• Non ci sono risultati.

La tutela del “Made in” nella normativa italiana: adattamento alle nor me dell’Unione sulla lotta alle pratiche commerciali sleali o ostacolo tec-

commerciali sleal

12. La tutela del “Made in” nella normativa italiana: adattamento alle nor me dell’Unione sulla lotta alle pratiche commerciali sleali o ostacolo tec-

nico alla libera circolazione delle merci?

La conflittualità e l’incertezza circa i margini di tutela del consumatore ri- spetto alle esigenze economiche degli operatori del mercato (ivi inclusa la libera circolazione delle merci) si riscontrano anche nella complessa – e, per certi aspetti, “tormentata” – vicenda della normativa italiana dedicata esplicitamente alla tutela del c.d. “Made in Italy”.

L’insuccesso dei tentativi di imporre nell’agenda europea il tema ha infatti spinto il legislatore nazionale nell’ultimo decennio ad affrontare la questione con disposizioni di carattere sanzionatorio (prevalentemente penali) finalizzate a reprimere gli abusi nella comunicazione sottesi ad attribuire un certo grado di “italianità” ai prodotti immessi sul mercato.

Come si avrà modo di illustrare, le norme in oggetto assumono notevole rile- vanza anche dal punto di vista del diritto dell’Unione europea: la loro natura prettamente “sanzionatoria” rende, infatti, sottile il confine fra semplici forme di esecuzione/adattamento alle disposizioni dell’Unione sulla trasparenza nei rapporti commerciali B2C e vere e proprie misure di effetto equivalente alle re- strizioni quantitative (per l’effetto “sostanziale” indotto dalla minaccia dell’azio- ne repressiva in materia e dalla sua concreta attuazione nella giurisprudenza na- zionale), sicché il tema merita sicuramente una riflessione a sé stante nell’ottica dell’analisi che si sta compiendo.

La “vicenda” della tutela del “Made in Italy” nei termini descritti inizia con l’approvazione della l. n. 350/2003 (c.d. “finanziaria 2004”) 216 il cui art. 4, com-

ma 49, interviene nel quadro delle disposizioni penali a tutela dell’economia e del mercato per espandere la copertura delle sanzioni previste dall’art. 517 c.p. 217, la

cui interpretazione giurisprudenziale pressoché unanime fino ad allora ne limitava l’applicazione ai casi di commercializzazione di prodotti recanti segni falsi o fallaci rispetto alla c.d. “origine imprenditoriale” (i c.d. “falsi d’autore”, o prodotti recanti marchi, attestazioni e diciture relative a determinate imprese note sul mercato), escludendo ogni possibile rilevanza – fuor dei casi delle c.d. DOP o IGP – della c.d. “origine geografica” dei prodotti.

Una simile prospettiva (certamente condizionata da un mondo in cui la glo- 216 Cfr. la l. 24 dicembre 2003, n. 350, disposizioni per la formulazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, in GURI, n. 299 del 27 dicembre 2003, S.O. n. 196.

217 L’art. 517 del codice penale italiano stabilisce che «chiunque pone in vendita o mette altri- menti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali od esteri, atti ad indurre in inganno il compratore sull’origine, la provenienza o la quali- tà dell’opera o del prodotto è punito (…) con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a ventimila euro». Al fine di rafforzare la tutela dei prodotti DOP-IGP il legislatore italiano è inter- venuto a più riprese negli ultimi anni introducendo ulteriori disposizioni ad hoc, quali gli artt. 517-

balizzazione non era ancora percepita come una “minaccia sociale”, ma, al limi- te, come il rischio di speculazione ai danni delle “griffes” più famose) poggiava, quindi, su di una lettura aperta e dinamica del mercato, in cui il trasferimento all’estero della produzione (c.d. “delocalizzazione”) o il suo affidamento a sog- getti terzi “subfornitori” non poteva assumere alcuna rilevanza nelle dinamiche di cernita del consumatore, visto esclusivamente come soggetto desideroso di as- sicurarsi una certa quantità di beni autentici (nel senso imprenditoriale del ter- mine) al minor prezzo possibile.

