• Non ci sono risultati.

Innanzitutto, è opportuna una nota di plau- so alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che invece di archiviare l’esperienza Habitat III ha lanciato una sorta di concorso interno di idee sul “che fare” in merito all’attuazio- ne della “Nuova Agenda Urbana” adottata a Quito.

Per ora, questo interrogativo è posto nei ter- mini del “che fare in Italia” in merito all’at- tuazione della NUA di Quito. Il compito è do- veroso, urgente e sommamente utile. Inoltre, esso è già espresso nei termini di un impegno da assolvere: non “una”, ma “la” Agenda Ur- bana Nazionale.

Ma c’è di più. La domanda da farci è quale sia il contributo che possiamo dare all’attuazio- ne universale della Nuova Agenda Urbana intesa come “iniziativa planetaria”, e non semplicemente come sommatoria di espe- rienze attuative a livello nazionale. La tesi di questa nota, con le brevi argomentazioni che seguiranno, è che il nostro paese potrebbe dare un contributo importante anche in que- sta direzione.

Già la Nuova Agenda Urbana di Quito va collocata all’interno di un’agenda mondiale per lo sviluppo1 approvata dall’assemblea

Generale dell’ONU solo qualche mese prima di Quito, intitolata Transforming Our World: the 2030 Agenda for Sustainable Development. E non a caso, uno degli “obiettivi di svilup- po sostenibile” della 2030 Agenda, e preci- samente il n.11, è proprio “Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resi- lienti e sostenibili”. A Quito è stato più volte rilevato come la Conferenza Habitat III fosse la prima Conferenza ONU a svolgersi dopo l’adozione dell’Agenda 2030, e come essa co- stituisse quindi un primo più circostanziato contributo alla realizzazione dell’Agenda stessa e dei suoi obiettivi per lo sviluppo so- stenibile.

Questa concatenazione di sviluppi normati- vi ci consente di sottolineare due aspetti. Il primo è che per la prima volta (cosa che non era accaduta se non in minima parte nel caso degli Obiettivi dello Sviluppo per il Mil- lennio” 2000-2015), gli insediamenti umani sono considerati un elemento insostituibile per il raggiungimento di uno sviluppo più

equo e responsabile in tutti i settori ed in tut- ti i paesi: lotta alla povertà, lotta alle ingiu- stizie, lotta alla discriminazione, e difesa del futuro ambientale del pianeta.

Il secondo aspetto è che questo obiettivo, sot- toscritto in primo luogo dagli stati naziona- li, impone non solo un’azione responsabile all’interno dei confini nazionali, ma anche un impegno “con” e “per” il resto del mondo. Il “con” può coincidere con le attività di coo- perazione internazionale allo sviluppo. Sap- piamo che queste attività nel nostro paese si sono paurosamente ristrette sotto il profilo quantitativo. E questo impone, oltre ad una sacrosanta battaglia per invertire questa ten- denza, il massimo rigore per assicurare la migliore qualità possibile ai nostri sforzi di cooperazione bilaterale e multilaterale nel settore degli insediamenti umani. Ciò impli- ca da una parte la ripresa di un programma di contributi mirati all’agenzia che si è sobbar- cata l’onere dell’organizzazione e della felice conclusione della Conferenza, UN-Habitat; e dall’altra, assicurarsi che i programmi e pro- getti di cooperazione godano dell’apporto di organizzazioni e istituti qualificati che da decenni operano per una corretta e responsa- bile attività in campo urbanistico, architetto- nico e di governance locale.

Uno di questi è l’Istituto Nazionale di Ur- banistica (INU), che ha avuto anche grazie all’appoggio ed alla cooperazione del Mini- stero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e della Presidenza del Consi- glio dei Ministri l’opportunità’ di svolgere un ruolo significativo nel processo di elabora- zione della Nuova Agenda Urbana approvata a Quito. Infatti l’INU, al pari di agenzie inter- nazionali come l’UNESCO e l’OCSE, è stato uno dei venti organismi in tutto il mondo, e l’unico italiano, ad essere scelto per elabora- re dieci documenti programmatici (policy pa- pers) destinati ad orientare la definizione del- la Nuova Agenda Urbana. Si ricorda questo non per autocompiacimento, ma per sottoli- neare che l’INU, proprio alla luce di questo riconoscimento e di questa esperienza, può e deve impegnarsi a dare un contributo sia all’azione nazionale che all’azione interna- zionale di supporto all’attuazione della Nuo- va Agenda Urbana nel contesto più ampio della 2030 Agenda. E per quanto riguarda l’a- zione nazionale si ricorda l’attività delle ven- ti sezioni regionali dell’INU impegnate nella ricerca e nell’attuazione della buona urbani-

stica in collaborazione con amministrazioni locali qualificate e competenti; l’elaborazio- ne di un “Progetto Paese” per rendere queste pratiche l’ossatura di una agenda nazionale per le città e per il territorio; l’elaborazione di nuove dimensioni normative per operare in sintonia con l’impegno dei cittadini, quali la “Carta dello Spazio Pubblico” e la “Carta della Partecipazione”; e lo svolgimento regolare di eventi di raccolta di esperienze e di iniziative di nuovo partenariato come l’”Urbanpromo” e la “Biennale dello Spazio Pubblico”.

