• Non ci sono risultati.

XXIV. La quiete dopo la tempesta XXV Il sabato del villaggio

2.2. Note per un’antropologia dell’immaginario nei Cant

Il topos della festa assume più valenze e significati all’interno dell’opera leopardiana. La festa è essenzialmente un’illusione, ma rappresenta anche una delusione nei suoi risvolti concreti. Svolge la funzione di oggetto del desiderio, ma inaccessibile, perché per accedere al godimento festivo è necessario l’annullamento dell’io nella communitas del gruppo festante, annullamento impossibile per l’io che si tenta in proprio come personaggio: pena ne è l’esclusione. La festa è inaccessibile anche perché è l’equivalente della giovinezza, che è uno stato perduto precocemente dal poeta e mai ritrovato, né recuperabile per nessuno, se non transitoriamente attraverso il ricordo. Per questo la festa è strettamente collegata al tema della memoria, tentativo di un suo recupero, e anche perché, come abbiamo già visto nello Zibaldone, la festa si dà come anniversario di se stessa. D’altra parte, la festa è anche dimenticanza, cioè, oblio dello stato presente d’infelicità per l’uomo, e in questo si collega fortemente all’ebbrezza e al riso. “Sollazzo e riso” dice Leopardi al v. 18 del Passero solitario, e la parola “sollazzo” ricorre accostata al tema della festa anche nella Sera del dì di festa al v. 27, nelle Ricordanze al v. 70, nelle giovanili Rimembranze al v. 32. Al di là dell’accezione che assume nei singoli contesti, il suo significato originario lo spiega Leopardi stesso in una pagina delle Annotazioni alle canzoni, facendo riferimento al latino solatium24 (solacium):

24 Si tratta della nota XI, 13, tratta dalle Annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824.

La riporto integralmente: “Io so che a certi, che non sono pedagoghi, non è piaciuto questo

sollazzo: e tuttavia non me ne pento. Se guardiamo alla chiarezza, ognuno si deve accorgere a

118 pertanto la festa, più che vero godimento, si configura per l’uomo come un temporaneo “sollievo” dal male di vivere.

Fin qui ci siamo fermati ai temi o significati in senso tradizionale. Tuttavia è possibile scorgere nei Canti anche dei simboli o immagini significanti, che non sono immediatamente collegati al topos della festa, ma che tuttavia rimandano a essa come all’interno di una “costellazione”. Cercherò, pertanto, di rintracciare quelle figure o immagini che spiccano per un sovrappiù di senso, nel tentativo di delineare alcune note per un’antropologia dell’immaginario dei Canti. Si tratta, almeno in confronto a quello delle Operette morali, di un immaginario realisticamente connotato, dove il meraviglioso, quando appare, attinge al mondo classico, con poche concessioni all’armamentario cosiddetto preromantico. Si tratta, inoltre - è quasi un’ovvietà -, di un immaginario assai culturalmente connotato. La festa, ad esempio, è quella popolare che Leopardi ha potuto osservare nel ristretto orizzonte di Recanati; pur colorandosi di mille sfaccettature, non esce dai binari della mimesi, anche perché è interesse di Leopardi cercare di capire e fornire risposte a quello che può vedere. E quello che vede Leopardi nella festa non è mai “ierofania” o “dramma rituale”, non vi

è quanto dire il sollievo, cioè quello che propriamente è significato dalla voce latina solatium, fatta dagl’italiani sollazzo. Ora stando che si permetta, anzi spesse volte si richiegga allo scrittore, e massimamente al poeta lirico, la giudiziosa novità degli usi metaforici delle parole, molto più mi pare che di quando in quando se gli debba concedere quella novità che nasce dal restituire alle voci la significazione primitiva e propria loro. Aggiungasi che la nostra lingua, per quello ch’io possa affermare, non ha parola che, oltre a valere quanto la sopraddetta latina, s’accomodi facilmente all’uso de’ poeti; fuori di conforto, che né anche suona propriamente il medesimo. Perocché sollievo e altre tali non sono voci poetiche, e alleggerimento, alleviamento,

