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1.3.1 Cosa abbiamo imparato e cosa non abbiamo capito

1.3.5 La specificità italiana (2° tempo)

Collocare la situazione italiana in questo quadro evolutivo è problematico. Anche in questo caso, infatti, l’Italia conserva una specificità rispetto a cui risulta difficile mettere a punto strategie, istituzioni e comportamenti consoni e altrettanto specifici. Nel confronto internazionale e con riferimento alle perfomance di produttività strictu sensu, è stato evi- denziato più volte (Esposti, 2002; Esposti et al., 2008) come l’Italia tenda a collocarsi nel gruppo dei paesi follower. Alla luce di quanto detto, questo ritardo rispetto ai paesi leader è da attribuire al fatto che l’Italia non è riuscita ad acquisire un ruolo da protagonista nella produzione di conoscenza ed innovazione tecnologica di interesse agricolo. Il dato sulla intensità di ricerca (ARI) è indicativo in tal senso, al pari della riduzione della spesa in ricerca agricola pubblica in termini reali registrata nell’ultimo decennio (tabella 1.4) e di un graduale sfilacciamento di un forte sistema pubblico di extension ed education.

Per quanto complessivamente condivisibile, tale rappresentazione rischia di celare alcune specificità che vanno senz’altro messe in luce. Se è vero, infatti, che l’ARI risulta inferiore a quello di paesi leader tecnologici, è anche vero che appare maggiore dell’inten- sità di ricerca riportato per l’intera economia italiana. Ciò è in parte attribuibile al fatto che il comparto agricolo, tipicamente caratterizzato da una netta prevalenza di ricerca

pubblica31, soffre meno del dato che più differenzia l’Italia rispetto agli altri paesi analoghi

in termini di spesa in ricerca, cioè gli scarsi investimenti privati. Un’altra spiegazione è che l’agroalimentare italiano presenta comunque delle eccellenze mondiali che sono tali anche in virtù di perfomance produttive e di livelli tecnologici di prim’ordine. In comparti quali vino, olio d’oliva, ortofrutta e colture protette, allevamenti intensivi, l’Italia mostra, anche solo in porzioni o nicchie di questi comparti, un primato tecnologico mondiale. Ciò è tanto più vero se si considera che il dato nazionale nasconde sempre differenze territo- riali molto spiccate, tali per cui è certamente possibile rintracciare anche in Italia aree con una agricoltura che, almeno nei rispettivi comparti di punta, risulta essere sulla frontiera tecnologica a livello internazionale e su questo elemento fonda una porzione essenziale della propria competitività.

31 Il dato della spesa privata in ricerca agricola è senz’altro di difficile reperimento e interpretazione (Esposti, 2011). Infatti, possono essere imputati o meno all’agricoltura i dati relativi alla spesa di imprese che producono input per l’agricoltura o che trasformano prodotti agricoli. Per esempio, Alfranca e Huffman (2003) riportano per l’Italia una quota di ricerca agricola privata di circa il 25% negli anni ’90. Tra gli altri paesi europei, questi autori riportano il 60% per Il Regno Unito e solo il 10% per Germania e Spagna. Pardey et al. (2006b), tuttavia, presentano dati leggermente differenti: nel 2000, la quota privata ammontava al 71% per il Regno Unito, il 54% per la Germania, il 54% in tutti i paesi OCSE. Sempre con riferimento al 2000, Kirschke et al. (2011) riportano una quota del 54% per tutti i paesi sviluppati e solo del 6% per i paesi in via di sviluppo.

Quindi, la collocazione italiana nel quadro del SCIA globale è resa complicata dal fatto che vi sono comparti e territori che ambiscono, e richiedono, un ruolo di leadership o comunque una forte connessione con i paesi leader tecnologici; altri, invece, che si sono da tempo adagiati in un più passivo ruolo di follower. Un disegno coerente ed omogeneo di un SCIA nazionale, quindi, non è certamente agevole in questo contesto (Esposti et al., 2008).

Ma un’ulteriore difficoltà nasce dal fatto che l’agricoltura italiana ha chiaramente e ormai da tempo operato la scelta, più o meno esplicita ma certamente condivisa da gran parte del mondo agricolo e dei policy makers ai vari livelli, di orientare la propria strategia competitiva e quindi il proprio SCIA verso un’agenda post-scarcity, cioè dare il primato assoluto alla food safety, alla qualità alimentare ed ambientale, alla multifunzio- nalità. Questo essere “condannati alla qualità”, se può sembrare una opzione obbligata per una agricoltura come quella italiana, è certamente molto esigente dal punto di vista del disegno di un adeguato SCIA. In primo luogo, perché la qualità coinvolge l’intera filiera alimentare, dal campo alla tavola, quindi il SCIA deve integrare una complessa pletora di soggetti, problemi, istituzioni, comportamenti. In secondo luogo, perché questa qualità tende a concentrarsi in comparti, le cosiddette eccellenze, che hanno una matrice agricola molto specifica, quasi esclusiva. Questo costringe a definire un SCIA che concentri molte

risorse in queste specificità32, per continuare a difendere un primato anche tecnologico a

livello internazionale, ma che ha un limitato spettro di possibili ricadute e applicazioni in altri comparti e contesti.

Per una sorta di contiguità, spesso assunta ma non dimostrata, questa vocazione ad una leadership nella qualità alimentare dovrebbe essere capace di far vincere all’agricoltu- ra italiana la sfida della post-scarcity anche sugli altri fronti, cioè quelli della sostenibilità ambientale, della produzione di beni pubblici e servizi di interesse collettivo, dello sviluppo rurale. Un primato tecnologico su questi aspetti, in realtà, è tutto da dimostrare e anco- ra da costruire. Semplicemente perché, come si dirà nel prossimo paragrafo, sono fronti che chiamano in causa un vero e proprio nuovo paradigma tecnologico per l’agricoltura, quell’orizzonte della bioeconomia in cui l’Italia non sembra mostrare una reale leadership tecnologica.

Certamente, la posizione che l’agricoltura italiana ha inteso strategicamente andare ad occupare nel quadro internazionale, richiede la capacità di sviluppare un SCIA con una forte autonomia e indirizzato verso questo nuovo paradigma, quindi sostanzialmente ripensato rispetto al modello SS tradizionale. Ma, attualmente, il SCIA non sembra avere queste caratteristiche; poco integrato con il SCIA globale ma anche poco autonomo, anco- ra sostanzialmente SS ma molto frammentato e con scarse integrazioni tra le componenti di ricerca, extension e education, tra componenti pubbliche e private, tra SCIA governato e disegnato a livello centrale e tanti piccoli SCIA governati e disegnati a livello locale o re- gionale (Esposti et al., 2010). È bene tenere presente che questa necessità di ridefinire un SCIA nazionale relativamente autonomo e capace di affrontare le sfide della post-scarcity cogliendo tutte le opportunità del nuovo paradigma tecnologico (la bioeconomia), è un problema che riguarda tutta l’UE. Altri paesi, infatti, sono alle prese, mutatis mutandis, con problemi analoghi a quelli italiani (Poppe, 2008). Da un lato, questo spiega lo sforzo che su questo fronte l’UE sta compiendo per comporre le diverse specificità nazionali in un quadro organico, se non unitario (European Commission, 2010a e 2012a). Dall’altro, mette in evidenza la complessità di questa operazione di costruzione di un unico SCIA europeo. 32 Sul problema della ricerca sulle speciality crops, si veda Alston e Pardey (2007).