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XXIV. La quiete dopo la tempesta XXV Il sabato del villaggio

2.1.3. La festa come delusione: La quiete dopo la tempesta e Il sabato

del villaggio

Che le due poesie costituiscano un dittico, quasi inscindibile, è cosa risaputa (Dotti, 1993: 98; Rigoni in Leopardi, 1988, I: 970). Lo sono per data di composizione, il settembre del 1829, forma metrica, struttura, suoni, immagini, temi. Tuttavia nella Quiete il topos della festa è appena accennato, nel celebre incipit:

Passata è la tempesta:

Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via,

Che ripete il suo verso. Ecco il sereno

113 Rompe là da ponente, alla montagna;

Sgombrasi la campagna,

E chiaro nella valle il fiume appare.

La posizione così in prima battuta, evidenziata dalla rima al mezzo, ci autorizza a indagare l’importanza dell’immagine evocata nel componimento. Tuttavia questa non è una vera festa, umana, popolare, si tratta del riappropriarsi gioioso da parte degli uccelli del loro costume consueto, l’aereo cinguettio, una volta finito il temporale, costume che il poeta paragona metaforicamente all’habitus festivo dell’uomo. La festa degli uccelli si trova anche nel Passero, con evidente richiamo interno fra le due liriche. L’immagine non è nuova in Leopardi e proviene direttamente dall’Elogio degli uccelli, come abbiamo già visto. Tuttavia, se spostiamo l’attenzione dal dato naturalistico (“e nella tempesta si tacciono, come anche fanno in ciascuno altro timore che provano; e passata quella, tornano fuori cantando e giocolando gli uni cogli altri”) alla sua interpretazione, vediamo che le cose sono leggermente differenti:

[la natura] sapientemente operò che la terra e l’aria fossero sparse di animali che tutto dì, mettendo voci di gioia risonanti e solenni, quasi applaudissero alla vita universale, e incitassero gli altri viventi ad allegrezza, facendo continue testimonianze, ancorché false, della felicità delle cose (OM: 157).

Così, dal lettore che avesse serbato nell’animo questo passo, e sicuramente da Leopardi lettore di se stesso, il paesaggio iniziale della Quiete non può essere visto come un’ingenua riproposizione di modelli classici. Da una parte, anche a una prima lettura, si dovrà ammettere che in questo caso il punto di vista, la focalizzazione, non è quella di Leopardi, ma di qualcuno dei suoi rustici personaggi, e che il poeta ha recuperato una prospettiva – temporaneamente – idillica per interposta persona, regredendo al livello della materia ‘narrata’; dall’altra, a una seconda lettura, conosciuto, cioè, il contenuto gnomico della seconda parte della poesia, tenuto presente che le testimonianze di felicità degli uccelli sono “false21”- non per loro stessi, certamente, ma alla luce della

“cognizione del vero” -, su tutta la visione si getta un’ombra straniante, ironica o, addirittura, ingannevole. Nell’immagine della festa, momento di godimento per eccellenza, si convoglia così la sentenza che investe il piacere, “figlio d'affanno;/ Gioia vana”, rivelando la sua natura delusoria.

114 Il tema della delusione della festa emerge in tutta la sua prepotenza nel seguito della Quiete, il Sabato del villaggio. Nel complesso il Sabato si presenta come una summa della riflessione leopardiana sulla festa, in una struttura perfettamente bilanciata, offrendo un punto di vista conclusivo e definitivo sulla questione.

La lirica si apre nei primi sette versi con la figura della “donzelletta”; attraverso di lei si declina la prima apparizione della festa, una festa che si dispiega ancora nel dominio del futuro per mezzo dell’immaginazione, come nel Passero e nella Sera (nucleo tematico XI-XIII):

onde, siccome suole, 5

ornare ella si appresta

dimani, al dì di festa, il petto e il crine.

A lei fa da contrappunto la “vecchierella”, nei successivi nove versi, che al contrario recupera la dimensione festiva retrospettivamente nel passato, attraverso il processo memoriale, come nel dittico A Silvia-Ricordanze (nucleo tematico XXI-XXII):

e novellando vien del suo buon tempo, quando ai dì della festa ella si ornava, ed ancor sana e snella

solea danzar la sera intra di quei

ch’ebbe compagni dell’età più bella. 15

Le figure appaiono l’una come l’alter ego dell’altra, come dichiara anche il gioco dei tempi verbali (“ornare ella si appresta”: “ornava”), “ma su punti opposti d’una medesima ruota” (Galimberti, 2001: 102). La prima è stata vista quasi come l’apparizione di una ninfa agreste (Galimberti, 2001: 102). Immersa in una dimensione primaverile (“e reca in mano/ un mazzolin di rose e di viole”), dichiara la propria sorellanza con Silvia e Nerina, pur essendo a differenza loro ancora in vita, come la fanciulla del Canto; evoca, cioè, l’immagine mitica di una Kore prima del ratto, ritratta nel raccogliere i fiori nei prati di Enna, forse anche per suggestione della Matelda dantesca22. Si tratta di una figura ancora

pienamente felice, che incede inconsapevole verso il domani, soggiacendo totalmente al dominio dell’illusione. Alla “vecchierella” è stata associata

22 A questo riguardo faccio riferimento al commento di Garavelli al canto XXVIII del Purgatorio

115 l’immagine della parca23. Tuttavia, questa parca infera – nell’Occidente si trova

il regno dei morti (“là dove si perde il giorno”) -, còlta nell’atto dell’evocazione memoriale, non ha le caratteristiche della saggezza o della consapevolezza, si rispecchia nell’immagine della fanciulla, soggiace anch’essa alla potenza dell’illusione. Uguale sorte coinvolge gli altri rustici personaggi, i fanciulli nella piazzola, “il zappatore” che fischietta, il “legnaiuol”, al cui insensato affanno è dedicata tutta la seconda strofa. Il suo affrettarsi in vista della festa (“e s’affretta, e s’adopra”, v. 36) non è diverso da quello del “vecchierel” del Canto notturno che corre precipitosamente verso la morte (“Corre via, corre, anela,/ Varca torrenti e stagni,/ Cade, risorge, e più e più s'affretta”, vv. 28-30). La rivelazione giunge perentoria, senza scampo, nella terza strofa:

Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia:

diman tristezza e noia 40

recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Il godimento è, in realtà, impossibile e la festa sarà – ed è - per tutti una delusione, fatta di “tristezza e noia”. Agli uomini non resta che consolarsi col piacere dell’attesa.

Il poeta non si accontenta, però, della “grave” chiusa di questo sillogismo, e si rivolge al “garzoncello scherzoso” con fare da “mezzo filosofo”, invitandolo a godere finché è in tempo, a trattenersi al di qua del velo dell’illusione. Dal punto vista del giovane, che Leopardi può recuperare con uno sforzo prospettico, la festa di sua vita è davanti a lui, egli, cioè, la pospone nella maturità, al di là della soglia della giovinezza; il poeta non vuole persuaderlo dell’illusione, non vuole spiegargli l’“acerbo vero”, non vuole, qui, rivelargli la delusione che l’attende, ma l’invita pacatamente a trattenersi al limitare della soglia, perché non incorra troppo presto, come Silvia (“e tu, lieta e pensosa, il limitare/ di gioventù salivi”), come lui stesso, nell’amara consapevolezza della fine di ogni speranza di felicità.