Di conseguenza, la Corte di Cassazione aveva giudicato in innumerevoli casi (dalla produzione di autoveicoli alle porcellane, dai prodotti tessili alla semplice utensileria) immeritevole di punizione la mancanza di trasparenza comunicativa circa la strutturazione “a monte” della filiera e la sua geolocalizzazione, tenuto conto che «non può negarsi che l’imprenditore, nel campo dell’attività industriale, possa affidare a terzi sub-fornitori l’incarico di produrre materialmente, secondo caratteristiche qualitative pattuite con l’esecutore, un determinato bene, e che pos- sa imprimervi il proprio marchio con i suoi segni distintivi e quindi lanciarlo in commercio. Ciò è ammesso in quanto la garanzia che la legge ha inteso assicurare al consumatore riguarda l’origine e la provenienza del prodotto non già da un de- terminato luogo (ad eccezione delle ipotesi espressamente previste dalla legge), bensì da un determinato produttore, e, cioè da un imprenditore che ha la respon- sabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione (…)» 218.

È, dunque, proprio su questa lettura della realtà che la norma in commento cerca di intervenire.

Attraverso l’art. 4, comma 49 ss., la l. n. 350/2003 219 ha, infatti, introdotto

una articolata disciplina volta a reprimere non solo la falsa vanteria di “italiani- tà” del prodotto, ma anche ogni eventuale pratica commerciale volta ad attribui- re anche solo intuitivamente alla merce caratteristiche territoriali nazionali (c.d. fenomeno del “sounding”) sì da sviare o quantomeno influenzare il consumatore nella sua libertà di scelta.

La disciplina attualmente vigente è, in realtà, la risultante di una complessa stratificazione di interventi additivi e correttivi 220, in parte provocati da una ini-

218 Cfr. Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 214438/1999.

219 Cfr. la l. 24 dicembre 2003, n. 350, cit., il cui art. 4, comma 49 ha introdotto le sanzioni per la falsa o fallace indicazione dell’origine “italiana” di merci in realtà realizzate all’estero. Per un elenco completo delle varie disposizioni succedutesi nel tempo si veda il sito internet www.itpi.it/

normativa_made.php.

220 Gli interventi correttivi sono iniziati con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, (in GURI, n. 62 del 16 marzo 2005), convertito con modificazioni dalla l. 14 maggio 2005, n. 80 (in GURI, n. 111 del 14 maggio 2005, S.O. n. 91) che ha introdotto, accanto all’indicazione della “provenienza”, anche quella della “origine”; la l. 27 dicembre 2006, n. 296, disposizioni per la formazione del bi- lancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007, in GURI, n. 299 del 27 dicembre 2006, S.O. n. 244) il cui comma 941 (sic!) ha incluso nella sanzionabilità ai sensi dell’art. 517 c.p. l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali; la l. 23 luglio 2009, art. 17, comma 4, lett. a) (succes-

ziale “resistenza” della giurisprudenza a riconoscere nella disciplina in questione carattere realmente innovativo dal punto di vista sostanziale.

Nella sua prima formulazione, infatti, la disciplina in esame, si limitava a re- primere le false o fallaci indicazioni di “provenienza” dei prodotti, sì che le pri- me sentenze della Corte di Cassazione in materia l’avevano interpretata come semplice volontà di anticipare la tutela (al momento della presentazione in do- gana della merce) anziché come modifica della portata oggettiva della fattispecie (da tutela dell’impresa e del marchio a tutela dell’origine geografica) 221.

A seguito degli accennati “aggiustamenti” il testo attualmente vigente preve- de una disciplina assai diversa e decisamente più complessa.

La norma in questione, stabilisce infatti oggi che «l’importazione e l’esporta- zione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commis- sione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sivamente abrogato dopo appena due mesi dalla sua approvazione dal d.l. 25 settembre 2009 n. 135, art. 16, comma 8, convertito in l. 20 novembre 2009, n. 166 (in GURI, n. 274 del 24 novem- bre 2009, S.O. n. 215), che, a sua volta, ha inserito nella l. 350/2003, art. 4, il comma 49-bis depe- nalizzando l’uso “fallace” del marchio ed il comma 49-ter, relativo alla confisca dei beni oggetto del procedimento sanzionatorio. Infine il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, recante “misure urgenti per la crescita del Paese”, ha ulteriormente aggiunto il comma 49-quater, con il quale è stata ripristinata la valenza “penale” dell’uso fallace del marchio nel solo settore degli oli extravergini di oliva. Non v’è chi non veda, in questa convulsa e confusa successione di disposizioni – fra loro anche con- traddittorie – l’affanno del legislatore italiano nel cercare un equilibrio fra le diverse spinte e pres- sioni generate dal tema in discussione.

