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1.3. Il “sistema antropologico” di Leopard

1.3.1. Un sistema fra evoluzionismo e degenerazionismo

Per trarre un bilancio dei rapporti col Settecento “pre-antropologico”, Leopardi condivide con tutti i pensatori sopra menzionati il concetto-chiave dell’“unità psichica del genere umano69”; dunque, pur essendo anch’egli non

immune dall’etnocentrismo70, si pone fuori dalle posizioni dei sostenitori

dell’inferiorità di alcune popolazioni umane su basi biologiche. Come tutti gli altri autori del Settecento parla di “civiltà” e non di “cultura”, ma ciò non significa che, seppur in nuce e senza una definizione precisa, tale concetto non cominciasse a farsi strada nelle menti dei philosophes (Harris, 1971: 14 ss), e dello

67 Rousseau nel Discours dice che: “l’homme qui médite est un animal dépravé”(1962: 45). Mi

sembra significativo, e non una svista, che Leopardi lo trasformi in: “Tout homme qui pense est un être corrompu” (Zib: 56). Si veda a questo proposito Muñiz Muñiz (2012: 134).

68 Non bisogna dimenticare la funzione positiva della Ragione intesa come “cognizion del vero”

nello svelare gli errori popolari e nel cammino verso il “verace saper”. Ancora valida a mio avviso la posizione di Sansone sul legame ambivalente fra Leopardi e la Ragione.

69 Questo elemento centrale è sempre individuato da Harris (1971: 22).

70 Tuttavia si può ricordare un passo di Leopardi che è già una critica all’etnocentrismo: “E

44 stesso Leopardi, in cui però, come ho cercato di chiarire in precedenza, trapela maggiormente nella concezione di Ragione. Come loro utilizza termini quali “primitivo”, “selvaggio”, “barbaro”, “civilizzato”, concetti che indicano delle tappe nel cammino evolutivo dell’uomo. Ritengo, a questo proposito, che Leopardi condivida la concezione evoluzionista-diacronica di tutti gli autori settecenteschi sopra menzionati e anche il suo sistema debba essere ascritto ai sistemi antropologici evoluzionisti, non solo contemporanei ma anche successivi71. Basti vedere che Morgan in Ancient Society del 1877 utilizza gli

stessi termini nella definizione degli stadi del percorso unilineare dello sviluppo umano. Infatti Morgan suddivide la storia in tre grandi fasi, con sottopartizioni interne: “1. Lo stato selvaggio a) inferiore, b) medio, c) superiore; 2. La barbarie a) inferiore, b) media, c) superiore; 3) La civiltà” (Harris, 1971: 244). Tuttavia Leopardi non utilizza la corrispondenza che è riscontrabile sia in Montesquieu che in Rousseau e che avrà larga e duratura fortuna fino a Morgan - sebbene lo studio delle relazioni fra forme economiche, tecnologiche e politiche sia in quest’ultimo molto più articolato - tra gli “stati” dell’uomo e le modalità di approvvigionamento di cibo, per cui i selvaggi sono cacciatori, i barbari pastori, e i civili sono coltivatori (Landucci, 1972: 455). Occorre, a tale proposito, precisare meglio i termini “primitivo”, “selvaggio”, “barbaro”, “civiltà”, ma anche “società” all’interno del “sistema” leopardiano. A una lettura superficiale potrebbe sembrare che Leopardi utilizzi i primi due termini quasi come intercambiabili. Tuttavia tale interpretazione è, in realtà, dovuta a un difetto del nostro sguardo, non più abituato a confrontarsi con i modelli evoluzionisti della società umana, e a una modificazione nell’italiano contemporaneo dell’accezione di questi termini. Raramente si possono riscontrare slittamenti semantici nel loro uso. Così Leopardi nel suo sistema distingue fra “primitivo” e “selvaggio”, in quanto col primo termine intende essenzialmente l’“uomo naturale”, cioè quello che viveva nello “stato di natura” in un periodo che possiamo definire pre-storico e per certi aspetti mitico. A tale stadio sono ascritti, talvolta, solo i Californi. Con “selvaggio” intende, invece, le popolazioni indigene africane e americane o oceaniane che presentano forme economiche di tipo pre-industriale e non conoscono la scrittura, quelle che oggi vengono definite, etnocentricamente, proprio “popolazioni primitive” - o con una perifrasi non molto migliore “popolazioni di interesse etnologico”. Pur non avendo ancora raggiunto lo stadio della civiltà, esse non sono ritenute prive di cultura o per dirla con Leopardi hanno già sviluppato gradi di Ragione, come

