1975, in Monographs on Industrial Property and Copyright Law, Vol. 3: Protection of Geographic Denominations of Goods and Services, 1980, p. 183 ss.

L’approccio, ribadito nella sentenza Eggers 105 (riferita alla medesima disci-

plina nazionale, nel frattempo modificata per cercare di conformarsi alla prece- dente sentenza), ove la Corte ha ritenuto «incompatibile con il mercato comune la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel territorio nazionale di tut- to o parte del processo produttivo, la quale per ciò stesso limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si svolgono in tutto o in parte in altri Stati mem- bri (…)» 106, trova infine completamento nell’osservazione dirimente formulata

nel noto caso Commissione c. Irlanda 107 relativo ai souvenirs, in cui è stato pun-

tualizzato che «l’interesse dei consumatori e la lealtà dei negozi commerciali sa- rebbero sufficientemente tutelati se ai produttori nazionali fosse lasciata la pos- sibilità di usare mezzi a ciò adeguati, come l’apposizione, se lo volessero, del proprio contrassegno d’origine sui loro prodotti ed imballaggi» 108.

Sicché, nel paradigma tracciato dalla Corte, l’esigenza imperativa viene di fatto ancorata esclusivamente alla sussistenza di differenze qualitative misurabili (c.d. “nesso” o “legame” ambientale), o, quantomeno, all’interesse per l’autenticità di un prodotto che si presenti come tipico o artigianale, mentre il test di propor- zionalità si risolverebbe nella fin troppo facile constatazione che anche senza “obbligo”, i produttori nazionali possono pur sempre ricorrere alle informazioni volontarie per comunicare (in forma del tutto facoltativa e legittima, purché ve- conclusioni dell’Avvocato generale Capotorti nella causa 113/80, Commissione c. Irlanda, ove vie- ne introdotto un distinguo fra i souvenirs generici (che hanno il mero scopo di ricordare un de- terminato luogo, ma non ci si attende debbano essere necessariamente ivi realizzati) e i c.d. “pro- dotti dell’artigianato” (che, al contrario, sono ricercati proprio perché espressione della capacità produttiva locale).

105 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia CEE 12 ottobre 1978, causa 13/78, Joh. Eggers Sohn

& Co. c. Freie Hansestadt Bremen, in Racc., 1978, p. 01935 ss., ove oggetto del contenzioso era la

normativa tedesca sul vino che ammetteva per prodotti esteri l’uso della dicitura “Weinbrandt” a condizione del rispetto – inter alia – dell’obbligo di indicazione del paese di origine o di un agget- tivo con funzione equivalente. Al riguardo la Corte ha ribadito che «in un mercato unico, il diritto ad una denominazione di qualità per un prodotto dovrebbe dipendere – salvo restando le norme da applicarsi in materia di denominazione di origine e indicazione di provenienza – unicamente dalle caratteristiche obiettive intrinseche dalle quali risulti la qualità del prodotto del prodotto rispetto allo stesso prodotto di qualità inferiore, ma non la localizzazione geografica di questa o quella fase di produzione». Sul punto, più diffusamente, P.PISELLI, Denominazioni di qualità e

mercato comune europeo, in Rivista di diritto industriale, 1979, II, p. 366 ss.; D.WYATT, Restric-

tions Resulting from Rules on “Undivided Responsibility” in Manufacture, in Eur. Law Rev., 1980,

p. 473 ss.

106 Cfr. il punto 25 delle motivazioni, cui si ricollegano anche i successivi passaggi conclusivi nei punti 28 e 29.

107 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia CE 17 giugno 1981, causa 113/80, Commissione c.

Irlanda, in Racc., 1981, p. 01625 ss. relativa ad alcuni decreti irlandesi che imponevano l’indicazio-

ne di origine sulle merci, le relative etichette e gli imballaggi in modo indelebile e ben leggibile, su cui si vedano F.CAPELLI, Variazioni in tema di applicazione dell’art. 30 del Trattato CEE, in Il Foro

padano, 1981, IV, Col. 57 ss.; A.DASHWOOD, Cassis de Dijon: The Line of Cases Grows, in Eur.