221 Le pronunce in questione sono numerose e non è il caso in questa sede di riepilogarle tutte. Sia consentito fare riferimento puramente esemplificativo alla sentenza n. 3352/2005 del 21 otto- bre 2004, Fro, in cui si legge che «se si tiene conto delle espressioni usate e della struttura e della collocazione della nuova disposizione, appare che la intenzione del legislatore non sia stata affatto quella di incidere in tal modo sulla disciplina del marchio o, comunque, di modificare così pro- fondamente il significato che i termini origine e provenienza del prodotto hanno nell’articolo 517 c.p. e nelle altre disposizioni penali che ad essi fanno riferimento, bensì sia stata più semplicemen- te quella di risolvere il contrasto giurisprudenziale sul momento consumativo del reato (…) stabi- lendo che esso si perfeziona sin dal momento della presentazione dei prodotti e delle merci in do- gana per l’immissione in consumo o in libera pratica, nonché quella di promuovere, anche attra- verso la creazione di un apposito Ente (co. 61) l’istituzione e la tutela del marchio “made in Ita-

ly”». Conforme in tal senso anche la sentenza della Suprema Corte, sez. III penale, 17 febbraio

2005, Legea, nella cui massima si legge che «l’articolo 4 co. 49 della l. n. 350 del 2003 ha creato una nuova fattispecie di reato che, previo rinvio quoad poenam all’art. 517 c.p., punisce la com- mercializzazione di prodotti industriali e agricoli con indicazioni di origine e di provenienza falsi o fallaci, con l’intento di tutelare sia l’ordine economico che la fede pubblica: per origine del pro- dotto industriale deve intendersi quella imprenditoriale, mentre per origine del prodotto alimen- tare quella geografica o territoriale. Di tallché la fabbricazione di un prodotto industriale all’este- ro, per avere l’imprenditore scelto di “delocalizzare” il processo produttivo, e la sua reimporta- zione con l’indicazione del nome del produttore e la dicitura “Italy” non viola la norma, in quanto non è falsa o fallace l’identità del produttore, che resta immutata anche se la fabbricazione è avve- nuta fuori dal territorio nazionale».

sensi della normativa europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di mar- chi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fat- to salvo quanto previsto dal comma 49-bis, ovvero l’uso di marchi di aziende ita- liane su prodotti o merci non originari dell’Italia ai sensi della normativa euro- pea sull’origine senza l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro Paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera».

Il comma 49-bis, aggiunto successivamente, stabilisce che «costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con moda- lità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di ori- gine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consuma- tore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da at- testazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le in- formazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla ef- fettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore è punito con la sanzio- ne amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000».

L’insistenza del legislatore, resa manifesta dalla specificazione del termine “ori- gine” accanto a “provenienza” e dal sempre più esplicito riferimento alla localiz- zazione geografica della filiera nella definizione dei c.d. “riferimenti fallaci” al- l’origine, ha, quindi, da ultimo convinto anche la Corte di Cassazione a prende- re atto dell’ormai chiara volontà di assoggettare anche i riferimenti geografici a possibile sanzione penale laddove potenzialmente decettivi in merito all’effettiva origine “territoriale” del prodotto.

Quest’ultima deve essere intesa come “luogo dell’ultima lavorazione sostan- ziale”, visto il rinvio “in bianco” alle norme europee in materia 222, salvo il singo-

lare accanimento nel settore alimentare, per il quale è stata fornita ancora una volta una nozione di origine “autonoma” su cui, come si è chiarito in preceden- za, la Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione.

