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3. La categorizzazione giuridica delle identità collettive e il conseguente condizionamento delle scelte di identificazione individuali

3.2. L’etno-nazionalismo ed il rafforzamento delle identità etniche

3.2.1. Le revisioni storiche nazionaliste

Dalla reale o presunta discriminazione etnica alla vittimizzazione storica il passo fu breve; così iniziarono ad essere propagandate dai mass media storie sull’alleanza antiserba degli ustaša croati e dei musulmani durante la seconda guerra mondiale, sulla presenza serba in Bosnia del principe Mihajl, su come la Bosnia fosse in realtà serba e di come fosse uno Stato artificiale, sull’inesistenza dell’etnia musulmana, ecc.337.

La revisione storica è importante in questo contesto perché è stata concepita come modo per cambiare la visione della propria etnia e delle altre.

Franzinetti e Dogo sottolineano le significative conseguenze della revisione storica nella formazione delle nazioni balcaniche; questa revisione è stata attuata sia attraverso una rivisitazione del paradigma romantico del risveglio delle nazioni assopite, sia attraverso un approccio economico, sociale e demografico alla storia. Così nacquero le cosiddette “rivoluzioni nazionali” contro l’Impero Ottomano, in cui si sarebbero forgiate le “nazioni”338. Così nasce anche la tendenza di tutti i nazionalismi balcanici ad ante-datare ed a sovrastimare il processo di formazione delle nazioni339.

Anche John Fine descrive la revisione storica (da lui definita falsificazione tout court) della fine del secolo in Croazia, come tendenza finalizzata a creare l’identità etnica, riscrivendo la storia non solo della Croazia (storica), della Slavonia, della Dalmazia e della Repubblica di Ragusa, ma quella dei “croati” nel Medio Evo. Di conseguenza, tutti i soldati dell’esercito dei re “croati” medioevali vengono definiti croati (e non vlahi, italiani, morlacchi), mentre essi si definivano generalmente slavi o di una città. Ogni volta che nelle fonti i termini “croato” o “Croazia” non compaiono, o ne compaiono altri alternativi, vengono “semplicemente”

      

336 Mujčić Elvira, E se Fuad avesse avuto la dinamite?, Infinito edizioni, Roma, 2009, pag. 20.

337 Cvitković Ivan, Ibidem., pp. 12-15.

338 Franzinetti Guido, Introduction. Nation-building and State-building in the Balkans, in: Dogo Marco, Franzinetti Guido (a cura di), Disrupting and Reshaping. Early Stages of Nation Building in the Balkans, Europe and the Balkans International Network, Longo Editore, Ravenna, 2002, p. 9-10.

339 Dogo Marco, Before and Outside the Nation, in: Dogo Marco, Franzinetti Guido (a cura di), Disrupting and

Reshaping. Early Stages of Nation Building in the Balkans, Europe and the Balkans International Network,

sostituiti. Si arriva a sostenere la formazione di una popolazione croata autonoma nell’VIII secolo (M. Sušić), con una ante-datazione di più di dieci secoli. Viene descritta una continuità inesistente e vengono proiettati nel passato tutti gli ingredienti del moderno sentimento nazionale340.

Garde341 mette in risalto il fatto che il processo di revisione storica accomuna tutti i nazionalismi balcanici: una revisione finalizzata alla legittimazione delle proprie aspirazioni politiche indipendentiste ed irredentiste. Così ciascuna nazione riscrive la propria storia ricostruendo un passato mitico, in cui sarebbe esistita la stessa coesione nazionale di oggi, affermando una continuità (oltre gli imperi austriaco ed ottomano) tra le formazioni statali medioevali e quelle attuali e privilegiando per ognuna di esse il momento di massima estensione territoriale.

I greci guardano alla Grecia antica ed all’Impero Bizantino; i bulgari, i serbi, i croati ai regni medioevali, rivendicando la presunta continuità della resistenza contro l’Impero Ottomano e, nel caso dei croati, affermando la continuità del loro regno durante gli otto secoli di dominazione austro-ungarica. I bosniaci musulmani si sono trovati antenati che non erano né ortodossi, né cattolici, cioè i bogomili342. Alcuni storici croati hanno sostenuto che i croati avessero origini iraniane e non slave. Gli slavi macedoni, formatisi come nazione nel XX secolo, invocano il ricordo del Regno di Macedonia ai tempi di Alessandro Magno (IV a.c.). Queste argomentazioni storiche sono utilizzate per legittimare le aspirazioni (o le rivendicazioni) territoriali dei diversi popoli. Di conseguenza ogni interpretazione storica dà luogo a interpretazioni opposte343.

