• Non ci sono risultati.

Le politiche antidiscriminazione

5 Conclusioni: uno sguardo complessivo sui casi nazional

5.2 Le politiche antidiscriminazione

Il tema dell’integrazione degli immigrati nella società è strettamente connesso alla lotta contro la discriminazione e il razzismo. L’Inghilterra ha da sempre basato la propria azione politica sulla tutela delle minoranze e quindi molto precocemente predisposto, anche se non sempre con successo, degli strumenti legislativi volti a contrastare la discriminazione in tutte le varie modalità in cui si può presentare, a partire dai luoghi di lavoro, all’accesso a beni e servizi tra cui, per esempio l’alloggio. La creazione dei gruppi di minoranze etnica e la loro istituzionalizzazione, viene vista come funzionale alla promozione dell'uguaglianza e alla legittimazione delle loro istanze. Questo approccio, che appartiene con modalità diverse anche alla Svezia, è in linea di principio

contraddistinto da ideali di grande apertura, ma la sua applicazione ha evidenziato delle importanti contraddizioni. La creazione di questi gruppi sulla base di caratteristiche etniche e culturali ha finito col rafforzarne la segregazione, a causa soprattutto della loro insufficiente capacità d'azione politica che ha portato a delle evidenti discriminazioni. Per questo il governo già a partire dagli anni sessanta è intervenuto per cercare di limitarle con delle leggi mirate, ovvero le Race Relation Act, pensate espressamente per intervenire sulle disparità di trattamento e di accesso ai servizi per le minoranze. La legislazione britannica sulle relazioni razziali è stata costruita attraverso tre grandi provvedimenti nel 1965, 1968 e nel 1976, che hanno formato il nucleo di della legislazione su questo argomento e che definiscono la maggior parte delle norme generali, istituendo anche molte delle organizzazioni ufficiali dedicate alle questioni razziali (Bleich 2003). Gli altri due paesi hanno invece intrapreso strade diverse. La Francia ha inserito più tardi nella sua legislazione, rispetto alla Gran Bretagna, dei dispositivi ad hoc per combattere le discriminazioni. Infatti la prima legge sul razzismo risale al 1972, alla quale seguirono altri due provvedimenti, uno nel 1978 e l’altro molto più tardi nel 1990. La differenza tra questi due paesi è che la Francia ha tradizionalmente preferito usare il diritto penale per combattere il razzismo, mentre la Gran Bretagna si basa molto sulla legge civile per punire la discriminazione (Bleich 2003). Questo perché l’impostazione ideologica del modello francese e la sua pretesa di assimilazione, non contemplavano che nella sfera pubblica potessero emergere delle differenze culturali o religiose e per lo stesso motivo si sono sempre astenuti dal prendere dei provvedimenti che non fossero universalistici e tutelassero una sola parte della popolazione. La stessa battaglia intrapresa contro il velo, puntava ad annullare la differenza all’interno dello spazio comune con il pretesto di rispettare i valori di laicità della Repubblica e di favorire quindi l’integrazione. Solo con il tempo la Francia ha dovuto fare i conti con le necessità di integrazione di una parte di popolazione che pur essendo a tutti gli effetti francese, non aveva le stesse chances di mobilità sociale dei nativi e subiva discriminazioni soprattutto su base raziale. Le statistiche in questi casi sono eloquenti, un’indagine dell’INSEE nel 2008 rivela che più di un quarto degli immigrati e discendenti di immigrati dichiarava di aver subito discriminazioni o disparità di trattamento negli ultimi 5 anni (uno su dieci contro il resto della popolazione). Tuttavia, questa percentuale varia notevolmente a seconda del paese di