Facendo, dunque, il “punto” sulla situazione, la recente sentenza della Corte di Cassazione 6 novembre 2014, n. 52029 223 ha riepilogato come segue le ipotesi san-

zionabili: 1° stampigliatura della dicitura “Made in Italy” su merci la cui ultima tra- 222 Sono fatte salve, ovviamente, disposizioni particolari dell’Unione europea che dispongano diversamente.

sformazione sostanziale sia avvenuta all’estero, punibile come reato ai sensi dell’art. 4, comma 49, l. n. 350/2003 con rinvio quoad poenam all’art. 517 del codice penale; 2° utilizzo in etichetta di claims, diciture o affermazioni quali “100% Italy” o “full

made in Italy” per contrassegnare prodotti non interamente disegnati, progettati,

lavorati e confezionati in Italia (punibile come reato ai sensi del d.l. n. 135/2009, art. 16, commi 4 e 517 del codice penale); 3° utilizzo di “segni, figure e quant’altro” possa indurre il consumatore in errore circa l’origine o la provenienza estera della merce, anche qualora la vera origine sia comunque indicata, ipotesi punibile pe- nalmente come “fallace indicazione di origine” ex art. 4, commi 49, l. n. 350/2003 e 517 c.p.; 4° uso ingannevole del marchio aziendale da parte dell’imprenditore ti- tolare o licenziatario, in modo da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, punibile con una sanzione amministrativa a meno che i prodotti importati o esportati non siano ac- compagnati da una indicazione evidente sull’esatta origine geografica o sulla loro provenienza estera, ovvero il titolare del marchio o il suo licenziatario si impegnino ad apporre tali indicazioni in fase di commercializzazione.

A fronte del quadro così descritto la stessa Corte di Cassazione si è posta de- gli interrogativi circa la compatibilità della normativa in oggetto con la discipli- na sulla libera circolazione delle merci, l’etichettatura dei prodotti ed i marchi.

Nella sentenza n. 37818/2010 224, infatti, il Supremo Collegio ha avvertito il

pericolo derivante dalla necessità di integrare le informazioni in etichetta previ- ste come obbligatorie dalla disciplina dell’Unione (imposta per via di fatto dal concetto stesso di “fallace indicazione di origine”, onde scongiurare il rischio di confusione del consumatore), ed aveva concluso per la necessità di escludere un simile obbligo per l’imprenditore onde «dare alle disposizioni stesse una inter- pretazione adeguatrice, che non rischi di porle in contrasto con i principi del- l’Unione europea e con quelli costituzionali» 225.

Secondo la Corte, infatti, «un obbligo del genere potrebbe avere l’effetto di scoraggiare i rapporti tra imprese situate in Stati membri diversi, potendo indur- re l’impresa che deve far realizzare da altri i propri prodotti apponendovi il suo marchio, a rivolgersi all’industria nazionale invece che ad imprese situate in altri Stati membri. Del resto, proprio in applicazione di tali principi, gli organi del- l’Unione europea e la Corte di giustizia si sono più volte espressi con disfavore in ordine alla marcatura di origine dei prodotti» 226.

Le preoccupazioni della Cassazione, allora fugate attraverso l’esclusione di un simile effetto impositivo de facto, si ripresentano oggi per via dell’ultima no-

224 Cfr. la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, Sez. III, 23 settembre 2010, n. 37818,

D.B.S.

225 Così la sentenza n. 37818/2010, richiamando la precedente sentenza della Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar.

226 Cfr. la sentenza D.B.S., cit., ove, peraltro, il giudice di legittimità si è pronunciato anche sul rischio di discriminazione alla rovescia ex artt. 3 e 41 Cost. laddove un simile obbligo non gravasse anche sugli imprenditori stranieri.

vella normativa in materia, che, come accennato in precedenza, ha esplicitamen- te incluso nel testo del comma 49-bis l’obbligo, in caso di uso di marchi italiani o che richiamino l’Italia, di inserire una «indicazione precisa, in caratteri evidenti, del Paese o del luogo di fabbricazione o produzione o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla effettiva origine estera» del prodotto finito 227.

Orbene, è noto da tempo che l’applicazione e l’effettività del diritto dell’U- nione europea (ivi incluse le norme sulla libera circolazione delle merci) posso- no essere pregiudicate anche solo dalla mera esistenza di sanzioni penali che pro- ducano a livello nazionale effetti dissuasivi negli scambi commerciali sul merca- to interno, o forzino l’interpretazione delle norme sostanziali in modo da ostare al pieno ed incondizionato effetto delle norme dell’Unione europea.