Le identità collettive sono state forgiate, in primo luogo, in termini di simboli tratti dal passato. Negli anni ’80 la gente si rivolse alla tradizione nella ricerca di una linea-guida identitaria. La storia fu considerata come una miniera di valori sacri, antichi, univocamente monoetnici. Il “passato percepito” descriveva vividamente il martirio, l’eroismo, la dignità del sacrificio, un passato che nobilitava l’etnia, costruita seconda l’agenda politica contemporanea344.

      

340 Fine John V. A., Ibidem., pp. 8-13

341 Garde Paul, Ibidem., pp. 74-75.

342 Setta cristiana esistente in Bulgaria e Bosnia dal XII al XIV secolo (Garde Paul, Ibidem, p. 111.).

343 Garde Paul, Ibidem., pp. 74-75.

344 Privitera Francesco, Between Yugoslavism and Separatism, Intellectuals in Yugoslavia, in Bianchini Stefano e Dogo Marco (a cura di), The Balkans. National Identities in a Historical perspective, Europe and the Balkans International Network, Longo Editore, Ravenna, 1998, pp. 137-142.

Questo processo fu definito da Royce “un processo anestetizzante di rifugio in un’identità omni-comprensiva e che perdona tutto”. Il valore della tradizione diventa indiscutibile perché proveniente dal passato345.

Un’altra espressione tratta dal passato è l’inevitabilità della sofferenza, come modo per far fronte alla marginalità sociale, coltivando l’identità di popolo oppresso. La persecuzione diventa un elemento chiave, in senso sia ideologico che letterale, nel processo di formazione identitaria. Serbi, croati, musulmani, albanesi accentuarono una ideologia di persecuzione al fine di trasformare un senso di inferiorità associato alla marginalità, in un senso di superiorità associato all’unicità. La reazione a questo stato di cose è la difesa del proprio valore collettivo in base alla purezza razziale, alla giustizia morale e alla difesa di una tradizione non corrotta. I movimenti etno-nazionalisti, nei vari Stati nati dal collasso della Jugoslavia, si riappropriarono di una versione ampiamente rivista del passato al fine di rafforzare la propria identità etnica. Generalmente il passato è usato per dimostrare un elevata identità etnica, regionale e personale nel passato, indipendentemente dalle attuali limitazioni politiche ed economiche346.

La rilettura storica finalizzata alla creazione di uno Stato indipendente croato, fu portata all’apice da Franjo Tuđman e Jozo Lausić nel settimanale “Hrvatski tjednik”, che iniziò la pubblicazione nel 1971. Essi incominciarono rifiutando l’origine della Croazia dalla lotta di liberazione partigiana, sostenendo che lo Stato fosse stato espropriato ai croati per secoli. La campagna dello “Hrvatski tjednik” sulla coincidenza fra Stato e nazione, mise in allarme gli altri popoli jugoslavi e le minoranze interne, data l’esplosiva unione del concetto occidentale di Stato - nazione con il concetto orientale di nazione etnica esclusiva347.

Secondo Fine, mentre non esiste giustificazione alla falsificazione storica al fine di supportare le ambizioni etniche, da un lato, non c’è alcuna necessità di legittimazione storica per dichiarare l’esistenza di una nazione relativamente nuova, dall’altro, non ha fondamento l’utilizzo di episodi della storia pre-moderna per legittimare la politica contemporanea, indipendentemente dal fatto che gli eventi storici in questione siano reali o falsi348.

      

345 Privitera Francesco, Between Yugoslavism and Separatism, Intellectuals in Yugoslavia, in Bianchini Stefano e Dogo Marco (a cura di), The Balkans. National Identities in a Historical perspective, Europe and the Balkans International Network, Longo Editore, Ravenna, 1998, pp. 137-142.