origine degli immigrati e dei discendenti. Emerge inoltre un tasso molto più alto di disoccupazione che affligge gli immigrati e le seconde generazioni rispetto agli autoctoni, dati che peggiorano durante la crisi economica che sta attraversando l’Europa in questi anni. È stato necessario pensare a politiche mirate esclusivamente alla popolazione di origine straniera, ma soprattutto agli immigrati di seconda e terza generazione che pur essendo francesi a tutti gli effetti non godono delle stesse possibilità. A parte qualche sporadico intervento negli anni novanta, è a partire dagli anni 2000 che si verificano dei passi concreti in questa direzione: il 16 novembre 2001 con la legge sulla lotta contro la discriminazione e la creazione dell'Alta Autorità contro le discriminazioni e per l'uguaglianza (HALDE), l’istituzione di un Fondo d’azione e sostegno all'integrazione e alla lotta contro la discriminazione (FASILD). Ma non è una situazione destinata a durare a lungo, poiché durante il governo Sarkozy il cammino intrapreso per la parità di diritti, obiettivo fondamentale per la realizzazione della promessa repubblicana, si è bruscamente interrotto. Preda di un discorso razzista e xenofobo, l’azione del governo sotto la guida di Sarkozy si è concentrata in una lotta senza tregua all’immigrazione clandestina e all’erosione dei diritti degli immigrati, con aspri provvedimenti molto criticati dalle organizzazioni che si occupano da anni d’immigrazione sul suolo francese. Il ritardo si è così accumulato e le speranze di recuperare terreno sono ora riposte in Hollande che eredita una situazione non certo facile. Non saranno sufficienti delle modifiche legislative che intervengano sulle pratiche discriminatorie in materia di occupazione, alloggi e iniziative culturali, sia a livello pubblico che nella sfera privata. Bisognerà lavorare su rappresentazioni di pregiudizi, stereotipi e rancori legati dalla storia e che sono da sempre un potente mezzo di pratiche discriminatorie. Il caso della Svezia è invece molto diverso da quello francese e inglese. Da sempre considerata accogliente nei confronti degli immigrati, già a partire dal secondo dopoguerra, quando l’immigrazione ha iniziato a raggiungere numeri importanti, ha predisposto avanzate politiche di accoglienza e integrazione. La relativa facilità con cui ha concesso diritti di cittadinanza e sociali non l’ha però messa al riparo da problemi che sono emersi anche negli altri due paesi, seppur con evidente ritardo rispetto a Francia e Inghilterra. Come rilevato nel precedente capitolo, un problema con il quale la Svezia ha dovuto fare i conti di recente è quello delle discriminazioni e del razzismo strutturale, non solo nei confronti dei richiedenti asilo

ma degli immigrati in generale, in particolare quelli di recente immigrazione. Il rapporto di Amnesty International del 2013 e le indagini sul mercato del lavoro, hanno messo in evidenza una realtà che ha sorpreso e non poco gli osservatori internazionali e gli stessi svedesi. Una ricerca mostra come ci sia un’ampia discriminazione etnica nel mercato del lavoro, sono in particolare i migranti non europei quelli che hanno tassi di disoccupazione più elevati e retribuzioni inferiori175. Per coloro i cui genitori sono entrambi nati in un paese non europeo, il rischio di disoccupazione è di 11 punti percentuali in più rispetto a quelli con due genitori svedesi. Questi dati che si susseguono in tutte le statistiche recenti, non possono essere spiegati esclusivamente da fattori dipendenti dal capitale umano, come l’istruzione, le competenze professionali o linguistiche. La discriminazione nasce già a livello comunitario e istituzionale, anche se alcune scelte legislative hanno generato delle conseguenze discriminatorie per alcuni gruppi etnici non volute o comunque non previste. In tutti i casi considerati è evidente che le condizioni di svantaggio sociale colpiscono in particolare le minoranze etniche. Non solo dal punto di vista lavorativo, con tassi di disoccupazione mediamente più alti rispetto ai nativi, ma anche per quanto riguarda i fallimenti e l’abbandono scolastico, gli svantaggi abitativi, l’accesso ai servizi sociali e sanitari.