consolazione e simili appena si possono adattare in un verso. Fin qui mi basta aver detto a quelli

che non sono pedanti e che non si contentarono di quel mio sollazzo. Ora voltandomi agli stessi pedagoghi, dico loro che sollazzo in sentimento di sollievo, cioè di solatium, è voce di quel secolo della nostra lingua ch’essi chiamano il buono e l’aureo. Leggano l’antico volgarizzamento del primo trattato di san Giovanni Grisostomo Sopra la compunzione, a capitoli otto: Ora veggiamo

quello che séguita detto da Cristo; se forse in alcuno luogo o in alcuna cosa io trovassi SOLLAZZO, o

rimedio DI TANTA CONFUSIONE. E ivi a due versi: Oimè, credevami trovare SOLLAZZO DELLA MIA CONFUSIONE, e io trovo accrescimento». Cosí a capitoli undici: Tutta la pena che pativa [San Paolo],

piuttosto riputava SOLLAZZO D’AMORE, che dolore di corpo. E nel capo susseguente: Onde ne parlano

spesso, acciocché almeno per lo molto parlare di quello che amano, si scialino un poco e trovino SOLLAZZO

e refrigerio DEL FERVENTE AMORE c’hanno dentro. L’antica versione latina in tutti questi luoghi ha

solatium, o solatia. Veggano eziandio nello stesso Vocabolario della Crusca, sotto la voce Spiraglio,

un esempio simile ai soprascritti, il qual esempio è cavato dal volgarizzamento di non so che altro libro del medesimo san Grisostomo. E di più veggano, s’hanno voglia, nell’Asino d’oro del Firenzuola come le lagrime sono ultimo SOLLAZZO DELLE MISERIE de’ mortali. Anzi è costume dello scrittore nella detta opera di prendere la voce sollazzo in significato di sollievo, consolazione,

conforto, ad esempio di quei del Trecento, come anche fece il Bembo nel passo che segue. Messer Carlo, mio solo e caro fratello, unico sostegno e SOLLAZZO DELLA MIA VITA, se n’è al cielo ito” (Leopardi, 1988, I: 171-172).

119 è “violenza”, “sacrificio” o “rovesciamento carnevalesco”, vi dominano la componente comunitaria, la rappresentazione di legami sociali solidali, l’allegria, la danza e la dimensione amorosa, nuziale.

Lo spazio della festa nei Canti è sostanzialmente quello che va dalla lirica X alla XXV, compresa fra “Idilli” e “Grandi idilli”. A questo proposito, si può suggerire che esistano anche due o tre immaginari diversi nei Canti, laddove nel primo (I-IX) abbiamo un orizzonte eroico abitato da presenze antiche: Simonide, Dante, Cicerone, Bruto, Saffo, i patriarchi, i Californi, ma anche ninfe, Diana (la “faretrata diva” della Primavera) e altre divinità, come Giove o Proserpina (la “tenaria diva” dell’Ultimo canto di Saffo); mentre nell’ultima fase (XXVI-XXXIV) abbiamo un orizzonte più moderno, in cui tornano, sì, alcune figure mitiche come Amore e Morte, Aspasia – in realtà un senhal -, ma all’interno di un paesaggio più astratto e vario, difficilmente definibile, con i tre picchi della città, nella Palinodia, del ritorno alla campagna, nel Tramonto della luna, e del deserto lavico e delle rovine, nella Ginestra. Nella zona centrale, invece, ci si muove essenzialmente nell’orizzonte del borgo, eccezion fatta per il Canto notturno, il cui protagonista, un selvaggio, però ha molto a che fare con gli uomini del volgo, affaccendati nei loro lavori giornalieri. Ciò non toglie che un substrato mitico sia ravvisabile anche al suo interno come ha dimostrato Galimberti (1988). Fra le immagini simboliche di questo orizzonte vi sono in primis gli uccelli, che librandosi nell’aria rappresentano una dimensione di felicità inaccessibile per l’uomo (“Forse s'avess'io l'ale/ Da volar su le nubi,/ E noverar le stelle ad una ad una,/ O come il tuono errar di giogo in giogo,/ Più felice sarei, dolce mia greggia,/ Più felice sarei, candida luna”, Canto notturno, vv. 133-138). Presso molte tradizioni gli uccelli sono un simbolo funereo e solare, presso altre sono esseri semidivini e oracolari25, ma in quella greca