71 Sono molti i passi in cui è evidente l’evoluzionismo di Leopardi sul piano della civiltà, ne

45 dimostra il fatto che egli mette in luce che vivono in società e hanno usi, costumi e religioni, talvolta definiti orrorifici – potrebbe essere il caso dei selvaggi andini descritti nella Scommessa di Prometeo. Lo stadio della “civiltà” vero e proprio coincide invece con l’avvento della scrittura72, ed è significativo

come tale criterio sia lo stesso adottato ancora da Morgan nel 1877. A questo proposito occorre chiarire che in Leopardi l’opposizione non è mai fra “Natura” e “Civiltà”, ché la civiltà è piuttosto una condizione di precario equilibrio fra la Natura e la Ragione. La fine dell’equilibrio determina la “barbarie”, che per Leopardi - differentemente da Morgan - non è uno stadio in senso evolutivo, ma rappresenta una fase di decadimento nient’affatto necessaria ma spesso inevitabile rispetto a una precedente fase di maggior civiltà; dal punto di vista leopardiano il “barbaro” si contrappone tanto al “civile” quanto al “primitivo”, in quanto rappresenta, paradossalmente rispetto al senso comune, uno sbilanciamento a favore della Ragione e, cioè, dell’amor proprio e dell’interesse individuale, con tutti i derivati di violenza, sopraffazione, slealtà73. Infine, il

concetto di “società” in Leopardi potrebbe essere meglio definito come un criterio analitico trasversale e una variabile indipendente nella storia dell’umanità; infatti da una parte si muove anch’essa all’interno della polarità fra Natura e Ragione, essendo indubitabilmente frutto di quest’ultima; dall’altra la “società larga”, ancora vicina alla Natura, è risospinta agli albori della storia, mentre la “società stretta”, effetto dello spostamento dell’uomo verso la Ragione, si combina nella storia in vario modo con gli stadi evolutivi,

72“Tutti i popoli che non hanno una lingua perfetta sono proporzionatamente lontani

dall’incivilimento. Vedi p. 942, capoverso 1. E finché il mondo non l’ebbe conservò proporzionatamente lo stato primitivo. Così pure in proporzione, dopo l’uso della scrittura dipinta e della geroglifica. L’incivilimento, ossia l’alterazione dell’uomo, fece grandi progressi dopo l’invenzione della scrittura per cifre, ma però sino a un certo segno, fino all’invenzione della stampa, ch’essendo la perfezione della tradizione, ha portato al colmo l’incivilimento. Il quale incivilimento apparisce e dalla ragione e dal fatto che non si poteva conseguire e molto meno perfezionare senza l’invenzione della scrittura per cifre; invenzione astrusissma e mirabile a chi un momento la consideri, e della quale gli uomini hanno dovuto mancare, non già casualmente, ma necessariamente per lunghissima serie di secoli, com’è accaduto” (Zib:939- 940). A questo proposito occorre, però, segnalare che - con una presa di posizione etnocentrica - Leopardi ritiene strumento di vero “incivilimento” solo l’alfabeto e la scrittura alfabetica e, dunque, solo “vere” civiltà quelle semitiche (fenici ed ebrei) e quella greco-romana, che rappresenta la summa ineguagliata. Una disamina della questione è in Camarotto (2010).

73 Riporto le seguenti annotazioni: “Altro è primitivo, altro è barbaro. Il barbaro è già guasto, il

primitivo ancora non è maturo” (Zib: 118). “In fatti la storia dell’uomo non presenta altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà ad un altro, poi all’eccesso di civiltà e finalmente alla barbarie e poi da capo. Barbarie, s’intende, di corruzione, non già stato primitivo assolutamente e naturale, giacché questo non sarebbe barbarie. Ma la storia non ci presenta mai l’uomo in questo stato preciso” (Zib: 403-404)

46 determinando esiti diversi. Per chiarire meglio la differenza la “società larga” o “lassa” è quella che ha legami sociali abbastanza allentati e fluidi, mentre nella “società stretta” i legami sociali sono compatti e cementati da rigide norme; quest’ultima a sua volta può essere nell’estensione “ristretta”, come quella dei selvaggi, o “ampia”, come quelle dei popoli europei74. Così, a differenza di

quanto si potrebbe pensare, eccettuati i soli Californi, non esistono nell’epoca contemporanea casi di “società larga” ma solo società più o meno strette, anche presso i selvaggi75. La società stretta è vista come una forma gravemente

dannosa per l’uomo, per i costumi depravati (o barbarici) che produce e per il fatto di accrescere la sua generale infelicità; ciò a meno che non si accompagni a forme di civiltà molto avanzate76. La società stretta nuoce anche a tutti gli altri

esseri senzienti presenti sulla Terra.

