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LINGUA E NARRAZIONE.

4.2. Prospettive integrate.

4.2.1. Pensiero narrativo e metodo biografico in psicologia.

Il valore cognitivo della biografia e dell’autobiografia in particolare è del resto ampiamente noto e sfruttato dalla psicanalisi, che fonda gran parte della terapia sull’autonarrazione da parte del paziente degli eventi della propria vita. Compito dello psicoterapeuta è quello di aiutare il soggetto a decostruire e ricostruire la propria narrazione di sé; in questo processo di cura psichica molto spesso l’emergere di dettagli prima ignoti al paziente, che pur essendo presenti nella propria storia personale non erano disponibili alla coscienza, determina un mutamento di rotta nella propria biografia tale da risultare terapeutico. In pratica è proprio l’atto di modificare la propria storia personale alla luce di particolari nuovi, che prima non erano stati presi nella dovuta considerazione, che risulta curativo, in quanto risolve la sofferenza psichica dell’individuo. Monica Monaco conclude infatti il suo saggio sul metodo biografico con queste parole:

«Le strategie del metodo biografico descritte possono tornare utili tutte le volte che, riflettendo su un problema per cui si cerca una soluzione, si desideri sperimentare prospettive diverse esplorando nuove possibilità. L’utilizzo di un diario e la riscrittura autobiografica di uno stesso evento in diversi momenti e sforzandosi di assumere diverse prospettive si prestano per chi voglia fare un’esperienza individuale delle trasformazioni possibili con il metodo biografico e dei loro effetti. Pur trattandosi di un confronto limitato a se stessi e non guidato, la riscrittura di esperienze di vita importanti può rivelarsi una tecnica per migliorare o ristabilire il contatto con se stessi.» (Monaco 2007:5).

Il punto fondamentale della citazione risiede a nostro avviso nello sforzo che il soggetto deve compiere per assumere diverse prospettive (Monaco 2007:5) che chiarisce un altro elemento fondamentale della narrazione di sé: la capacità di prendere atto di una crisi e soprattutto la volontà e l’abilità di decentrarsi per cercare di risolverla. Poco sopra infatti la stessa autrice asserisce che:

«Separando la persona dal problema si ottiene velocemente grande sollievo in quanto un problema, concepito come una colpa o qualcosa che suscita vergogna, può essere riportato fuori dal soggetto in modo da ridurre la tensione e da allargare le possibilità di soluzione che spesso, per mancanza di un’adeguata distanza emotiva, non possono essere viste» (Monaco 2007:5).

La «distanza emotiva» di cui Monaco parla può essere paragonata a quella che si instaura quando il bambino ascolta la narrazione delle fiabe e che gli permette di identificarsi in un certo personaggio; tale distanza è resa possibile dal fatto che il bambino sa che si tratta di una storia che sta fuori da se stesso, anche se può appropriarsene, perché la presenza del narratore che legge il libro o racconta a memoria crea una sorta di medium, di filtro che si frappone fra ascoltatore e narrazione e rende possibile il necessario distanziamento. Se il bambino pensasse che quella narrata è la sua storia – e non la storia di qualcun altro in cui può però rintracciare elementi di contatto con il suo vissuto - si instaurerebbe un senso di angoscia che bloccherebbe qualsiasi tentativo di rielaborazione (Bettelheim 1977).

Questa capacità di decentrarsi dunque permette all’individuo di prendere in considerazione che la propria biografia, o una parte di essa, può essere esaminata da un altro punto di vista, può accogliere altri, nuovi punti di vista provenienti dal confronto con gli altri o con un’altra parte di sé. Questa idea ci sembra particolarmente feconda proprio per meglio inquadrare a questo punto il ruolo della negoziazione nel processo di narrazione e autonarrazione come definizione del proprio Sé e di quello altrui. E’ proprio la capacità di decentrarsi, di distaccarsi da se stessi, che consente di esercitare la necessaria apertura verso gli altri e verso una pluralità interpretativa che sta alla base della negoziazione. Negoziare il significato infatti, come ben sanno gli esperti di comunicazione interculturale (Balboni 1999), comporta prima di tutto l’assunzione che la propria percezione della realtà non sia l’unica possibile e in seconda battuta che si possa rinunciare a qualcosa di proprio per accogliere la prospettiva altrui, in uno scambio comunicativo che mira a ri-creare un significato al tempo stesso individuale e condiviso.

La costruzione del Sé – proprio e altrui – è dunque, per riassumere, un processo «metacognitivo» (Bruner 2008:8) in quanto riguarda il processo di conoscenza di sé e dell’esperienza individuale nel mondo che intenzionalmente si serve della narrazione che nasce nell’essere umano nel momento stesso in cui si formano i primi scambi comunicativi e che per essere veramente proficuo deve basarsi sul distanziamento e sulla negoziazione intese come atteggiamenti e strategie comunicative che favoriscono il dialogo e la definizione del significato. Nelle parole dello stesso Bruner:

« […] la costruzione di sé è una ricerca prevalentemente metacognitiva, come una sorta di riconsiderazione di un territorio familiare per inserirlo in una carta topografica più generale. […] In realtà […] la maggior parte delle volte non abbiamo bisogno dell’aiuto di professionisti: la maggior parte delle volte ci aiutiamo l’un l’altro attraverso il processo del dialogo.» (Bruner 2008:8).