Una delle occasioni offerte dal lavoro della policy unit è stata una felicissima collabora- zione con la Urban Planning Society of China, scelta dal direttorio intergovernativo di Ha- bitat III per unirsi all’INU nel lavoro di pre- parazione del policy paper assegnatoci. Da questa collaborazione è nata la nostra par- tecipazione ufficiale e due importanti con- ferenze internazionali svoltesi in Cina e la firma di un protocollo d’intesa. Questa colla- borazione si è estesa al Ministero per l’Abita- zione e lo Sviluppo Urbano e Rurale della Re- pubblica Popolare Cinese, che nel prossimo mese di aprile sarà accolto dall’INU in Italia per discutere esperienze comuni e buone pratiche in merito al programma LOCAL del- la Global Environmental Facility della Banca Mondiale (Low Carbon, Adaptive and Liveable Cities). Per preparare questa visita, ci siamo chiesti in primo luogo quale potrebbe essere un contributo italiano utile ed originale per un paese che ha ormai esperienze di urbaniz- zazione che non hanno uguali nella storia dell’umanità e che già dispone delle migliori tecnologie progettuali ed ecosostenibili svi- luppate fino ad oggi. E’ una domanda che si rivolge al tema di un nostro contributo inter- nazionale allo sviluppo urbano sostenibile, e per questo si ritiene utile richiamare alcune delle riflessioni in corso di elaborazione in merito alla visita della delegazione cinese.

Il paradosso cinese

Nel corso dei prossimi vent’anni, la Cina do- vrà urbanizzare spazi per 350 milioni di cit- tadini che si andranno ad aggiungere all’at- tuale popolazione urbana. Nel nostro paese, una sfida di questo genere, anche facendo le proporzioni del caso, avrebbe probabilmen- te portato a soprassedere a qualsivoglia sal- vaguardia paesistica, storica o ambientale. La Cina, al contrario, ha deciso (piano quin- quennale adottato nel 2011) di ridurre con-

siderevolmente le emissioni di CO2, e non a caso è stata un partner costruttivo ai nego- ziati che hanno portato al COP21 di Parigi 2016. Siamo quindi di fronte a un paradosso: il paese che più ha contribuito all’aumento di emissioni globali di CO2, e che potrebbe chiamarsi fuori da impegni restrittivi in vir- tu’ dell’imperativo di mantenere un forte tas- so di crescita economica, decide invece una forte inversione di rotta. Non è detto che l’o- biettivo venga raggiunto, ma sulla determi- nazione delle autorità cinesi in materia non è il caso di porre dubbi. Indubitabilmente, la Cina sta attraversando una evoluzione epo- cale dall’obiettivo della crescita economica a quello dello sviluppo sostenibile.

Il paradosso italiano

Il paradosso italiano è che la “città sosteni- bile” ce l’abbiamo già, e ci viviamo dentro. Si tratta, in larga misura, dei centri urbani grandi e piccoli costruiti e gradualmente svi- luppati nel corso dei secoli e fino al secondo dopoguerra. Un secondo aspetto paradossale è che questi modelli, queste “forme urbane”, per usare il linguaggio adottato dai nostri colleghi cinesi, non sono certo stati conce- piti con in mente il risparmio di energia e la tutela ambientale. Tuttavia, la maniera in cui sono stati progettati e realizzati (uso di materiali naturali e locali, compattezza per garantire sicurezza verso l’esterno, spazi pubblici capaci di garantire lo svolgimento degli scambi e della vita civile e religiosa), ne hanno garantito una straordinaria qualità estetica ed una grande attrattività.

Siamo stati quindi in grado di mantenere i pregi dei tessuti e degli orditi storici, e di introdurvi al contempo, e piuttosto agevol- mente, I miglioramenti di comfort consentiti dall’evoluzione tecnologica – acqua potabile, fognature, energia, elettricità, ascensori, col- legamenti materiali e virtuali. Si è trattato di una sorta di “resilienza storica”, e cioè della capacità di adattarsi alle sfide del cambia- mento in maniera vincente e senza snaturare la cultura dei luoghi.