In conclusione, Leopardi non nega l’evoluzione su larga scala diacronica delle forme sociali, ponendo sempre al vertice la civiltà occidentale e la ragione europea occidentale: quello che nega è che questo rappresenti un progresso. D’altra parte, non possiamo dimenticare che posizioni che negavano recisamente il progresso - o anti-progressiste - possono essere ascritte tanto a Voltaire che a Rousseau; Locke, Montesquieu e Diderot non vedevano affatto il progresso come inevitabile, e gli unici evoluzionisti davvero progressisti furono Turgot e Condorcet - e Kant (Gay in Harris, 1971: 56). Occorre pertanto distinguere e contrapporre i concetti di evoluzione e progresso anche nell’opera leopardiana, così come si fa per quelli di “conformabilità” e “perfettibilità” dell’uomo, quest’ultima in toto rifiutata77. Certo, posizioni così dure nei

confronti dell’epoca a lui contemporanea come quelle di Leopardi sono difficilmente riscontrabili in altri, tanto che alcuni autori parlano di “decadenza storica” e di “degenerazione” (Muñiz Muñiz, 1989: 375; Colaiacomo, 1995a: 265). Ora, da un punto di vista della storia delle idee, se elementi di degenerazionismo possono essere ascritti addirittura a Lafitau, tali correnti si

74 Sulla società stretta oltre ai succitati contributi si veda anche Feo (2010). 75 Si veda a questo proposito Zib: 3802.

76 Il caso della società italiana nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani non è, in

realtà, un’eccezione. In quel caso la società è meno stretta delle altre società europee non come effetto di una minore evoluzione, il che sarebbe positivo, ma come effetto di una degenerazione e sfaldamento dei legami sociali causati da protratte epoche di barbarie o semi-barbariche, il che è un fatto negativo. Pertanto rinsaldare i rapporti e ri-stringere la società porterebbe a esiti positivi rispetto alla situazione contemporanea.

77A questo proposito segnalo anche la seguente espressione di Leopardi, che non nega affatto

l’evoluzione sul piano delle forme sociali: “Altro è la perfettibilità della società, altro quella dell’uomo ec. ec. ec. (12-13 aprile 1821)”(Zib: 940). Sulla “perfettibilità” cfr. anche Moneta (2010) e Janowski (2010: 550).

47 concretizzarono davvero solo intorno alla figura di de Maistre e dei suoi accoliti78. Sarebbe insensato inserire Leopardi fra di loro, quale italico alfiere del

degenerazionismo, come fa Gerbi, anche perché costoro vedevano nei “selvaggi” l’esempio della degradazione dell’uomo in seguito al peccato originale e ponevano le prime basi al razzismo e alla discriminazione (2000). Nella sua storia dell’idea dell’inferiorità naturale degli americani Gerbi ricostruisce anche la genesi delle teorie degenerazioniste partendo da Buffon, per focalizzarsi sulla figura di De Paw, fino a giungere a Hegel, passando per de Maistre. In questo percorso è riservato anche un capitolo a Leopardi, dal titolo “Leopardi: la decadenza da americana si fa universale” (Gerbi, 2000: 528 ss.), in cui il recanatese diviene appunto un convinto sostenitore delle teorie degenerazioniste e, addirittura, un divulgatore delle tesi demaistriane. Sono molti a mio avviso gli equivoci in cui incorre Gerbi, fra cui il mescolare senza rigore i piani di analisi e i tempi della riflessione leopardiana. Ad esempio, sostiene che nelle Operette morali Leopardi ancora non afferma la teoria della “decadenza”, ma poi, per provare il suo degenerazionismo, chiama in causa un passo dello Zibaldone del 1821 (Zib: 1004), in cui Leopardi parla della “degenerazione” in relazione al cristianesimo e all’interpretazione del Genesi, non comprendendo che tale parallelo avviene su un piano eudemonistico, completamente diverso. Dalla lettura del saggio ne risulta quasi un Leopardi credente che ripropone i dogmi del cristianesimo, mentre tali immagini sono utilizzate per svelare frammenti di verità nascoste dietro il velo dei miti antichi, da un’ottica ormai atea. Ma dove Gerbi compie l’errore più grossolano è nella lettura del proemio del Canto IV dei Paralipomeni della Batracomiamachia; in questo caso, basandosi sullo Zumbini (1909: 249-253), sostiene che Leopardi abbia letto de Maistre (cosa possibile dato che Le serate sono del 1821 e i Paralipomeni del 1831, ma non provata) e ne riproponga le teorie, contraddicendo peraltro quanto Zumbini aveva sostenuto, cioè che quella sia un’esposizione ironica, critica e anche abbastanza polemica; errore già messo in luce da Savarese (1967: 134) e da Landucci (1972: 345). Per capire quanto