25 Nella narrativa tradizionale orale l’uccello è simbolo dell’anima del defunto o rappresenta

una figura psicopompa, che ha il compito di condurre il defunto nel regno del sole (Propp, 1985: 329-333). A questo proposito riporto un passo di Propp, riferito al Trattato dei sogni di Artemidoro: “In esso ogni uccello veduto in sogno viene interpretato come un uomo, e ogni volo sognato come l’aspirazione dell’anima a ripudiare l’involucro terrestre e a volare nei Campi Elisi sotto l’aspetto di un’anima-uccello” (1985: 333). Nel mondo greco e romano, gli uccelli indicano il volere degli dei e il loro volo era oggetto di divinazione; in questa loro funzione sono strettamente connessi ad Apollo. Tuttavia le più antiche rappresentazioni di Artemide ce la mostrano con le ali di uccello, un unicum nell’antropomorfo pantheon greco. Secondo Harrison gli uccelli sono particolarmente sacri perché viene attribuito loro un mana più potente di tutti gli altri animali (e di tutti gli uomini) ed è un fatto che le piume degli uccelli siano utilizzate in molte culture per costruire oggetti sacri e paramenti pieni di potenza magica; potendo muoversi fra il cielo e la terra, partecipano della natura di Urano e di Gaia; sono particolarmente connessi col tempo, in quanto sono in grado di annunciarne i cambiamenti e provocarli, in particolare, sono in grado di far piovere (Harrison, 1912: 94-117). Gli uccelli sono

120 rappresentano anche un’immagine di amore e desiderio, se si pensa al cocchio di Venere trainato dai passeri nell’Inno saffico. A loro fanno da riscontro sulla terra le lepri26, che sono invece un simbolo notturno. Per la loro danza al chiaro

di luna sono anch’esse un’immagine della costellazione festiva (“O cara Luna, al cui tranquillo raggio/ danzan le lepri nelle selve”, La vita solitaria, v. 70). Una luna ciprigna27. C’è un substrato erotico, oltre che mitico, nei voli degli uccelli e

nei salti delle lepri, come è testimoniato anche dall’Inno a Venere di Lucrezio (“aeriae primum volucres te, diva, tuumque/ significant initum, perculsae corda tua vi./ Inde ferae pecudes persultant pabula laeta/ et rapidos tranant amnis: ita capta lepore/ te sequitur cupide, quo quamque inducere pergis”, vv. 12-16; Lucrezio, 2016: 70). Si potrebbe definire afrodisio in un’unica parola. È chiaro, così, che un’altra immagine della costellazione festiva è la primavera e, di conseguenza, il maggio e i fiori: rose, viole, ma anche le ginestre. D’altra parte, il fior della vita è la gioventù, e i fanciulli, la donzelletta, il garzoncello sono tutte immagini festive, fra cui spicca Nerina più che Silvia - connessa dopo la sua morte al sepolcro (“e con la mano/ la fredda morte ed una tomba ignuda/ mostravi di lontano”, A Silvia, vv. 61-63). In mezzo a queste figure afrodisie il personaggio-poeta si

posti da Durand nel suo schema come “sintema” del regime diurno, dalla struttura eroica (2009: 536).

