Origine delle merci e comunicazione al consumatore
8. Segue Gli sviluppi più recenti: lo stato derivante dall’approccio giuri sprudenziale al tema del “Made in” (…)
Se quanto sopra può apparire comprensibile in quel contesto storico-giuridi- co, l’impostazione risulta oggi probabilmente eccessiva alla luce della profonda evoluzione economica, sociale, politica e “giuridica” dell’Unione, e finanche in relazione alla attuale “crisi” (che richiede, forse, un allentamento di alcuni vin- coli ed un maggiore “riconoscimento” delle diversità per scongiurare facili po- pulismi).
Eppure, anche nei casi più recenti, i criteri di bilanciamento giudiziale della fattispecie non paiono essere mutati.
Nel più volte richiamato caso UNIC concernente la disciplina italiana sulle cal- zature 112, la Corte ha ritenuto illegittimo l’obbligo imposto dalla normativa na-
zionale di stampigliare sugli elementi in cuoio l’origine della materia prima per le medesime ragioni già espresse nel 1985, ed ha addirittura aggiunto che la pre- clusione riguarda anche i prodotti provenienti dai Paesi terzi immessi sul merca- to nazionale per la vendita al dettaglio sul solo mercato nazionale.
Infatti ai sensi dell’art. 29 TFUE questi prodotti devono essere considerati “in libera pratica” non appena siano state adempiute le formalità di importazio- ne e riscossi i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente esigibili, con la con- seguenza che a partire da quel momento (ed a prescindere dalla destinazione fi- nale) essi sono a tutti gli effetti incorporati nel mercato interno (o, come si sa- rebbe detto in tempo risalente, “comunitarizzati”), con tutti i relativi benefici nor- mativi e giuridici relativi all’acquisizione dello status di merce equivalente a quella originaria dell’Unione europea 113.
112 Cfr. la già citata sentenza della Corte di giustizia 16 luglio 2015, causa C-95/14, UNIC. La Corte, in questo caso, era chiamata ad interpretare la natura esauriente della direttiva 94/11/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 marzo 1994 sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri concernenti l’etichettatura dei ma- teriali usati nelle principali componenti delle calzature destinate alla vendita al consumatore (in
GUCE, L 100 del 19 aprile 1994, p. 37 ss.), dichiarata “esaustiva” anche con riferimento agli ele-
menti dell’etichettatura dei prodotti non inclusi fra quelli obbligatori (come, ad esempio, l’origine delle pelli impiegate nella fabbricazione delle scarpe).
L’indicazione travolge, quindi, la specifica norma nazionale di settore, ma pone rilevanti problemi, più in generale, anche per quanto riguarda l’art. 6, par. 1, lett. c) del nostro Codice del Consumo 114, a norma del quale tutti i prodotti
provenienti da paesi terzi immessi sul mercato al dettaglio in Italia devono ri- portare nell’etichetta l’indicazione del Paese di origine se situato fuori dal- l’Unione europea.
La disposizione sembra incompatibile con i principi enunciati, e, d’altra parte, ciò appare coerente anche con il fatto che gli interventi regolatori nazio- nali di questo tipo impattano tanto sulla normativa doganale dell’Unione (di cui, in qualche misura, finiscono per diventare specificazione di “ammissibili- tà” sul piano tecnico), quanto, più in generale, su quella commerciale comune, che, per quanto descritta in forma estremamente riassuntiva dall’art. 207 TFUE, non può essere considerata né esauriente nei contenuti ivi elencati 115, né estra-
nea alla regolazione dei requisiti o degli standard di ammissibilità dei prodotti sul mercato interno, elemento che rileva sul piano internazionale (in particola- re nell’ambito WTO) e che porterebbe alla “frantumazione” del mercato UE lad- dove le “regole di ingresso” dipendessero dal luogo materiale di sdoganamen- to della merce.