Com’è stato felicemente osservato, «molte questioni sollevate in via pregiudi- ziale dinanzi alla Corte di giustizia, rivelatesi decisive per lo sviluppo del mercato unico, sono scaturite proprio dal contrasto fra le norme CE sulle libertà di circo- lazione e disposizioni penali nazionali» 228: per quanto qui più strettamente inte-

ressa basti pensare che il caso Dassonville 229, su cui è stata costruita buona parte

della giurisprudenza sul mercato unico, riguardava proprio un procedimento pe- nale a carico di due imprenditori accusati di aver esportato dalla Francia del Whi-

sky scozzese senza idonee certificazioni ed attestazioni sull’origine della merce!

Sicché, come appare pacifico, il primato del diritto dell’Unione non può es- sere messo in discussione dalla applicazione di norme penali nazionali 230 (a pre-

227 Cfr. l’art. 4, comma 49-bis, l. 350/2003, come modificato dalla l. 166/2009 di conversione del d.l. 135/2009, su cui si vedano la circolare del Ministero dello Sviluppo Economico 9 novem- bre 2009, n. 124898, «Circolare esplicativa sull’articolo 4 co. 49-bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350, come introdotto dall’articolo 16 del decreto legge 25 settembre 2009, n. 135», nonché del- l’Agenzia delle Dogane 30 novembre 2009, n. 155971, «Circolare esplicativa del Ministero dello Sviluppo Economico prot. n. 124898 del 9/11/2009 sull’art. 4 comma 49-bis della l. 24 dicembre 2003, n. 350, come introdotto dall’art. 16 del decreto legge 25 settembre 2009, n. 135. Diramazio- ne e ulteriori istruzioni», entrambe reperibili on line.

228 Cfr. S.MONTALDO, I limiti della cooperazione in materia penale nell’Unione europea, Napo- li, Editoriale Scientifica, 2015, spec. nota 72, p. 29.

229 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia CEE 11 luglio 1974, causa 8/74, Dassonville, in

Racc., p. 874 ss.

230 La capacità di interferenza delle norme penali nazionali con il diritto dell’Unione europea è stata evidenziata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in varie occasioni e sotto diversi profili. In primo luogo, con una notevole quantità di pronunce, la Corte ha sottolineato la capacità delle norme penali di ostacolare l’esercizio delle libertà fondamentali sancite dal Trattato anche solo sotto forma “dissuasiva” (cfr., ex plurimis, le sentenze 21 marzo 1972, causa 82/71, SAIL, in Racc., p. 119 ss.; 28 marzo 1979, causa 179/78, Rivoira, in Racc., p. 1147 ss.; 11 novembre 1981, causa 203/80,

Casati, in Racc., p. 2595 ss.; 2 febbraio 1989, causa 186/87 Cowan, cit.; 23 novembre 1992, cause riu-

nite C-267/91 e 268/91, Keck e Mithouard, in Racc. p. I-6097 ss.; 20 giugno 2002, cause riunite C- 388/00 e C-429/00, Radiosistemi, in Racc., p. I-5845 ss.). La Corte ha, inoltre, evidenziato l’influenza della natura della fonte che nell’ordinamento interno prevede la sanzione penale, ed, in particolare, la possibilità che l’effetto deterrente derivi dalla incompatibilità con il diritto dell’Unione di norme sostanziali cui le disposizioni penali assicurano coercibilità (cfr., ex plurimis, la sentenza della Corte di giustizia UE 6 marzo 2007, cause riunite C-338/04; C-359/04; C-360/04, Placanica et al., in Racc.,

scindere dal fatto che siano riconducibili ad una riserva costituzionale di legge) dovendosi tenere conto, come chiaramente affermato dalla Corte di giustizia 231,

«del fatto che una legislazione riguardante questa materia non può, in particola- re, limitare le libertà fondamentali garantite dal diritto dell’Unione» 232.

Orbene, nel caso della l. n. 350/2003 qui in esame, tralasciando la questione dell’inserimento di una nozione “autonoma” di origine già analizzata in preceden- za 233, la potenziale interferenza con la libera circolazione delle merci e, più in ge-

nerale, con l’integrazione economica, si palesa duplice: per un verso, sotto minac- cia di sanzione penale o amministrativa, si pone l’imprenditore nella difficile posi- zione di dover valutare – nel contesto di parametri normativi assai vaghi – quali elementi della presentazione del proprio prodotto realizzato all’estero potrebbero essere equivocati da un consumatore medio, generando un clima certamente sfa- vorevole alla apertura nei confronti della transnazionalizzazione delle filiere ed

Outline

Documenti correlati