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Segue La proposta di estensione del regime di tutela delle indicazio ni geografiche dell’Unione europea ai prodotti non agroalimentari.

commerciali sleal

6. Segue La proposta di estensione del regime di tutela delle indicazio ni geografiche dell’Unione europea ai prodotti non agroalimentari.

Dal punto di vista dell’Unione europea i miglioramenti apportati negli ultimi anni ai diversi regimi di tutela e promozione della qualità ha costituito comun- que un buon successo, riuscendo ad impostare una politica produttiva che ha rafforzato la posizione dell’Unione anche nello scenario internazionale.

La negoziazione negli ultimi anni di numerosi Trattati commerciali bilaterali, in cui sono state inserite “liste” di toponimi che la UE e lo Stato terzo si impe- gnano reciprocamente a riconoscere e tutelare (e.g. gli accordi conclusi dalla CE con gli Stati Uniti 93, il Canada 94, la Svizzera 95, il Messico 96, la Repubblica Suda-

90 Cfr. il punto 107 delle motivazioni.

91 Si pensi al moltiplicarsi di marchi pubblici sull’Italian taste, il “Made in Italy”, ecc. che negli ultimi anni sono stati istituiti con varie norme volte a tutelare le caratteristiche e l’autenticità delle produzioni nazionali specialmente nelle esportazioni verso paesi terzi. La giurisprudenza naziona- le, peraltro, aveva già in tempi risalenti evidenziato al contrarietà di questi marchi alle norme sulla libera circolazione delle merci: cfr., ex plurimis, la sentenza della Pretura di Verona del 6 novem- bre 1980 n. 1780, p.p. c. Sante Tosadori, M. Tonoli e G. Tosadori, pubbl. sulla Rivista di diritto in-

dustriale, 1981, II, p. 287 ss. nonché su Il Foro it., 1981, II, p. 501 ss.

92 Trovano così inquadramento le molte iniziative messe in campo a livello nazionale per valo- rizzare i prodotti del territorio “fuori dal circuito delle DOP-IGP”, quali, per restare all’Italia, a titolo esemplificativo del De.C.O. (Denominazioni Comunali di Origine) o i PAT (Prodotti Agro- alimentari Tradizionali), su cui si rinvia alle considerazioni generali espresse in questo e nel pros- simo paragrafo.

fricana 97, l’Australia 98 ed il Cile 99 per la tutela delle denominazioni delle bevan-

de spiritose, nonché, più in generale, il c.d. “CETA” 100 recentemente concluso

con il Canada e l’accordo con la Cina, i cui negoziati si concluderanno entro la fi- ne del 2017, nonché quelli con Singapore ed il Giappone ancora in corso di ne- goziazione) ha, infatti, per un verso consentito alla UE di superare lo stallo dei negoziati sull’implementazione dell’Accordo TRIPs in materia (arenatisi nel con- testo del c.d. “Doha Round” per l’opposizione di numerosi Stati membri del WTO alla creazione di un sistema “sui generis” di protezione dei toponimi basa- to sul meccanismo della registrazione internazionale e sul c.d. “criterio di lista” proposti dalla UE) 101; per altro verso di superare le oggettive difficoltà di tutela

del 20 dicembre 2005 relativa alla conclusione dell’accordo tra la Comunità europea e gli Stati Uniti d’America sul commercio del vino, in GUUE, L 87 del 24 marzo 2006, p. 1 ss., su cui si veda il commento di E.M.APPIANO, Le pratiche enologiche e la tutela delle indicazioni di qualità nel-

l’Accordo UE/USA sul commercio del vino ed in altri trattati stipulati dalla Comunità, in B.UBER- TAZZI,E.MUÑIZ ESPADA (a cura di), Le indicazioni di qualità degli alimenti, cit., p. 348 ss.