78 Il padre missionario gesuita Joseph-François Lafitau credeva fermamente nella dottrina del

monoteismo originario e nello studio delle società e delle religioni dei nativi americani (Moeurs

des sauvages Amériquains, comparées aux moeurs des premiers temps, 1724) credé di rintracciare le

prove della loro degenerazione a seguito della caduta del peccato originario. L’ideologia degenerazionista si affermò, tuttavia, solo più tardi in seguito all’opera di de Maistre e alla pubblicazione delle Serate di San Pietroburgo (1821). Da lui e dagli altri degenerazionisti le popolazioni “selvagge” o “barbare” furono indicate come società decadute da precedenti stadi di civiltà, come punizione da parte di dio (Fabietti, 1991: 7-8; 1980: 34-43; Harris, 1971: 75-80).

48 Leopardi non solo sia lontano, ma addirittura un avversario di queste posizioni basta leggerne alcuni sarcastici versi, che riporto:

Ma con la maraviglia ogni sospetto Come una nebbia vi torrà di mente Il legger, s’anco non avete letto,

Quel che i savi han trovato ultimamente, Speculando col semplice intelletto Sopra la sorte dell’umana gente

[…] E che quei che selvaggi il volgo appella

[…] Non vita naturale e primitiva

Menan, come fin qui furon creduti, Ma per corruzion sì difettiva, Da una perfetta civiltà caduti,

Nella qual come in propria ed in nativa I padri dei lor padri eran vissuti

[…] Resta che il viver zotico e ferino

Corruzion si creda e non natura, E che ingiuria facendo al suo destino Caggia quivi il mortal da grande altura; Dico dal civil grado, ove il divino Senno avea di locarlo avuto cura:

Perchè se al ciel non vogliam fare oltraggio, Civile ei nasce, e poi divien selvaggio.

Le espressioni dove si coglie l’ironia di Leopardi sono “maraviglia”, “nebbia”, “ultimamente”, “speculando col semplice intelletto”, “perfetta civiltà”, e in particolare “divino senno”, “cura” “se al ciel non vogliam fare oltraggio”, che ricordano simili espressioni corrosive presenti nella Ginestra e nel Tramonto della luna a proposito dell’intervento degli dei nelle vicende umane e della loro supposta intelligenza, mentre tutto il ragionamento si oppone a quanto sostenuto nell’Inno ai Patriarchi. Tuttavia, in modo del tutto diverso e da posizioni assolutamente aconfessionali, se scindiamo il piano psicologico - o eudemonistico - da quello socio-culturale - o dell’incivilimento -, è pur vero che elementi di una teoria della degenerazione dell’essere umano s’intrecciano in Leopardi con un impianto sostanzialmente evoluzionista, per cui si potrebbe parlare di un sistema “evoluzionista-degenerazionista”. Ma non è tutto, perché a differenza degli “evoluzionisti classici” Leopardi non concorda affatto sulla poligenesi dei fatti culturali, ma ritiene che la maggior parte delle invenzioni abbiano un’unica origine (monogenesi) e si siano diffuse nel mondo attraverso

49 la migrazione e il contatto fra i popoli. A questo proposito, riporto l’ottima sintesi di Camarotto:

a) il genere umano, originariamente raccolto entro un limitato spazio geografico, una volta oltrepassato contra naturam il giusto livello di socialità, si e`disperso ed eccessivamente diffuso sul globo terrestre (Zib. 3648-58); b) alcune invenzioni sono antecedenti alla disgregazione, e rientrano anzi nel novero dei fattori che ne hanno posto le condizioni di possibilità. A questa tipologia appartengono le scoperte e le applicazioni tecnologiche comuni indistintamente a tutta l’umanità, come il fuoco e la navigazione (Zib. 3658-67); c) le invenzioni che invece, grazie a una favorevole combinazione di eventi esterni che ne hanno consentito lo sviluppo, risultano trovarsi, almeno inizialmente, solo presso alcuni popoli, «pur avendo anch’esse una unica origine per la difficoltà e la casualità» che le contraddistingue, sono tuttavia «successive e posteriori alla antichissima dispersione», e sono pertanto divenute comuni unicamente a quelle nazioni che hanno avuto relazioni tra loro (Zib.3667-68) (Camarotto, 2010: 360).

Dunque, da questo punto di vista il sistema di Leopardi deve essere temperato anche con certo grado di diffusionismo79.