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1.5. La festa nello Zibaldone

1.5.4. Altri effetti di festa

Vi sono altre pagine nello Zibaldone in cui Leopardi tratta di sfuggita il tema in questione e che possono essere raggruppate insieme perché mettono in luce alcuni effetti e alcune funzioni della festa.

Le pagine 50 e 529 vertono sui temi del dolore, avvertito più acutamente nel giorno festivo, e della delusione, portata con sé da tale giorno, tanto che possono essere messe in relazione a due delle liriche maggiori, rispettivamente La sera del dì di festa e Il sabato del villaggio. L’incipit del passo riportato alla pagina 50, e ripreso nel secondo dei Pensieri poetici, presenta già in nuce i temi e perfino la struttura della Sera; vi si legge infatti:

Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de' villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch'io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avveder del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco (Zib: 50).

Senza entrare nel merito dell’interpretazione della lirica, di cui mi occuperò in seguito, qui la fine del giorno festivo, giorno preposto alla gioia e alla felicità, funge invece da catalizzatore del dolore esistenziale: paradossalmente la fine della festa svela la sua illusione e la sofferenza che essa tenta di celare. La spiegazione di tale meccanismo avviene più estesamente alla data del 20 gennaio 1821:

135 “Con uno scherzo innocuo/ Fitto s’aveva in testa/A quel pedante macero/ Far terminar la

festa.” (vv. 61-64).

136 “Di quel licor vivifico/ Che l’alme allegra e bea/ La refezion gradevole/ Mancato non avea./

Ed il pedante rigido/ Per dare il buon esempio/ È fama che di calici/ Facesse orrendo scempio.” (vv. 41-48).

79 Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec. Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere all'aspettativa, al giubilo precedente. E che il dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza. Non dico alla misura del piacere provato realmente, perchè infatti neanche i fanciulli provano mai soddisfazione nell'atto del piacere, non potendo l'uomo nessun vivente esser soddisfatto se non da un piacere infinito, come ho detto altrove. Anzi il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile non tanto perchè il piacere sia fosse passato, quanto perchè non avea corrisposto alla speranza. Dal che seguiva talvolta una specie di rimorso o pentimento, come se non avessimo goduto per nostra colpa (Zib: 529).

In questo passo viene ripreso il tema del dolore sperimentato alla fine di un giorno festivo, dolore che è unito al senso di colpa per non aver goduto appieno di quel giorno che gli uomini - la società e la cultura - hanno stabilito appositamente per la felicità. Ma tra questo passo e quello precedente c’è di mezzo la cosiddetta “Teoria del piacere” del luglio 1820. Così, lo sguardo è più disincantato e Leopardi non parla del rapporto fra dolore e piacere, ché il piacere è visto ormai come sempre insoddisfacente nella sua finitezza e, dunque, illusorio, ma al rapporto fra il piacere e l’aspettativa o speranza del piacere, preludendo al celebre tema dell’attesa festiva del Sabato del villaggio.

Che il godimento, benché immaginato al massimo grado, sia in realtà lieve nella festa, Leopardi lo dice accidentalmente anche alla pagina 20 maggio 1823, dove affronta il tema della pigrizia, che da sola è sufficiente a far desistere l’uomo dai noiosi preparativi per affrontare tale evento mondano:

Così l'uomo si astiene di comparire a una festa (dove crede che si sarebbe trovato con piacere) per non assettarsi; e se si fosse trovato all'ordine, o se non se gli fosse richiesto d'assettarsi, sarebbe andato alla festa: la qual era pure un piacer vicino e pronto, e che si otteneva certamente con un'ora di pochissima fatica (Zib: 2702).

Vi è poi una pagina in cui Leopardi delinea in maniera più specifica una delle funzioni sociali della festa e come essa sia oggetto di manipolazione politica. Si tratta di un pensiero datato al 26-27 settembre 1823, a un passo dall’inizio della stesura delle Operette morali, che si trova all’interno di una più ampia disquisizione sul tema del coraggio. Lo riporto per la parte che ci interessa:

80 Anche il dolore degli uomini si consola o si scema col persuadersi che il danno, la sventura ec. o non sia tale, o sia minore ch'ella non è, o ch'ella non apparisce, o ch'ella non fu stimata a principio; e forse (eccetto quella medicina che reca la lunghezza del tempo) il dolore si consola o mitiga più spesso così che altrimenti. Per questo nelle pubbliche calamità, quando importa che il popolo sia lieto, o non abbattuto, o men tristo che non sarebbe di ragione, si proibiscono e tolgono i segni di lutto, e si ordinano e introducono feste e segni (anche straordinarii) di allegria. E ciò bene spesso non tanto come cagioni, quanto appunto come segni di allegria; non tanto a produrla dirittamente, quanto a dimostrarla; non tanto a divertir gli animi dal dolore, e dalla mestizia, quanto a persuaderli che non ve ne sia ragione, o che questa sia minore che non è. Nelle pesti o contagi si vieta il sonar le campane a morto. Nelle sconfitte si cela al popolo il successo, si proibisce ogni segno di lutto pubblico, si accrescono le feste, si fingono ancora e spargono delle novelle tutte contrarie al vero e piene di felicità (Zib: 3529).

La festa, in quanto latrice dell’ethos festivo – direbbe Apolito sulla scorta di Bateson137 – o a causa dell’habitus festivo incorporato dall’uomo – direbbe

Bourdieu –, viene utilizzata quale strumento politico per impedire al popolo di cadere nella disperazione, in quanto la sua semplice evocazione o dichiarazione determina un effetto sociale e un cambiamento nell’agire umano. Così, ancorché triste a causa delle morti e delle sconfitte belliche, indossando l’‘abito’ della festa, l’uomo non solo si distrae ma nega la sofferenza e si sprofonda nell’illusione di una tregua, stornando la visione della dolorosa realtà. La festa rivela così il suo marchingegno di grande illusione, di finzione che funziona.