26 Sul rapporto fra la lepre e la luna esistono in ambito antropologico molte attestazioni. La

connessione è spesso tracciata attraverso il tema della fertilità o dell’apparire e scomparire dell’animale nella tana (Di Nola, 1971: 1720). Presso alcuni popoli il volto della luna è quello della lepre. Riporto il mito dei Boscimani del Kalahari: “La Luna, nei tempi andati, chiamò la tartaruga e per mezzo suo mandò agli uomini di allora questo messaggio: «Uomini, com’io morendo resuscito, così resusciterete voi dopo la morte». La tartaruga si mise in cammino per trasmettere il messaggio, e più volte veniva ripetendolo fra sé per non dimenticarlo. Ma era così lenta a camminare che per quanto facesse se lo dimenticò, sicché tornò indietro per farselo ripetere dalla Luna. Quando la Luna sentì che la tartaruga aveva dimenticato il messaggio, s’adirò e chiamò la lepre. Disse: «Tu sei una buona corritrice. Porta questo messaggio agli uomini laggiù: Uomini, com’io morendo resuscito, così resusciterete voi dopo la morte». La lepre correva molto forte, ma a un certo punto giunse dove era della bell’erba e si fermò a brucare. Si dimenticò il messaggio, e, non osando tornare indietro, lo riferì a questo modo: «Uomini, quando morirete, sarete morti per sempre». Aveva la lepre appena finito di parlare che giunse la tartaruga e riferì il suo messaggio, sicché si misero a discutere chi di loro avesse ragione. La lepre dette della bugiarda alla tartaruga. Gli uomini s’adirarono talmente con la lepre che uno di loro raccattò un sasso e glielo tirò. Il sasso la colpì sulla bocca e le spaccò il labbro; così ancor oggi ogni lepre ha il labbro fenduto. Gli uomini mandarono a chiedere che cosa avesse detto realmente la Luna; ma era troppo tardi, poiché era stato trasmesso il messaggio sbagliato, e così da allora tutti gli uomini sono sempre morti” (Pettazzoni, 1948: 30). La lepre compare anche nella tavola riassuntiva di Durand, come “sintema” del regime notturno, all’interno delle strutture drammatiche, in relazione alla luna (2009: 537).

27 Con riferimento alla luna si legge ai versi 43-47 di Alla Primavera: “Te per le piagge e i colli,/

Ciprigna luce, alla deserta notte/ Con gli occhi intenti il viator seguendo,/ Te compagna alla via, te de' mortali/Pensosa immaginò.” Si veda anche l’ode I, IV, di Orazio: “Iam Cytherea choros ducit

121 muove con il retaggio di un giovane casto Ippolito28, cristallizzatosi nel culto

artemisio della luna (la “vergine luna”, “intatta luna”, “giovinetta immortal” del Canto notturno), ma privo d’avvenenza e divenuto troppo presto un vecchio Virbio29. In questa zona centrale dell’immaginario dei Canti, il suo oggetto del

desiderio a livello simbolico oscilla dalla festa alla tomba30, centro nevralgico di

un’opposta costellazione.

Su tutto domina la luna, cuore pulsante dell’immaginario dei Canti. Il suo significato non è immediatamente decifrabile nell’opera leopardiana, anche perché non si tratta di un significato univoco, ma articolato, ambivalente, in fieri. A livello mitico-simbolico, ma anche letterario, un ruolo determinante nell’immaginario leopardiano può essere rintracciato nella definizione che la Luna dà di se stessa nel libro XI delle Metamorfosi, di Apuleio:

Eccomi, Lucio, commossa dalle tue preghiere vengo a te, io, la madre della natura, la signora di tutti gli elementi, l'origine prima dei tempi, la più grande tra gli dei, la regina dei morti, la signora dei celesti, l'immagine unificante di tutti gli dei e le dee; io che regolo secondo la mia volontà le luminose

