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5 Conclusioni: uno sguardo complessivo sui casi nazional

5.1 Le politiche d’ingresso

La gestione delle migrazioni internazionali da parte delle nazioni prese in considerazione in questo lavoro, ha sicuramente rappresentato una delle sfide più importanti e difficili da affrontare. La diversità delle politiche messe in campo per amministrare il fenomeno dipende dalla tradizione migratoria differente per ogni paese d’approdo e certamente dalla cultura politica che ne ha ispirato le scelte. La Francia e l’Inghilterra, hanno una storia per certi versi similare, sono state entrambe prima potenze coloniali e poi hanno vissuto l’esperienza della decolonizzazione all'incirca

nello stesso periodo. Nonostante questo, i flussi e la tipologia delle migrazioni che hanno interessato questi due paesi sono molto diversi. La Francia, per sopperire alla scarsità di manodopera causata dalle varie guerre combattute in Europa e per far fronte a una cronica crisi demografica, si orientò su delle politiche di contingentamento degli stranieri. Questo ha fatto si che godesse di un’immigrazione per la maggior parte stabile, che ha cercato di integrare tenendo fede all’idea di una nazione omogenea con un forte stato centrale, evitando di riconoscere al proprio interno minoranze nazionali o gruppi etnici. In Inghilterra invece, almeno in un primo periodo, più che dalla necessità di importare manodopera, le migrazioni furono prevalentemente caratterizzate dalle vicende storiche dei paesi di esodo e dalle crisi politiche ed economiche delle nazioni del Commonwealth. Una migrazione di lunga data quella britannica, anche se evidentemente meno antica di quella francese, che è stata gestita in maniera completamente diversa. La Gran Bretagna riconosce i particolarismi etnici e le minoranze culturali, privilegiando l’azione delle amministrazioni locali a provvedimenti astratti impartiti dallo stato centrale. È comune ad entrambe il forte etnocentrismo ma applicato in due modi completamente dissimili. La Francia nel suo progetto di assimilazione ha la pretesa che tutti gli immigrati diventino dei buoni francesi, mentre l’Inghilterra esclude a priori che gli immigrati possano diventare dei “buoni britannici”, anche quelli per cultura e tradizione più affini. In entrambi i casi si cercò di operare, attraverso le politiche d’ingresso, una selezione degli immigrati privilegiando quelli provenienti da paesi considerati culturalmente più vicini, che fossero più facilmente integrabili e che avessero un impatto il meno conflittuale possibile con la società di accoglienza. Come spiega bene Costantini, “in realtà ogni politica migratoria ha come uno dei suoi compiti principali quello di tracciare una linea di discrimine tra una buona e una cattiva immigrazione”174. Nel caso dell’Inghilterra, ad esempio, i provvedimenti presi per limitare gli ingressi dei cittadini del Commonwealth altro non erano che un modo per limitare l’immigrazione di colore. Nonostante il multiculturalismo inglese implicasse l’accettazione della diversità culturale, mentre l’assimilazionismo della Francia l’ha strenuamente relegata al di fuori dalla sfera pubblica, entrambi i paesi hanno come impostazione comune che guida le scelte politiche quella di non subire l’immigrazione, ma di cercare di orientarla. Il filo conduttore implicito di queste                                                                                                                

politiche è il tentativo di favorire l’immigrazione europea a scapito delle altre tipologie di migranti, ai quali viene reso il percorso di ingresso e integrazione notevolmente più difficile. La Svezia, invece, ha una tradizione migratoria diversa dalle altre due nazioni esaminate. Fino agli anni trenta, è stato un paese prevalentemente di emigrazione, ed ha iniziato ad essere interessato dall’immigrazione relativamente tardi rispetto a Francia e Inghilterra, ovvero a partire dalla prima guerra mondiale, con un aumento esponenziale durante la seconda. L’approccio politico svedese al governo dell’immigrazione è sempre stato abbastanza liberale, un multiculturalismo inclusivo che rifiutava l’idea del lavoratore ospite, messa in pratica ad esempio dalla Germania, privilegiando una migrazione stabile da inserire a pieno titolo nella società. Fino al 1970 la maggior parte dei flussi migratori che interessavano la Svezia proveniva dai paesi nordici vicini, con i finlandesi che formavano il gruppo più numeroso. La migrazione da lavoro, che raggiunse l’apice proprio in quegli anni, godeva anche dell’appoggio dei sindacati, che pretesero che le condizioni salariali e lavorative fossero uguali a quelle degli autoctoni. L’accesso alla residenza e alla cittadinanza era concesso più facilmente rispetto a quanto non facessero Francia e Inghilterra, e il diritto di voto era garantito dopo appena 36 mesi che si risiedeva legalmente sul suolo svedese. Furono riconosciuti ampiamente anche diritti culturali e in ambito educativo, a dimostrazione del fatto che si puntasse energicamente su un’integrazione basata sull’uguaglianza e la partecipazione. Naturalmente con la crisi petrolifera e la recessione, ci fu anche il momento della Svezia, come fu per gli altri paesi, di limitare l’immigrazione, anche sotto la spinta dei sindacati che questa volta premevano per porre un freno ai nuovi ingressi. Dopo questo periodo le migrazioni familiari e quelle dei richiedenti asilo andarono a sostituire quelle da lavoro e divennero predominati nei flussi. A partire dal 1988, con la ripresa economica aumentò anche la richiesta di una importazione della manodopera da parte degli imprenditori che però scontentava la base socialdemocratica. Fu allora che il governo optò per impiegare i rifugiati come risorsa economica, giustificando questa scelta come una politica umanitaria in nome della solidarietà internazionale. La concessione dell’asilo poteva tornare utile per le necessità del mercato. Non mancarono certo le ripercussioni negative di questa politica poiché si presentarono quasi subito difficoltà di riqualificazione degli immigrati con basso livello d’istruzione, le problematiche legate all’alloggio, difficile da garantire a un numero così elevato di

persone e i costi elevati che i servizi assistenziali comportavano. Negli anni novanta in concomitanza con la crisi economica più dura che la Svezia abbia mai dovuto affrontare, ci fu un’inversione di tendenza nelle politiche di accoglienza dei rifugiati che portò la società svedese ad interrogarsi su quanto l’Unione Europea stesse influendo nelle scelte su questa materia. Quelli furono gli anni in cui non solo la Svezia iniziò a chiedersi quanto pesasse l’influenza delle politiche comunitarie sul proprio approccio all’immigrazione, ma anche Francia e Inghilterra si trovarono di fronte alle stesse perplessità. Così come la messa in discussione del multiculturalismo e la conseguente crisi portarono Gran Bretagna e Svezia a mettere in discussione i provvedimenti pluralisti e a privilegiare quelli che puntavano su una serie di requisiti che il migrante doveva soddisfare per poter accedere ai permessi di soggiorno. Una visione premiale della cittadinanza e dei permessi, che puntava sulla volontà del migrante ad integrarsi. Una serie di prove erano richieste non solo allo straniero ma anche ai suoi familiari, come test linguistici, conoscenza della cultura e della storia del paese di accoglienza, adesione ai valori dei paesi di approdo. L’intento dichiarato delle politiche di stampo neoassimilazionista sarebbe quello di evitare impatti negativi nell’inserimento di queste persone nelle società di accoglienza, quella che viene chiamata una “integrazione a basso conflitto” e la prevenzione di scontri culturali, ma come abbiamo visto nei capitoli precedenti, nulla di tutto ciò si è verificato.