2) Le politiche d’ingresso in Francia, Inghilterra e Svezia.
2.3 La politica svedese e l’ambizione dell’uguaglianza sociale
2.3.1 I rifugiati come “risorsa” per il mercato del lavoro
A partire dalla primavera del 1988, la situazione del mercato del lavoro cambiò provocando richieste sempre più forti di una massiccia importazione di manodopera straniera. Questa domanda venne fatta propria non solo dall’associazione centrale dei sindacati, ma anche dagli imprenditori che sollecitavano l’apertura delle frontiere per un’immigrazione di tipo economico. Tuttavia questo accordo scontentava la base socialdemocratica che era contraria a una concorrenza sul mercato del lavoro da parte di nuova manodopera straniera. Spettò al governo il compito di mediare tra interessi contrastanti e venne così elaborata una strategia che potesse portare a una conciliazione. In nome della solidarietà internazionale i profughi potevano trovare rifugio ospitale in Svezia e allo stesso tempo potevano tornare utili per le esigenze del mercato. Fu così che respingendo l’importazione di manodopera e occupandosi del problema dei rifugiati (sposando la preoccupazione dei sindacati sulla solidarietà internazionale), il governo riuscì a conciliare una politica umanitaria dei rifugiati con le esigenze del mercato del lavoro. I profughi “furono così proclamati «la nuova riserva di manodopera della Svezia»”61, mettendo in luce l’importanza dei rifugiati come risorsa economica. Grazie a interpretazioni flessibili dei criteri di concessione dell’asilo, l’immigrazione aumentò notevolmente e la liberalizzazione del sistema di controllo portò nell’inverno 1988-1989 a un’amnistia generale per tutti i richiedenti che erano in attesa da molto tempo. Questa soluzione era stata adottata per cercare di smaltire il caos amministrativo dovuto alla moltitudine di richieste d’asilo da esaminare. Questa politica si dimostrò poco realistica in quanto si dovette scontrare con una serie di problemi concreti che vennero a galla
60 Monica Quirico, L’immigrazione in Svezia: tra aperture e fallimenti, FIERI, 12 luglio 2013. 61 Schierup Carl-Ulrik, La situazione svedese. Politica dell’immigrazione e sui rifugiati, politica di integrazione e di organizzazione etnica, in Italia, Europa e nuove immigrazioni, Torino, Edizioni della
durante quegli anni. Primo fra tutti l’iter per la gestione delle pratiche di richiesta si rivelò farraginoso e complesso, con tempi di attesa molto lunghi. Vi era inoltre il problema di fornire alloggi per tutti, che si rivelò impossibile da risolvere, come la difficoltà nel riqualificare gli immigrati con un basso livello di istruzione per integrarli nel mondo del lavoro. Si manifestò anche una certa riluttanza dei datori di lavoro svedesi ad assumere profughi provenienti dal Terzo Mondo. Nel 1989 l’atmosfera ottimistica dello slogan sui rifugiati come risorsa lasciò il posto alle discussioni pubbliche sui rifugiati come problema (Schierup 1990). Il dibattito si concentrò sulle difficoltà d’inserimento dei rifugiati, sui costi elevati delle politiche di assistenza e sorse anche il problema della criminalità legata ai giovani immigrati. Tutto questo, insieme al deterioramento della situazione economica, portò nel 1989 a una svolta nella politica sui rifugiati. Furono prese misure particolarmente restrittive, in contrasto con l’internazionalismo e l’umanitarismo svedese, come la soppressione del diritto di asilo per i profughi de facto e per gli obiettori di coscienza. I rifugiati de facto erano persone che non avevano subito necessariamente una minaccia personale, ma che si trovavano in una situazione di pericolo nella loro patria e quindi emigravano poichè non era sicuro rimanere in quelle condizioni Questo cambiamento nella politica svedese provocò un dibattito che portò ad interrogarsi su quanto l’intensificarsi della cooperazione con l’Europa abbia influito nelle scelte politiche della Svezia (Hammar 1999). La