Il caso della psicanalisi è ovviamente quello più noto; a ben guardare ci accorgiamo, sulla scorta delle indicazioni teoriche di Bruner, che la nostra vita è effettivamente pervasa dalla narrazione e che molto spesso la utilizziamo non solo per ricostruire e rendere conto di eventi personali, ma anche come base preparatoria

per costruire altre tipologie testuali, fra cui spicca l’argomentazione. In effetti Bruner distingue poi fra pensiero narrativo e logico-pragmatico, quest’ultimo sotteso alla produzione di testi argomentativi, ma l’importanza che attribuisce al pensiero narrativo è tale che in studi recenti ritiene che esso sia implicito anche nella produzione di testi argomentativi, fra cui un esempio evidente è l’arringa di un avvocato, il che chiarisce bene il senso di questa osservazione. Nelle fasi conclusive del dibattimento processuale, tutta la situazione comunicativa che culmina nell’orazione finale degli avvocati è certamente il testo argomentativo par excellence, ma si basa sulla ricostruzione narrativa dei fatti che hanno dato luogo al processo e che di per sé costituisce almeno due interpretazioni della realtà, in genere antitetiche (quella dell’accusa e quella della difesa): l’argomentazione dovrà dare il contributo definitivo verso l’una piuttosto che verso l’altra di queste visioni del mondo. Ognuna di queste posizioni è di per sé una lettura dei fatti, un’interpretazione dell’accaduto che scaturisce da una particolare prospettiva interpretativa. La narrazione è quindi un sistema di pensiero e si avvale della lingua per investigare una realtà multiforme e spesso contraddittoria, che costituisce un momento di crisi per l’individuo e per il gruppo sociale in cui è inserito. La narrazione è dunque spesso, per tutto quanto fin qui emerso, rivisitazione, reinterpretazione, revisione e risistematizzazione di una percezione in base a esperienze successive che gettano nuova luce su una particolare circostanza.

Dunque è grazie allo sviluppo del pensiero narrativo, per il quale la lingua svolge evidentemente un ruolo di prim’ordine, che l’uomo si interroga e indaga se stesso e il mondo intorno a sé in un continuo processo di definizione individuale e sociale. In sostanza la narrazione e l’autonarrazione permettono agli esseri umani di decostruire un certo contenuto esperienziale e ricostruirlo attraverso la lingua; in questo processo la percezione dell’evento viene scomposta e analizzata, capita e dotata di significato proprio per appropriarsene e farla entrare e pieno titolo nel bagaglio di vita del soggetto. Per questo motivo la narrazione, sempre secondo Bruner, è funzionale allo sviluppo del Sé. Si badi bene però che il processo di definizione del Sé non è mai definitivo e dato una volta per tutte: come ogni processo umano, qualora intervenga qualcosa a mettere in crisi una costruzione acquisita, il

processo si riapre, tanto che si può ritornare anche varie volte nella vita dell’individuo a riesaminare costrutti già sistematizzati.

Proprio su questo principio si basa, in ultima analisi, la pratica psicanalitica, che mira a far rivivere al paziente narrante gli episodi della propria vita su cui si innesta la sofferenza psichica. Nel processo terapeutico il paziente è invitato a riesaminare gli eventi salienti della propria esistenza assumendo un nuovo punto di vista grazie al quale potrà cambiare la propria narrazione e autonarrazione degli stessi, accedendo così ad una nuova visione della propria esperienza. Questa mutata prospettiva auspicabilmente consentirà una nuova comprensione del proprio vissuto in grado di risolvere il disagio interiore.

È anche chiaro, fra l’altro, che la necessità narrativa scatta particolarmente in condizioni di crisi dell’individuo, laddove un evento nuovo, o percepito come tale, determina una fragilità dell’Io, che si trova così estraneo a se stesso. In questi casi il narrare significa anche autonarrare in quanto nel processo di condivisione verbale dell’esperienza, il soggetto narrante spesso chiarisce anche a se stesso i termini e i contenuti del proprio vissuto. Anzi: proprio nell’interazione con l’ascoltatore, quest’ultimo raramente passivo, ma attivo interlocutore che chiederà chiarimenti o introdurrà le proprie idee e considerazioni nel dialogo narrativo, generalmente il narratore ha la possibilità di ampliare il proprio punto di vista sulla propria esperienza e penetrarla in maniera diversa, nuova. L’ascoltatore attento e partecipe funge da schermo per il narratore che su di esso proietta il proprio racconto e nel fare questo se ne distacca quel tanto che basta per riuscire a considerare gli eventi dalla giusta distanza emotiva. Ma l’ascoltatore in quanto metaforico schermo della narrazione, non è un medium né neutro né freddo; al contrario egli dimostra interesse e partecipazione emotiva per il soggetto narrante tramite le sue richieste di precisazioni, per esempio, e l’inserimento di commenti personali. D’altra parte l’esigenza di distanziamento da un lato e di partecipazione emotiva dall’altro, sono facilmente riscontrabili anche nel processo di narrazione delle fiabe ai bambini, che proprio attraverso il contatto con il «mondo incantato» (Battelheim 1977) delle fiabe riescono in genere a superare contenuti spaventosi della loro crescita psichica.

Dunque, parafrasando Bruner (2010), possiamo concludere che molto spesso non abbiamo bisogno di ricorrere ad esperti per compiere questo percorso narrativo

di definizione o ridefinizione del Sé: solitamente gli esseri umani si aiutano fra di loro e in questo processo, perché abbia il successo desiderato, agli interlocutori è richiesta la capacità di decentrarsi, di allontanarsi almeno in parte dagli accadimenti oggetto della narrazione, oltre a essere disponibili alla negoziazione dei significati emergenti nella narrazione. Senza questi due atteggiamenti, che in ambito sociolinguistico vengono definiti non a caso strategie comunicative, la narrazione rimane fine a se stessa.