346 Privitera Francesco, Ibidem., pp. 137-142.

347 Privitera Francesco, Ibidem., pp. 137-142.

Garde sottolinea la continuità dei dirigenti “nazionalcomunisti”, che rinunciarono all’ideologia marxista ed adottarono quella nazionalista al fine di mantenersi al potere esacerbando l’esaltazione nazionalista delle masse. Il perfetto esempio di questa strategia è costituito da Milošević, che riprese nel 1986 i temi nazionalisti dei suoi oppositori, pur conservando intatto tutto l’apparato di potere comunista: esercito, polizia, dossier segreti, controllo della televisione. Ne fece uso per annientare l’opposizione interna e nella guerra con le altre repubbliche. Il maggiore bersaglio fu, all’inizio, la principale minoranza della Serbia, cioè gli albanesi.

Questo scopo fu raggiunto da Milošević esaltando le folle sulla necessità di difendere i serbi del Kosovo349 in occasione del discorso pronunciato sul campo della storica battaglia in occasione del seicentesimo anniversario della sconfitta di Kosovo Polje; alla perfetta messa in scena dei resti disseppelliti del principe Lazar, si accompagnò un discorso psicologicamente da manuale in cui Milošević inserì (sul modello staliniano) alcuni elementi stilistici della lingua liturgica ortodossa in funzione sacralizzante.

Nella propaganda nazionalista serba il ricordo ossessivo della sconfitta di Kosovo Polje (in italiano “Campo dei Merli”), è presentato come una richiesta di vendetta ai serbi contemporanei (ed è a questa finalizzato)350.

Smith sottolinea che, se la mobilitazione e la propaganda hanno vita effimera, i miti di guerra rivissuti letterariamente agiscono a lungo termine e sono in grado di plasmare le reazioni a distanza di tempo, superando di gran lunga l’importanza degli eventi stessi351.

La realtà storica della battaglia di Kosovo Polje è diversa. Come scrive Hastings352, dopo la morte di Dušan (1355), l’Impero si sfaldò in tanti potentati locali. Trenta anni dopo il principe Lazar si mise alla loro guida. Nel frattempo il declino della Serbia favorì l’ascesa del re bosniaco Tvrdko, che diventò il re più potente dei Balcani. Quando nel 1389 si presentò l’esercito ottomano, guidato dal sultano Murat, gli si opposero due eserciti: quello guidato personalmente da Lazar e quello del re Tvdko guidato da Vlatko Vuković. L’esito della battaglia fu alquanto incerto, Lazar e Murat morirono, l’esercito vincitore ottomano arretrò, Tvrdko pensò di aver vinto e così informò trionfalmente l’occidente. La battaglia non cambiò

      

349 Garde Paul , Ibidem., pp. 95-96.

350 Privitera Francesco, Ibidem., p. 152

351 Smith Anthony D., Le origini etniche delle nazioni, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 97; (titolo originale: The

ethnic origins of nations, Oxford 1986).

molto le cose per la Serbia. Nei successivi decenni i serbi furono l’esercito d’appoggio degli ottomani e nei due secoli che seguirono ci fu una alleanza ortodosso - musulmana. Con la caduta di Costantinopoli, il Patriarca rimase quasi ostaggio della Sublime Porta, e l’Impero Ottomano favorì gli ortodossi, il cui Patriarcato era loro leale, mentre il papato cattolico era loro nemico.

L’epopea della battaglia suddetta fu costruita sulla somiglianza fra Lazar e Gesù Cristo: la figura di Lazar fu descritta come quella di un santo, simbolo della “serbità”, che rinunciò all’impero terreno per quello celeste. In altre epopee si descrisse l’ultima cena di Lazar con Branković, il cognato che l’assistette nella battaglia, presentato come Giuda e come rappresentante di tutti i serbi convertiti all’Islam.

Questo ciclo epico, storicamente infondato, era stato strumentalizzato inizialmente, nel XIX secolo, al fine di creare il Regno Jugoslavo (in base ad alcuni versi che dicevano “e noi croati, fratelli di sangue e aspirazioni dei serbi … rendiamo onore agli eroi del Kosovo”). Nel XX secolo fu strumentalizzato, invece, dal presidente Milošević (supportato dalla Chiesa ortodossa serba) per rappresentare lo stesso nazionalismo, ma senza l’alleanza cristiana e con una forte impronta anti-islamica353.