28 Il complesso mitico-rituale di Ippolito-Virbio e Diana nemorensis è uno dei temi antropologici

per eccellenza, che ha dato addirittura origine al best seller dell’antropologia, Il ramo d’oro di Frazer (1999). Sarebbe, forse, allettante indulgere in una lettura frazeriana, tuttavia preferisco far riferimento all’Ippolito coronato di Euripide, che Leopardi poteva conoscere e che conserva inalterato, sotto il plot drammatico, il significato iniziatico della fabula mitica (2014). La morte del giovane conteso fra Artemide e Afrodite può essere spiegata alla luce degli istituti iniziatici e dei riti di passaggio, in cui la “morte apparente” dell’iniziando testimonia il passaggio dalla pubertà alla maturità sessuale. Il senso è spiegato nelle parole di Zaidman, che riporto: “Le potenze divine che hanno un rapporto con il matrimonio sono molto numerose ma una logica funzionale presiede alla loro scelta. L’invocazione di ogni divinità risponde a un proposito particolare. Così per Artemide: i giovani sposi lasciano il mondo «selvatico» dell’infanzia e dell’adolescenza, che è sotto la sua protezione, e offrono alla dea segni della loro riconoscenza. I racconti mitici mostrano che è tanto pericoloso rifiutare di uscire dal dominio di Artemide quanto mostrare ingratitudine verso la dea. Il posto di Afrodite è là dove comincia il piacere; senza di lei l’unione matrimoniale non può essere completa, con lei talvolta il godimento diventa una forza inquietante, che può minacciare il matrimonio dall’interno e trasformarlo in un’unione senza controllo” (1992: 62-63). Cfr. per una lettura antropologica del culto di Artemide anche Faranda (1996: 64). Se volessimo dare una lettura iniziatica del percorso dei

Canti, dovremmo dire che vi si tratta di un’iniziazione incompiuta, cioè, non portata a termine,

senza un passaggio da Artemide ad Afrodite; la morte quindi non sarebbe qui passaggio di

status, ma esito abortito. Se ne dedurrebbe che per Leopardi la rigenerazione mitica non è più

possibile, e non solo per se stesso.

29 Da un punto di vista strettamente storico-religioso Virbio è la divinità italica connessa al culto

di Diana nemorensis. In seguito al contatto col mondo greco fu identificato con Ippolito, resuscitato dalla dea e condotto a Nemi come proprio sacerdote. Le uniche notizie sul suo aspetto ci dicono che era raffigurato come un vecchio, cosa sorprendente rispetto all’immagine di Ippolito come un giovane bellissimo (Banti, 1950: 423).

30 Sull’immagine ricorrente della tomba nei Canti faccio riferimento a Colaiacomo (1995b: 375

122 altezze dei cieli, le salubri brezze del mare, i disperati silenzi degli inferi; e la divinità unica che io sono, il mondo intero la venera sotto diverse forme, con differenti riti e con i nomi più vari. Da una parte i Frigi, i più antichi abitatori della terra, mi chiamano la Pessinunzia Madre degli dei, dall’altra, gli Ateniesi autoctoni Minerva Cecropia, lì i Ciprioti bagnati dai flutti Venere di Pafo, i Cretesi armati di frecce Diana Dictinna, i Siculi trilingui Proserpina Stigia, gli antichi abitatori di Eleusi Cerere Attea, alcuni mi chiamano Giunone, altri Bellona, gli uni Ecate, gli altri Ramnusia, ma coloro che sono illuminati dai primi raggi del sole che nasce e da quelli morenti del sole che tramonta, le due razze degli Etiopi, e con loro gli Egizi insigni per la loro antica sapienza, onorandomi con il culto che più mi si addice, mi chiamano col mio vero nome, Iside regina. Vengo a te perché ho avuto compassione delle tue sventure, vengo a te, benevola e propizia. Cessa ormai questo pianto e poni fine ai tuoi lamenti, scaccia l’angoscia: ecco, grazie, al mio favore, per te sorge ormai il giorno della salvezza. E dunque rivolgi il tuo animo turbato agli ordini che adesso ti darò.