Law Rev., 1981, p. 287 ss.

ritiera) l’origine delle proprie merci ed i dettagli più significativi della filiera pro- duttiva.

La filosofia di fondo che permea queste sentenze è chiaramente ispirata ad una visione strettamente ablativa delle differenze non materiali fra i prodotti che circolano sul mercato unico, come emerge in modo ancor più evidente nelle pro- nunce successive.

Nella causa Commissione c. Regno Unito 109 si legge, infatti, che «le indicazio-

ni o la marchiatura di origine che mirano a consentire al consumatore di effet- tuare una distinzione fra le merci nazionali e quelle importate danno la possibili- tà di far valere gli eventuali pregiudizi contro i produttori stranieri (…). Il Trat- tato, mediante l’instaurazione di un mercato comune e grazie al ravvicinamento graduale delle politiche economiche degli Stati membri, mira alla fusione dei mer- cati nazionali in un mercato unico avente le caratteristiche di un mercato inter- no. Nell’ambito di un siffatto mercato, la marchiatura d’origine rende non solo più difficile lo smercio in uno Stato membro dei prodotti degli altri Stati mem- bri nei settori di cui trattasi; essa ha inoltre l’effetto di frenare l’interpenetrazio- ne economica nell’ambito della Comunità, ostacolando la vendita di merci pro- dotte grazie alla divisione del lavoro fra gli Stati membri» 110.

Si tratta di una lettura dell’integrazione dei mercati in cui la preoccupazione per la costruzione ed il mantenimento dell’unitarietà dello spazio economico e della sua omogeneità porta inevitabilmente ad un bilanciamento in cui gli inte- ressi dei consumatori si fermano alla mera acquisizione delle informazioni essen- ziali sul prodotto, mentre la dimensione “sociale” e “culturale” dell’acquisto è relegata a fattore volontario (che il consumatore finisce inevitabilmente per pa- gare attraverso un “premium price” di “selezione” o a “subire” in funzione delle scelte unilaterali del venditore) ovvero a comprovate ragioni tradizionali che as- sumono carattere eccezionale e residuale.

Nella sentenza, infatti, a fronte della esposizione di un sondaggio che eviden- ziava il generale interesse dei consumatori a conoscere l’origine di determinati prodotti (caratterizzati per una certa tradizione manifatturiera nazionale, come le calzature italiane, la moda francese, gli elettrodomestici tedeschi, ecc.) la Cor- te ribadisce la propria tesi della necessità di evitare ogni intervento “pubblico” di salvaguardia di queste aspettative (che non sia strettamente limitato alla lotta alle contraffazioni ed alle pratiche commerciali sleali) rimettendo alla sola inizia- tiva privata la facoltà di sottolineare l’origine dei prodotti proposti in vendita 111.

Il risultato non può, quindi, che essere una lettura ostativa rispetto alla diffe- renziazione dei prodotti non sostanziata da fattori oggettivi, animata dalla pre- occupazione di consolidare il mercato interno probabilmente ancora percepito

109 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia CE 25 aprile 1985, causa 207/83, Commissione c.

Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, in Racc., 1985, p. 01201 ss.

110 Cfr. il punto 17 delle motivazioni. Cfr. sul punto L.GORMLEY, Compulsory Origin Marking, in Eur. Law Rev., 1985, p. 435 ss.

come fragile in relazione ad una certa immaturità del processo di integrazione europea e dalla assenza di espliciti diritti dei consumatori circa la completezza dell’informazione e l’autodeterminazione nelle proprie scelte di acquisto.

In altre parole, la Corte affronta il tema, in questa fase, adottando l’ottica dell’offerta e giudicandone gli effetti sul versante della “domanda” in termini esclusivamente di “ricadute” materiali delle norme in discussione sugli scambi commerciali.

8. Segue. Gli sviluppi più recenti: lo stato derivante dall’approccio giuri-

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