recessione, l’aumento della disoccupazione e la pressione sul welfare state, portò nel febbraio del 1990 alla presentazione di un pacchetto di provvedimenti per la situazione economica che “comprendeva un blocco dei prezzi, un blocco dei salari, un limite fisso per i profitti dei titoli e un totale divieto di sciopero”62. La base sindacale si oppose duramente e organizzò una serie di proteste e scioperi selvaggi che ebbe come conseguenza le dimissioni dell’intero governo socialdemocratico. Il caos politico scatenato da questo malcontento ebbe fine solo con l’insediamento di un nuovo governo, sempre a guida socialdemocratica, che comunque non abbandonò i propositi di intervenire sul mercato del lavoro, definito “surriscaldato”. Il nuovo pacchetto presentato, meno radicale del primo, proponeva un’importazione organizzata di manodopera, in particolare dai paesi baltici, come misura alternativa all’aumento di disoccupazione, per raffreddare il mercato del lavoro. La scelta è ricaduta sui baltici per
evitare la continua importazione di manodopera mascherata che veniva attuata con la politica dei rifugiati, dato che gli svedesi preferivano lavorare con immigrati di origine europea piuttosto che con quelli provenienti dal Terzo Mondo. Negli anni novanta si scelse la strada di un allontanamento dalla politica multiculturale verso un approccio che ha posto maggiormente l'accento sulla lingua svedese, la cultura e l'adattamento da parte degli immigrati (Geddes 2003). In quegli anni, infatti, la Svezia attraversò la crisi economica più profonda dagli anni 30, con il Pil in calo per tre anni consecutivi, in un clima cupo sia dal punto di vista finanziario che sociale. Tra le misure prese per fronteggiare la situazione si dovette ricorrere anche a un ridimensionamento del welfare, che colpì non solo le fasce della popolazione più vulnerabili ma soprattutto gli immigrati. Un rapporto del 2001 evidenzia come “gli anni Novanta fossero stati caratterizzati da un aggravarsi della segregazione etnica e socioeconomica, come messo in luce dai “ghetti” di immigrati sorti prima ai margini delle tre grandi aree metropolitane (Stoccolma, Göteborg e Malmö), ma successivamente anche altrove”63. Una crisi molto più profonda rispetto a quella che affligge la maggior parte dei paesi europei in questi ultimi anni e che non ha colpito la Svezia in maniera preoccupante, anche grazie alle riforme varate dopo la crisi dei primi anni novanta. Nel 1996 con l’istituzione del Ministro responsabile per la politica di integrazione, inizia un periodo in cui il governo cerca di limitare l'immigrazione a lungo termine con l'introduzione di misure che privilegiano il rilascio di permessi di soggiorno temporanei per i rifugiati. La ratio era di sostituire questi permessi a quelli permanenti, con l'intenzione di far tornare i profughi nei loro paesi d'origine, una volta che fosse sicuro per loro fare rientro. Un anno più tardi, con la creazione del National Integration Office, responsabile della creazione di programmi per promuovere l'integrazione in Svezia così come il monitoraggio dei progressi di integrazione, la politica svedese si è focalizzata sull’empowerment degli immigrati e dei rifugiati, cercando di incoraggiarne l’autonomia e l’autosufficienza64. Un obiettivo importante era anche rappresentato dalle misure contro la discriminazione e la xenofobia dell’1 maggio 1999 che proibivano le discriminazioni dirette e indirette nei confronti degli immigrati e dei rifugiati. Di certo l’ingresso nell’Unione Europea nel 1995 della Svezia, ha coinciso con un inasprimento
63 Rapporto FIERI per CNEL, Settembre 2013, pp. 28. 64 Op. cit., Geddes A., 2003, pp. 122.
delle politiche migratorie. Tuttavia, con l'allargamento dell'UE nel 2004 a dieci nuovi paesi, la Svezia è stata uno dei soli tre Stati membri dell'UE a permettere ai cittadini dei nuovi Stati membri il diritto di lavorare senza richiedere il permesso prima dell’ingresso.