Quello di Kosovo Polje è un mito abusato, in quanto è considerato anche come la fonte della nazione montenegrina, oltre che serba. Come eredità anti-“turca”, cioè anti-musulmana, per i montenegrini fu interpretata da Njegoš nel poema Gorski Vijenac. In esso i montenegrini sono presentati eroicamente: “coloro che rifiutarono di disonorare la vera fede, coloro che non accettarono una vita in catene”, che morirono “per difendere la loro eredità come eroi, lo splendido nome e la sacra libertà”. Njegoš reclamò così un ruolo guida per i montenegrini come “più serbi dei serbi”, anche in risposta ai piani di futura egemonia balcanica dei serbi, espressi dal Ministro Garašanin nel famoso Načertanje354.

La relazione fra progetti irredentisti e politica estera di nazionalizzazione a base linguistica fu un fatto fondamentale; esemplificato dal ministro Garašin nel Načertanje (1844), secondo cui la Serbia aveva la missione di completare la liberazione nazionale, iniziata con la Rivoluzione serba, di tutti gli slavi parlanti štokavo, cioè dei bosniaci e di buona parte dei croati. Questo documento guidò la politica serba per decenni, per quanto non menzionasse il proselitismo

      

353 Hastings Adrian, Ibidem., pp. 119-121.

354 Pitassio Armando, The building of Nations: the cases of Slovenia and Montenegro, in Bianchini Stefano e Dogo Marco (a cura di), The Balkans. National Identities in a Historical perspective, Europe and the Balkans International Network, Longo Editore, Ravenna, 1998, pp. 52-53.

religioso o l’assimilazione etnica, ma fosse solo incentrato sul prestigio dello Stato e delle sue istituzioni e sulla ricerca della collaborazione di cattolici e musulmani. La sua prima applicazione in Bosnia fece dei latifondisti musulmani i principali interlocutori ed evitò di fare dei contadini serbi un simbolo del nuovo Stato nazionale355.

3.2.1.1. I miti della “Grande Nazione”

Bibò sottolinea l’uso strumentale della falsificazione storica per costruire una tipologia di nazione irredentista; sostiene che dall’insicurezza per la propria nazione e dalle vertenze territoriali nasce una visione del mondo, secondo la quale le questioni più allarmanti e pressanti riguardano quali territori tenere e quali rivendicare. Le questioni politiche quindi, perdono qualsiasi atteggiamento realistico e vengono percepite come offese da riparare. Questo approccio amplifica le aspirazioni ai diritti storici, che si concretizzano nel ritenere valida unilateralmente la situazione relativa ad un determinato momento storico (magari risalente a secoli prima), in base alla quale il territorio viene reclamato come proprio. Il dare la priorità assoluta alle vertenze territoriali, ha un effetto deleterio per la democrazia e per la politica estera. La conseguenza di una coscienza politica, carica di paure in politica estera, ha caratterizzato tutta l’Europa centrale ed orientale nel periodo fra le due guerre: di conseguenza non si sono prese decisioni in base a principi e neanche ad interessi oggettivi, ma esclusivamente in base alle vertenze territoriali356.

Il radicalismo nazionale abbinato alla revisione storica ha prodotto i miti della “Grande Nazione” (serba, croata, albanese, bulgara, greca, ecc.).

Come sottolineato da Gasparini, quando l’ideologia nazionalistica è vissuta in piccoli stati o entità che aspirano a diventare tali, essa riceve la sua legittimazione soprattutto dal senso di appartenenza etnica357.

In queste condizioni il nazionalismo, al posto che mobilitare risorse per l’affermazione del proprio Stato nei confronti degli altri (come succede nei grandi Stati), le attiva per la sopravvivenza in una esagerata e minacciosa enfasi sulla differenza etnica, come nel caso dei

      

301 Dogo Marco, Before and Outside the Nation, in: Dogo Marco, Franzinetti Guido (a cura di), Disrupting and

Reshaping. Early Stages of Nation Building in the Balkans, Europe and the Balkans International Network,

Longo Editore, Ravenna, 2002, pp. 32-33

356 Bibò Istvàn, Ibidem., pp. 71-75.

357 Gasparini Alberto, Alcune variabili per spiegare la situazione dell'Ex-Jugoslavia e il futuro dei nuovi stati

(nominalmente) indipendenti, in „Cultura di confine e rapporti inter-etnici nella formazione degli stati degli slavi

piccoli Stati dell’ex-Jugoslavia. In questo caso si tratta di un nazionalismo che è concettualmente imbevuto di valori rurali.