94 Cfr. l’Accordo concluso fra la Comunità europea e il Canada in forza della Decisione del Consiglio n. 2004/91/CE del 30 luglio 2003, relativa alla conclusione di un accordo tra la Comu- nità europea e il Canada sul commercio dei vini e bevande spiritose, in GUUE, L 35 del 6 feb- braio 2004, p. 1 ss.

95 Cfr. l’Accordo fra la Comunità europea e la Confederazione elvetica sul commercio dei pro- dotti agricoli in forza della Decisione del Consiglio 2002/309/CE, pubblicata in GUCE, L 114 del 30 aprile 2002, p. 1 ss., più volte integrata e modificata, al cui interno trova spazio un articolo sul commercio dei vini e le relative regole.

96 Cfr. l’Accordo fra la Comunità europea ed il Messico in forza della Decisione del Consiglio 97/361/CE del 27 maggio 1997, relativa alla conclusioe di un accordo fra la Comunità europea e gli Stati Uniti del Messico sul mutuo riconoscimento e sulla protezione delle denominaizoni delle bevande spiritose, in GUCE, L 152 del 11 giugno 1997, p. 1 ss.

97 Cfr. l’Accordo CE – Repubblica Sudafricana, concluso in forza della Decisione del Consi- glio 2002/53/CE del 21 gennaio 2002, relativa all’applicazione provvisoria dell’accordo tra la Co- munità europea e la Repubblica Sudafricana sugli scambi di vino, in GUCE, L 28 del 30 gennaio 2002, p. 1 ss.

98 Cfr. l’Accordo CE – Australia concluso con Decisione del Consiglio n. 94/184/CE, concer- nente la conclusione di un accordo tra la Comunità europea e l’Australia sugli scambi di vino, in

GUCE, L 86 del 31 marzo 1994, p 1 ss.

99 Cfr. l’Accordo CE – Cile concluso con Decisione del Consiglio n. 2002/979/CE del 18 no- vembre 2002, relativa alla firma e all’applicazione provvisoria di determinate disposizioni dell’ac- cordo che istituisce un’associazione tra la Comunità europea e i suoi Stati membri, da una parte, e la Repubblica del Cile dall’altra, in GUCE, L 352 del 30 dicembre 2002, p. 1 ss.

100 Cfr. l’Accordo UE – Canada concluso con Decisione (UE) n. 2017/38 del Consiglio, del 28 ottobre 2016, relativa all’applicazione provvisoria dell’accordo economico e commerciale globale (CETA) tra il Canada, da una parte, e l’Unione europea e i suoi Stati membri, dall’altra, in GUUE, L 11 del 14 gennaio 2017, p. 1 ss.

101 Il tema è troppo vasto per poter essere qui utilmente ripercorso. Si perciò consentito rinvia- re alla letteratura specialistica che l’ha affrontato, fra cui G.E. EVANS, The Protection of Geo-

graphical Indications after Doha: Quo Vadis?, in Journal of Economic Law, 2006, p. 575 ss.; S.FU- SCO, Geographical Indications: a discussion on the TRIPs Regulation after the Ministerial Conferen-

a livello internazionale di toponimi ormai da tempo utilizzati in molti Paesi terzi anche per la forte presenza di immigrati dai paesi europei.

In considerazione di ciò la Commissione ha recentemente avviato una rifles- sione circa l’opportunità di estendere le norme attualmente limitate ai prodotti agro-alimentari a tutti i prodotti manifatturieri dell’Unione.

In questo modo si verrebbero a superare, nella chiave descritta in preceden- za, le residue resistenze degli Stati membri alla estensione degli obblighi di tra- sparenza sull’origine dei prodotti, premiando in particolare quei beni che godo- no di particolare apprezzamento sul mercato, nonché ad esstendere la capacità negoziale dell’Unione con i Paesi terzi anche in relazione a prodotti e denomi- nazioni che a tutt’oggi non godono di una vera e propria protezione nemmeno nell’ordinamento giuridico UE.