Il giorno che sorgerà da questa notte è il giorno che mi è stato consacrato da un’usanza religiosa senza tempo, quello in cui, al placarsi delle tempeste invernali e al calmarsi dei burrascosi flutti marini, i miei sacerdoti consacrano all’oceano ormai navigabile una nave nuova, e offrono in sacrificio la parte migliore del carico trasportato. E tu dovrai aspettare questa sacra cerimonia con animo sereno e devoto (2005: 707, 709) [corsivo mio].

Così anche per Leopardi la luna è al contempo Diana (Virgo eΛοχεια31), Venere

(Voluptas e Πάσιϕάη32), e Proserpina (Stygia e Βριμώ33), ma soprattutto è rerum

31 Si accetta qui in toto, per comodità, la tarda identificazione di Diana con Artemide, come

testimoniata dal testo di Apuleio stesso. Per gli attributi di Diana si può far riferimento al celebre Carmen saeculare di Orazio, sicuramente conosciuto da Leopardi, dove figurano molti epiteti della dea fra cui quello di Lucina (“Rite maturos aperire partus/ lenis, Ilithyia, tuere matres,/

sive tu Lucina probas vocari/ seu Genitalis”, vv. 13-16; Orazio, 1991: 390). Alcuni degli epiteti di

Artemide che riguardano la verginità e la castità sono Παρθένος, Άνύμφευτος, Ασυλóς, mentre l’aspetto materno è espresso dagli epiteti Λοχεια, Εἰλείθυια e Κουροτρόφος (Paris, 1892).

32 Anche in questo caso il passo di Apuleio testimonia la completa assimilazione di Venere ad

Afrodite. Per quanto riguarda l’aspetto del piacere e del desiderio si possono citare l’inno Ad

Afrodite (“ἥ τε θεοῖσιν ἐπὶ γλυκὺν ἵμερον ὦρσε”, “che infonde il dolce desiderio negli dei”, v. 2;

Càssola, 1994: 254-255), la Teogonia di Esiodo (“τέρψιν τε γλυκερὴν φιλότητά τε μειλιχίην τε”, “e il dolce piacere e affetto e blandizie”, v. 206; Esiodo, 1984: 76-77), e anche l’incipit del De

rerum natura di Lucrezio (“hominum divumque volutptas, alma Venus”, v.1-2; Lucrezio, 2016: 68).

Afrodite era venerata anche con l’attributo Πóρνη, e a Cipro e a Corinto si praticava la ierodulia (Càssola, 1994: 228, 236 ss.). L’epiclesi Πάσιϕάη (“che splende per tutti”), che condivideva con Selene, svela invece un’antica natura lunare della dea. Su Afrodite come divinità lunare si veda Séchan (1919: 723). Per la luna ciprigna cfr. supra.

33Proserpina era in origine una divinità dei semi, con lei fu precocemente identificata la greca

Persefone. Βριμώ significa “la terribile” e “la possente”, è epiteto attestato sia per Persefone che per Ecate e Demetra (Càssola, 1994: 29). Sarebbe troppo lungo spiegare l’identificazione sotterranea di Persefone con Ecate, e di entrambe con Artemide; d’altra parte è attestata anche un’identificazione di Afrodite con Persefone (Càssola, 1994: 234). Si può rimandare per tutti

123

naturae parens, elementorum omnium domina, immagine visibile e cangiante della Natura madre-matrigna. Certo la luna, con le sue fasi - crescente, piena, decrescente e nuova - è anche ipostasi della parabola vitale umana, paradigma e monito, e questo è un dato incontrovertibile34, avvertito presso tutti i popoli e

dichiarato da Leopardi stesso (“Somiglia alla tua vita/ la vita del pastore”, Canto notturno, vv. 9-10). Tuttavia dopo la sua scomparsa, la luna ricompare sempre in