I miti della “Grande Nazione”, contrapposti alla realtà dei piccoli stati balcanici, sembrano una contraddizione in termini, dato che non vengono create le unità culturali ed organizzative note come Stati – nazione. Del resto questa situazione è all’origine della tensione, perché l’omogeneità etnica e culturale è ottenuta con un processo di riduzione e di esclusione di parti della nazione. Questo ha luogo in nome di una distorsione del principio di omogeneità e con l’applicazione forzata del concetto di Stato – nazione stesso.

L’adozione di questo mito porta a gravi conseguenze, dovute al fatto che lo Stato non include tutta la nazione, mentre include molte minoranze. Inoltre, rafforza il principio della pulizia etnica, come fattore risolutivo delle situazioni considerate ambigue e instabili a causa dell’eterogeneità etnica e culturale358.

Il primo a teorizzare la “Grande Croazia” fu Pavao Ritter Vitezović che, alla fine del ‘600, identificò tutti gli slavi con i croati e sostenne il diritto storico dei croati a tutti i Balcani, compresa l’Ungheria e la Tracia. Da allora il nazionalismo in Croazia si basa sul diritto storico. L’enfatizzazione dei diritti storici e statali ha influenzato profondamente l’atteggiamento nei confronti delle minoranze. Infatti, poiché gli jura municipalia erano indivisibili, tutti gli abitanti della Croazia storica e della Slavonia erano politicamente croati. Questo non implicava necessariamente che considerassero la Croazia omogenea, ma fino alla metà del XIX secolo la comune nazionalità slava aveva prevalso ed evitato definizioni integraliste ed esclusiviste359.

Negli anni ’70 i nazionalisti croati iniziarono a esibire apertamente aspetti di pan-croatismo, autarchia, sciovinismo, xenofobia e ad insistere sull’espansione territoriale lungo la costa, dalla Slovenia al Montenegro, oltre a quasi la metà della Bosnia – Erzegovina in nome dell’unità di tutti i croati. La Bosnia – Erzegovina richiese l’intervento della Federazione, i serbi si allarmarono per la minoranza serba in Croazia ed anche le altre Repubbliche si preoccuparono. Si arrivò ad una rottura della Croazia con la Federazione e venne indetto uno

      

358 Gasparini Alberto, Alcune variabili per spiegare la situazione dell'Ex-Jugoslavia e il futuro dei nuovi stati

(nominalmente) indipendenti, in „Cultura di confine e rapporti inter-etnici nella formazione degli stati degli slavi

del sud“, ISIG, dicembre 1993, pp. 14-15.

sciopero generale (1971). Tito intervenne personalmente, tentando prima di responsabilizzare i leader, poi intimando l’intervento dell’esercito. La situazione ritornò alla calma360.

Tuđman riprende il mito della “Grande Croazia”, proponendosi come “presidente di tutti i croati”, proponendo “Zagabria come capitale di tutti i croati” e la “Croazia come madrepatria di tutti i croati”, alludendo al fatto che i croati di Bosnia costituissero una etnia diasporica e che non potessero considerare la Bosnia – Erzegovina come la propria patria. Inoltre, propone un modello nazionale e culturale estremamente centralistico in cui tutto, al di fuori della mitizzata capitale, è periferia. Dal punto di vista identitario, Tuđman crea una contrapposizione ideologica fra “l’essere croati” e “l’essere bosniaci”, che li rendesse incompatibili361.

Tuđman porta così a compimento il progetto di modellare l’identità culturale dei croati di Bosnia in funzione nazionalista avviato da Stadler all’inizio del ‘900 con l’appoggio dell’odierno cardinale di Sarajevo, Pulić, e dell'associazione culturale «Napredak»362 (si veda il paragrafo 2.3.6.).

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