Come primo passo la Commissione ha affidato ad un Consorzio di enti di ri- cerca uno studio per verificare l’attuale stato dell’arte e formulare delle proposte in materia 102.

L’analisi ha anzitutto evidenziato la presenza di ben 834 prodotti le cui de- nominazioni, in assenza di norme armonizzate, godono a livello nazionale di va- rie forme di tutela.

Gli strumenti giuridici adottati dagli Stati membri sono, tuttavia, molto di- versi fra loro, con variabilità sia nell’intensità della protezione che nei costi.

Pur nella difficoltà di schematizzare un simile panorama, lo studio ha rag- gruppato le diverse legislazioni in tre macro-aree, riferibili alla semplice applica- zione delle norme sulle pratiche commerciali sleali, la protezione attraverso gli istituti privatistici della proprietà industriale e la creazione di sistemi pubblici- stici di amministrazione e protezione dei relativi toponimi.

Nei paesi che hanno optato per il livello di protezione “minimo” le relative di- scipline tendono a privilegiare la salvaguardia delle aspettative dei consumatori, comportando complessi oneri della prova circa l’ingannevolezza della presentazio- ne di eventuali prodotti che evochino o imitino gli originali il cui assolvimento in sede processuale determina ingenti costi a carico di chi intenda agire per l’accerta- mento degli atti di concorrenza sleale. Lo studio ha quindi rilevato uno scarso ri- corso a questi meccanismi di difesa dei nomi geografici in questione 103.

L’inquadramento della fattispecie nella disciplina dei marchi ha comportato, per i Paesi che hanno scelto questa opzione, il sicuro vantaggio di potersi avva-

dibattito sulle indicazioni geografiche nel Sistema multilaterale degli scambi: dal Doha round del- l’Organizzazione Mondiale del Commercio alla protezione Trips plus, in B.UBERTAZZI,E.MUNIZ

ESPADA (a cura di) Le indicazioni di qualità …, cit., p. 36 ss.; J.M.CORTÉS MARTIN, The World

Trade Organization and the negotiations …, cit.

102 Si tratta dello studio realizzato da Insight Consulting, Origin e Red, denominato “Study on geographical indications protection for non-agricultural products in the internal market”, Final report, 18 febbraio 2013, disponibile on line all’indirizzo http://ec.europa.eu/DocsRoom/documents/

14897 (ultima consultazione 3 luglio 2017).

lere di una normativa già armonizzata a livello europeo ben conosciuta dagli

stakeholders. Tuttavia l’analisi ha evidenziato l’esistenza di un ridotto numero di

registrazioni dei toponimi attraverso i marchi collettivi, fattore riconducibile alla modestia dei benefici (in termini di effettiva protezione) che da questo possono derivare: com’è noto, infatti, i marchi collettivi non consentono una estesa priva- tiva sul toponimo a vantaggio dei soggetti che aderiscano al relativo regolamento d’uso, sicché la costruzione di valore aggiunto attraverso questo strumento giu- ridico appare difficilmente realizzabile e comunque dai benefici pratici modesti. A fronte di ciò, peraltro, gli utilizzatori del marchio collettivo devono soste- nere il costo della relativa amministrazione (inclusi i controlli), circostanza che rende decisamente poco appetibile questa opzione 104.

Infine l’analisi condotta ha censito 14 sistemi “sui generis” di riconoscimento e tutela dei nomi geografici in questione, articolati fra normative di carattere ge- nerale affini a quelle esaminate a livello UE per i prodotti agroalimentari, disci- pline regionali e nazionali di valorizzazione delle produzioni di determinate ti- pologie di imprese (e.g. “prodotti artigianali”), ovvero dedicate a specifici pro- dotti di rilevante notorietà.

Le norme costruite attorno alle metodiche produttive non risultano, di rego- la, idonee ad offrire adeguata protezione ai nomi geografici.