D’altra parte risulta fin troppo evidente come la creazione di un “doppio re- gime giuridico” delle merci importate da paesi terzi (id est: quelle destinate al solo mercato del Paese di primo ingresso e quelle destinate a circolare su tutto il territorio dell’Unione) costringerebbe ad una segregazione “a monte” delle une lenti (cfr. la sentenza 15 dicembre 1976, causa 41/76, Suzanne Donckerwolcke, in Criel, e Henri
Schou c. Procureur de la République au tribunal de grande instance de Lille, in Racc., 1976, p. 01921
ss., punti 16-21, su cui si veda il commento di J.A.USHER, National Non-Tariff Restrictions at the Ex-
ternal Borders of the Community: Towards Community Control?, in Eur. Law Rev., 1977, p. 304 ss.).
114 Cfr. il d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della leg- ge 29 luglio 2003, n. 229, in GURI, n. 235 del 8 ottobre 2005, S.O. n. 162, il cui art. 6, par. 1, lett. c) contempla fra le indicazioni obbligatorie anche l’indicazione del paese di origine se si tratta di un paese extra-UE.
115 È noto che le fattispecie citate dall’attuale art. 207 TFUE non sono mai state considerate “tassative” dalla Corte di giustizia, dovendo semmai la politica commerciale comune garantire l’omo- geneità nel regime degli scambi con i Paesi terzi nel più generale rispetto degli accordi commercia- li internazionali cui l’Unione si è vincolata. In quest’ottica apparirebbe del tutto incoerente consenti- re ai singoli Stati membri di creare barriere tecniche all’ingresso delle merci provenienti da Paesi terzi sul solo presupposto che queste siano destinate al solo mercato nazionale, circostanza, peral- tro, verificabile solo “a valle” dell’importazione, posto che la piena disponibilità del prodotto presso l’imprenditore consente a quest’ultimo di deciderne la destinazione commerciale all’inter- no del mercato interno UE in qualsiasi momento. Sulla non esaustività delle materie elencate dal- l’art. 207 TFUE si veda il parere della Corte di giustizia UE 1/78 del 4 ottobre 1979, ove si legge che «una interpretazione restrittiva della nozione politica commerciale comune rischierebbe di provocare perturbazioni negli scambi intracomunitari a causa delle disparità che sussisterebbero in tal caso in determinati settori dei rapporti economici con i paesi terzi». Ovviamente l’imposta- zione qui richiamata non può coprire intenti fraudolenti, come le c.d. “importazioni fittizie”, fina- lizzate alla immediata reimportazione con scopi elusivi delle norme nazionali, come ben chiarito dalla Corte di giustizia nella sentenza 10 gennaio 1985, causa 229/83, Association des Centres di-
dalle altre, mentre il riconoscimento della libertà economica all’interno di un mer- cato realmente “interno” (o “unico”) non può che partire da una ampia discrezio- nalità imprenditoriale “a valle” dell’espletamento delle formalità doganali circa il luogo ove collocare i propri prodotti, ed il momento più opportuno per farlo 116.
Infine non può essere ignorato il fatto che una simile lettura della disciplina in oggetto finirebbe per innescare nuovamente quella “concorrenza doganale” (sul versante dei requisiti tecnici di ammissibilità) che, incentivando l’ingresso nei Paesi membri con requisiti meno “severi” 117, risulterebbe ovviamente “anti-
tetica” ai fondamenti dell’Unione e del mercato unico.
Sicché, tanto che la materia si possa considerare compiutamente regolamen- tata da una norma uniforme dell’Unione, quanto che, più in generale, si voglia salvaguardare lo status di merce in libera pratica e l’unitarietà del mercato sul versante “interno” ed “esterno”, evitando di interferire con le competenze esclu- sive dell’Unione in materia commerciale comune, il tema qui in discussione (ob- bligo di etichettatura di origine) dovrebbe essere considerato indisponibile per gli Stati membri tanto dal punto di vista “sostanziale”, quanto, ovviamente, sul piano “sanzionatorio” 118 ove preordinato ad indurre comportamenti differenti 119.