• Non ci sono risultati.

2.1.2.

I primi studi sull’interpretazione risalgono agli anni Cinquanta e sono caratterizzati da un approccio formativo. In quegli anni infatti, con l’avvento dell’interpretazione simultanea si era resa necessaria la formazione di interpreti da impiegare presso le organizzazioni internazionali. I primi scritti sull’interpretazione di conferenza sono ad opera di interpreti professionisti che con i loro contributi cercano di formalizzare l’esperienza da loro acquisita descrivendo le situazioni comunicative in cui l’interpretazione ha luogo, le diverse modalità interpretative, i requisiti che l’aspirante interprete deve possedere ed inoltre forniscono informazioni storiche sull’origine dell’interpretazione. Questi primi studi possono essere inseriti all’interno del “filone manualistico-didattico” (Falbo, 2004:103) come si nota chiaramente già dal titolo delle opere in cui compaiono termini quali manuel o training.

La prima monografia e forse anche la più nota nell’ambito dell’interpretazione è il Manuel de l’interprète di Jean Herbert, del 1952, dedicato a Paul Mantoux, uno dei primi interpreti ad avere lavorato in occasione della conferenza di Pace di Parigi, 1919 e co-fondatore dell'Institut de hautes études internationales di Ginevra. L’opera di Herbert, interprete presso le Nazioni Unite e docente presso la scuola di Ginevra, si concentra sul percorso che l’aspirante interprete deve compiere e sui requisiti indispensabili per esercitare tale professione. Un’altra opera importante di taglio manualistico, pubblicata nel 1956, è La prise de notes en interprétation consécutive di François Rozan. Anche Rozan, come Herbert, era un esponente dell’École d’Interprètes

190

che non fu solo la prima ad essere fondata, ma anche la più proficua per quanto riguarda la pubblicazione dei primi manuali sull’interpretazione. Facevano inoltre capo a tale scuola anche Roger Glémet e Gérard Ilg. Un primissimo studio di tipo osservazionale, da inserire nella panoramica dei primi studi sull’interpretazione, è invece quello di Jesús Sanz, uno psicologo spagnolo che nel 1931 pubblicò uno studio in lingua francese sui prerequisiti psicologici che un interprete deve possedere. Sanz aveva intervistato 20 interpreti e osservato le loro prestazioni presso la Società delle Nazioni e l’ILO. Successivamente aveva provveduto a stilare una lista delle qualità indispensabili per un futuro interprete, raggruppandole in capacità cognitive e qualità morali e affettive.

Negli anni Cinquanta vedono la luce anche i lavori di Kaminker (1955), Cary (1956), Schmidt e Haensch (1957), Wirl (1958) e Glémet (1958). Kaminker (1955) dà voce alle sue perplessità in merito alla possibilità di individuare delle regole per illustrare il lavoro dell’interprete e pone l’accento sulle caratteristiche individuali e sulla personalità del singolo:

[…] je suis persuadé que s’il y a une forme qui ne se codifie pas, qui ne se laisse pas enfermer dans le cadre de certaines règles, c’est bien le métier que nous exerçons, parce qu’il est tellement individuel, il dépend tellement intimement de la personnalité de celui qui l’exerce, qu’il est à peu près impossible, en de hors des disciplines de base, de dire comment on l’exerce.

(Kaminker, 1955:10)

Kaminker attraverso aneddoti illustra la propria tecnica di interpretazione simultanea e quella di Rozan, lodando in particolare la capacità del collega di distaccarsi dall’oratore. Il contributo di Kaminker (1955) come quelli di Haensch (1956 e 1957) e di Schmidt e Haensch (1957) si concentrano sulla tecnica in simultanea e basano le loro conclusioni sull’osservazione soggettiva del loro operato e su quello dei colleghi, facendo quindi riferimento alle loro esperienze personali, più o meno dirette. Cary (1956) con tono didattico illustra quello che l’interprete deve o non deve fare mentre Wirl (1958) e Glémet (1958) affermano che la conoscenza delle lingue di lavoro è indispensabile ma non sufficiente per garantire una buona prestazione interpretativa. Tale idea è sostenuta apertamente anche da Longley:

191

It is as laughable to think of becoming an interpreter without the required language knowledge as it is to think of becoming a pianist without any hands, but the possession of ten fingers no more makes a concert pianist than the knowledge of several language makes an interpreter.

(Longley, 1968:51)

Longley nel suo libro Conference Interpreting pone l’accento sull’importanza del connubio tra formazione ed esperienza diretta, ritenendo solo l’esperienza sul campo capace di preparare un aspirante interprete all’esercizio della professione. Wirl (1958) evidenzia l’importanza di un buon livello culturale e dell’esercizio distinguendo in merito tra capacità innate e acquisite grazie alla pratica. Nel 1957 presso l’Università di Londra Eva Paneth scrisse la prima tesi in interpretazione. Uno dei meriti da attribuire a questa ricercatrice è quello di aver posto molti interrogativi e lanciato altrettanti appelli a investigare in maniera sperimentale l’interpretazione simultanea. Inoltre fu la prima studiosa a sottolineare l’importanza di studiare le registrazioni di testi interpretati per poter tratte conclusioni sulla qualità del lavoro dell’interprete. Uno stimolo importante per lo sviluppo degli studi in interpretazione arrivò nel 1953 con la fondazione dell’AIIC, un’associazione di interpreti di conferenza diffusa in tutto il mondo per definire degli standard professionali condivisi, promuovere l’eccellenza professionale e garantire condizioni di lavoro adeguate. In questi anni nascono anche diverse riviste specializzate per diffondere a livello internazionale i risultati raggiunti da diversi studiosi nell’ambito dell’interpretazione. Nel 1946 viene fondata a Ginevra la rivista

L’Interprète, nel 1955 a Monaco viene pubblicato il Mitteilungsblatt für Dolmetscher und Übersetzer e nello stesso anno a Parigi vede la luce Babel. Per concludere la prima

fase degli studi sull’interpretazione si intende menzionare il manuale di Henri van Hoof, intitolato Théorie et pratique de l’interprétation che funge da cesura tra il primo ed il secondo filone di ricerca sull’intepretazione di conferenza. Tale opera è divisa in due parti; la prima è prettamente teorica, dedicata all’aspetto storico, alle diverse modalità d’interpretazione, all’etica professionale ecc., mentre la seconda contiene dei suggerimenti pratici per raggiungere una buona prestazione sia in modalità consecutiva che simultanea ed una dettagliata descrizione degli impianti di interpretazione simultanea. In questa seconda parte van Hoof accenna ai processi coinvolti

192

nell’interpretazione e segna quindi il passaggio da un periodo di studi basato sulla formazione ad una seconda era caratterizzata dalla riflessione sui processi dell’interpretazione. Negli anni Settanta si assiste alla nascita di tre filoni di ricerca, che verranno brevemente illustrati nei paragrafi successivi, accumunati da un approccio interdisciplinare. Si tratta dell’Information Processing Theory, della Allgemeine Translationstheorie e del filone della ricerca neurolinguistica.