Le loro finalità sono prevalentemente concentrate sullo sviluppo economico dei comparti interessati, sicché non portano contributi rilevanti nella direzione della lotta alle pratiche commerciali anticoncorrenziali con riferimento ai topo- nimi: esse si risolvono, tendenzialmente, in disposizioni-ricetta, in cui viene for- nito un disciplinare che dovrebbe rispecchiare la composizione e la procedura di realizzazione ritenuta “autentica” 105.

La tutela dei toponimi associati a questi prodotti deve, quindi, normalmente seguire altre strade, essenzialmente quelle della proprietà industriale con gli svan- taggi già evidenziati in precedenza.

Infine, anche laddove siano state create disposizioni di carattere generale fi- nalizzate a riconoscere e proteggere denominazioni geografiche riferibili a cate- gorie merceologiche eterogenee, queste comunque scontano la difficoltà di rac- cordo fra i diversi ordinamenti degli Stati esaminati, per via dell’incertezza sulla natura giuridica dei titoli ad esse associati, della divergenza delle definizioni di “indicazione geografica” e degli strumenti di tutela previsti.

Lo studio si conclude, quindi, con l’auspicio di una armonizzazione della ma- teria, che segua l’esempio già collaudato nel settore alimentare, ossia: la creazio- ne di un unico regime giuridico nell’Unione europea, con procedure chiare che

104 Cfr. lo studio, cit., p. 12.

105 Si pensi alle disposizioni relative a prodotti quali le stoffe “Bordado de Madeira”, la cui au- tenticità è garantita attraverso un marchio certificativo registrato dall’Istituto del Vino, del Borda- do e dell’Artigianato de Madeira, ovvero ai coltelli di Solingen in Germania, realizzati già nel 1300 e tutt’oggi caratterizzati dalla artigianalità del metodo produttivo certificato a livello internaziona- le dal marchio “Blade Town – Klingenstadt”.

si fondino su di un sistema centralizzato di registrazione ed il coinvolgimento degli stakeholders sin dalla fase d’impulso della registrazione del toponimo, as- sociato ad un sistema di certificazione di parte terza accreditato, ed infine, ov- viamente, una serie di norme che concedano una privativa ampia alle denomina- zioni in questione.

Ovviamente la definizione di “paletti” europei impatterebbe sulle attività eco- nomiche già esistenti, creando vincoli ed oneri nuovi.

Tuttavia l’opzione viene letta, ancora una volta, come opportunità di creare anche al di fuori del settore “food” una politica di qualità tesa al miglioramento competitivo dell’industria europea, mettendo a fattor comune la visibilità data dalla omogeneità dei simboli associati ai prodotti registrati, le risorse stanziabili dall’Unione per campagne promozionali altrimenti non finanziabili con fondi pubblici (in quanto potenzialmente aiuti di Stato) e l’allargamento della tutela a tutti gli Stati membri.

Le sollecitazioni così formulate hanno successivamente spinto la Commis- sione europea a pubblicare nel 2014 un Libro Verde 106 finalizzato a consentire

l’espressione delle opinioni degli operatori e degli esperti sulle valutazioni dello studio, che ha, inoltre, indotto il Comitato economico e sociale 107 ed il Parla-

mento europeo 108 ad adottare propri pareri in merito.

Complessivamente il quadro emerso dall’attività consultiva descritta (che non ha ancora portato all’adozione di una proposta specifica di atto legislativo in materia) tratteggia uno scenario in chiaroscuro.

Nel Libro Verde la Commissione compie un significativo passo in avanti nel riconoscere definitivamente e senza più ambiguità la valenza “culturale” dell’o- rigine di determinati prodotti nonché la stretta interdipendenza fra la localizza- zione delle filiere produttive e la sopravvivenza di alcune strutture sociali che storicamente hanno contribuito a formare la cultura europea.

Questi elementi vengono, inoltre, collegati in modo esplicito alle aspettative dei consumatori, sempre più desiderosi di compiere scelte di qualità ed attenti alle ricadute non solo economiche del proprio ruolo sul mercato.