A tutt’oggi, una gran parte della popolazione urbana del paese vive in quartieri costruiti tra l’unità d’Italia ed il secondo dopoguerra. La loro caratteristica è quella di essere quar- tieri compatti impostati primariamente sul trasporto pubblico, di norma con buone do- tazioni di spazio e di verde pubblico, e dotati dei servizi e delle attrezzature collettive es-

senziali. Limitazioni tecniche e costruttive suggerirono spesso soluzioni con un nume- ro limitato di piani, garantendo un rapporto felice tra pieni e vuoti e proporzioni urbani- stiche gradevoli. La scarsa diffusione dell’au- tomobile suggerì la distribuzione capillare di piccoli esercizi commerciali di prossimità, di spazi per mercati all’aperto e di mercati ri- onali, garantendo così maggiore vivibilità e vivacità urbana. Non a caso questi quartieri, siano essi di edilizia popolare o privata, sono oggi assai ambiti sul mercato immobiliare. E’ questo, forse, il “paradosso italiano”. Si da’ quindi il caso che se vogliamo individuare esempi di sostenibilità urbana, li dobbiamo cercare non solo in elaborazioni teoriche, bandi o progetti pilota, ma nell’esistenza e nella inaspettata contemporaneità di forme urbane concepite e realizzate nel tardo otto- cento e nel novecento ben prima della sco- perta dell’ecologia, della sostenibilità stes- sa e della resilienza. Senza dimenticare che tutti sono stati il risultato di scelte meditate e soggette ai meccanismi di una pianifica- zione ancora attenta ai principi della civiltà urbana.

“Saving the Planet by Design”

E’ questo il titolo, purtroppo traducibile solo in parte, di un keynote presentato a nome dell’INU in occasione del “World Cities Day” del 2015. Alla luce del fatto che, stando alle previsioni dell’ONU, l’intero aumento della popolazione mondiale da qui alla metà del secolo avverrà nelle città dei paesi in via di sviluppo, è chiaro che le speranze di scon- giurare il cambiamento climatico irreversi- bile del pianeta e le sue conseguenze sono quasi interamente affidate al modo in cui questa nuova urbanizzazione sarà gestita, ed in primo luogo progettata. A riprova si cita- vano due casi contigui nella città di Rio de Janeiro: un quartiere ben progettato (Ipane- ma) ed un insediamento più recente ed assai meno sostenibile (Barra da Tijuka). Il design, e cioè la progettazione, può quindi “salvare il pianeta”; ma perché’ questo accada, occorre che tutto ciò avvenga in maniera intelligen- te, responsabile e deliberata: “by design”. Una delle componenti storiche della civiltà urbana del nostro paese, ed anch’essa in buo- na misura “intraducibile”, è il quartiere. Il termine indica un insediamento urbano in cui i residenti si possano riconoscere e verso il quale provino un sentimento di ap-

partenenza (“io sono di”….. “abito a”……). Ogni quartiere ha le sue specificità, che possono essere progettate (proporzioni architettoni- che, tessitura, spazi pubblici, caratteri edilizi, composizione sociale, mix di attività, eccete- ra). Un’altra caratteristica del quartiere è di essere aperto e accessibile a tutti: il quartiere è primariamente, “spazio pubblico”.

Ecco dieci ipotesi di principi per la progetta- zione di un quartiere sostenibile:

1. Impianto urbanistico semplice e chiaro; 2. Rendere piacevoli i percorsi a piedi; 3. Evitare il traffico di attraversamento; 4. Creare alternative all’uso dell’automo-

bile;

5. Densità e compattezza ma a scala uma- na;

6. Mix sociale;

7. Massima ricchezza di usi e funzioni; 8. Evitare I “vuoti urbani”;

9. Impiegare criteri di edilizia sostenibile; 10. Privilegiare lo spazio pubblico.

Se questi principi fossero adottati da un pae- se come la Cina, I risultati sarebbero straordi- nari. Ma anche in Italia, riappropriarsi della nostra storia urbana alla luce delle sue rea- lizzazioni più felici costituirebbe una magni- fica guida per il futuro. Una maniera, forse, per costruire una nuova agenda urbana che serva a noi, come pure al resto del mondo.

E’ un rapporto critico quello dei giovani italiani con il problema dell’autonomia abitativa. I media tendono ad affibbiare loro con faciloneria l’etichetta di “mammoni”, ma le difficoltà di accesso alla casa, in particolare nel contesto delle grandi città, costituiscono un elemento certamente peggiorativo di uno scenario già di per sé decisamente problematico.

63.

La difficile strada

Outline

Documenti correlati