Così, a titolo esemplificativo, nell’introduzione si legge che l’Unione europea è ricca di prodotti «basati su conoscenze e metodi di produzione tradizionali, 106 Cfr. il Libro Verde “Sfruttare al meglio il know-how tradizionale dell’Europa: una possibile estensione della protezione delle indicazioni geografiche dell’Unione europea ai prodotti non agri- coli”, COM (2014) 469 def., del 15 luglio 2014, disponibile on line sul sito web eur-lex.eu.

107 Cfr. il parere del Comitato economico e sociale europeo in merito al Libro Verde – sfrutta- re al meglio il know-how tradizionale dell’Europa: una possibile estensione della protezione delle indicazioni geografiche dell’Unione europea ai prodotti non agricoli, COM (2014) 469 final, INT/760 del 18 febbraio 2015, in GUUE, C 251 del 31 luglio 2015, p. 39.

108 Cfr. la relazione sulla possibile estensione della protezione delle indicazioni geografiche dell’Unione europea ai prodotti non agricoli, 2015/2053 (INI) del 22 settembre 2015, disponibile sul sito del Parlamento europeo all’indirizzo internet http://www.europarl.europa.eu/sides/get

Doc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A8-2015-0259+0+DOC+XML+V0//IT (ultima consul-

che spesso affondano le radici nel patrimonio sociale e culturale di particolari località geografiche, ad esempio il Cesky Kristal (Cristallo di Boemia), i tartan scozzesi, il Marmo di Carrara o la Meissner Porzellan (porcellana di Meissen). Tutti questi prodotti fanno parte delle conoscenze e delle competenze tradizionali del- l’Europa; come tali sono importanti per il suo patrimonio culturale e contribui- scono all’economia culturale e creativa (…)» 109.

Nel par. 2.4, significativamente titolato “preservare e valorizzare le tradizioni e il know how europei nonché la diversità delle espressioni culturali e del patri- monio culturale dell’Europa”, si dà atto che le indicazioni geografiche «tengono vivo il prezioso savoir-faire tradizionale e si tramandano di generazione in gene- razione. I loro metodi di produzione e le attività associate rappresentano ele- menti in cui la società locale si riconosce e che sono stati costruiti nel corso del tempo (…) contribuiscono pertanto a costruire il capitale sociale di una regione. In ultima analisi, se i prodotti a IG dovessero scomparire per mancanza di pro- tezione adeguata, potrebbe essere danneggiato un importante elemento del pa- trimonio storico, culturale e sociale d’Europa» 110.

Analogamente il Parlamento europeo ha ricordato come determinati prodot- ti costituiscano «parte integrante della nostra identità ed un elemento importan- te del patrimonio culturale degli Stati membri, sottolineando come una delle prin- cipali sfide dell’economia europea contemporanea sia costituita proprio dalla graduale estinzione delle competenze e dei mestieri tradizionali, sicché l’aumen- to della tutela delle indicazioni geografiche potrebbe costituire uno strumento fondamentale vuoi per salvaguardare il patrimonio culturale e il know-how tra- dizionale, vuoi per consentire ai consumatori di operare scelte consapevoli al mo- mento dell’acquisto dei beni che tengano conto di tutti questi elementi» 111.

L’esplicito riconoscimento della specificità culturale costituisce indubbiamente un passaggio importante per il “Made in”: la condivisa affermazione per cui l’o- rigine può contribuire a combattere gli effetti banalizzanti ed ablativi delle diffe- renze insiti nella inevitabile apertura dei mercati è, infatti, un presupposto logi- co e giuridico imprescindibile per una rilettura della intera materia in una di- mensione economia e sociale radicalmente mutata rispetto agli esordi dell’inte- grazione europea.

La correlazione di questi elementi con la necessità di preservare il know-how produttivo, i saperi artigianali e, più in generale, un intero tessuto sociale, econo- mico ed imprenditoriale minacciato dalla desertificazione imposta dal modello di sviluppo delocalizzato, quali fattori essenziali per il mantenimento di un tratto iden- titario autonomo, diviene, così, la logica conseguenza di questa riflessione, nonché la presa d’atto di una volontà popolare sempre più diffusa ed avvertita 112.

109 Cfr. il Libro Verde, cit., p. 4.

110 Cfr. il Libro Verde, cit., par. 2.4, p. 11.

111 Cfr. il documento di seduta del 22 settembre 2015, cit., pp. 4-5.

Resta il fatto che la riflessione ha sposato, anche in questo caso, una lettura esclusivamente “europea” del tema, analizzando la questione solo dal punto di vista delle singole specificità “regionali” che per ragioni storiche od ambientali godano di caratteristiche uniche ed irripetibili in altre località (al punto da espor- le al rischio di vere e proprie forme di “contraffazione”).

Il ragionamento andrebbe, invece, articolato in modo più ampio, prendendo in considerazione le “vocazioni produttive” degli Stati membri che contribui- scono alla costruzione della identità sociale non meno delle specificità territoria- li, e, peraltro, contribuiscono a mantenere anche queste ultime “vive”.

Andrebbe, in altre parole, ripensato il contributo delle capacità manifatturie- re nazionali in nome di una competitività basata non sulla mera suddivisione del lavoro come standard comune e l’isolamento sporadico di eccellenze come fatto- ri eccezionali, ma sulla valorizzazione della specificità delle vocazioni nazionali anche laddove possano essere identificate come fattore comune all’economia di un intero Stato membro.

Il ricorso a strumenti affini alla proprietà industriale e commerciale (ed in special modo ai sistemi di registrazione centralizzati dei nomi geografici dei pro- dotti tipici) rischia inoltre di fare un doppio danno: da un lato irrigidisce le co- dizioni di tutela, gravando i toponimi “minori” che non temono la contraffazio- ne internazionale di oneri eccessivi laddove una legislazione nazionale ben coor- dinata potrebbe garantire strumenti agili e poco costosi per mantenere queste tradizioni “vitali” sul territorio e contribuire, attraverso la loro semplice comu- nicazione, ad alimentare il turismo e le altre forme di economia collaterali.

Dall’altra crea il presupposto per una sorta di “annacquamento” generale del valore dei toponimi stessi, moltiplicando la tutela di nomi geografici privi di rea- li esigenze in tal senso, danneggiando la visibilità e la notorietà di quelli di mag- gior pregio e valore.

L’attuale fase di costruzione normativa della politica europea della qualità ri- sulta, così, connotata da elementi positivi e retaggi di orientamenti giuridici an- cora da superare.

La questione dell’origine è ormai riconosciuta come un fattore identitario e culturale, ossia l’espressione di una serie di diritti fondamentali dell’individuo e della collettività.

Ciò dovrebbe portare ad una maggiore sensibilizzazione per la tutela del c.d. “savoir-faire”, ossia l’estensione del discorso anche a quelle produzioni che esprima- no i caratteri di originalità e specificità dei popoli europei senza dipendere necessa- riamente da condizionamenti eccessivamente localistici o singolari vicende storiche.

2008 già evidenziava come il 26% dei consumatori avessero dichiarato di essere interessati al pae- se di origine dei prodotti non alimentari (privi di indicazioni geografiche), ritenuto, per ordine di importanza, il 4° fattore preso in considerazione al momento dell’acquisto dopo il prezzo, la sicu- rezza e la marca (cfr. la nota 18 a p. 10 del Libro Verde, cit.). Poiché la tendenza in questa direzio- ne negli ultimi 10 anni è in costante crescita, è facile immaginare l’attuale livello di attenzione a questo elemento.

La sartoria italiana, la precisione tedesca, il gusto francese, le tradizioni orafe belghe, ecc. sono saperi potenzialmente delocalizzabili, ma il consumatore desi-

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