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XXIV. La quiete dopo la tempesta XXV Il sabato del villaggio

2.3. L’inchiesta in vers

Le occorrenze del termine festa e dei suoi correlativi sono numerose anche in quelle opere di Leopardi che per semplice comodità possiamo definire minori40. Sarebbe un compito troppo arduo, e in molti casi poco proficuo da uno

spoglio preliminare dei testi, analizzare nel dettaglio tutte le occorrenze. Ad esempio, anche nei Paralipomeni, l’unica che potremmo senz’altro estrapolare dal campo delle minori, l’uso del termine non assume valenze o accezioni particolari rispetto a quanto già enucleato, attestandosi l’uso dei termini utilizzati (“festiva”, nel III canto, e “festeggiare”, nel VII canto) nell’uso medio della lingua italiana. Inoltre l’immagine della festa non assume in questi versi particolare rilevanza. Vale la pena, al contrario, di ricordare la seconda imitazione dal greco41, da Alessi Turio42. Nella breve lirica è la vita stessa a

essere rappresentata attraverso l’immagine della festa, secondo una concezione tipica anche di altri autori antichi; si pensi ad esempio alla metafora del banchetto in Lucrezio, come si legge in De rerum natura, III, 935-93943. Ma la

visione di Alessi Turio, a ben vedere, nasconde un sotto senso molto più cupo. L’apparente visione epicurea di Alessi Turio sottintende rispetto a quella

39 Si tratta della festa denominata in ambito latino Navigium Isidis, che si svolgeva il 5 marzo o

secondo altri in concomitanza con la prima luna piena di primavera.

40 La si trova nei Paralipomeni, nell’Inno a Nettuno, nell’abbozzo degli Inni cristiani, nella Telesilla,

nel Saggio di traduzione dell’Odissea, in La torta, nella Traduzione dell’Eneide, nelle traduzioni Da

Alessi Turio, del Frammento da Senofonte, del Ragionamento d’Isocrate, nei saggi Sopra la virtù morale in generale e Sopra l’Ente supremo, nella Nota in All’Italia, nella Seconda redazione della dedica al Monti, nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, nelle Operette morali di Isocrate, nel Saggio sugli errori popolari degli antichi, nel Rifacimento del saggio sopra gli errori popolari, nella Storia dell’astronomia, in Sopra l’origine e i progressi dell’astronomia, nella prima redazione dell’Epistola al Pepoli, nel Commento al Petrarca, nell’Epistolario e anche nelle due Crestomazie.

41 La riporto per intero: “Questa, che chiaman vita sollazzevole,/oziosa, da spasso o cosa simile,/

son voci che si dicon per nascondere/la vera umana sorte? Ognun s’accomodi/ col suo parer; non voglio entrare in dispute/ma, per mia parte, io giudico che il vivere/ sia tutto e in generale una scempiaggine./ Ciascun, da’ regni morti e da le tenebre/venendo in questa luce, appunto capita/non altrimenti che straniero ed ospite,/come dire, a una festa; e chi da ridere,/mentre ch’ei vive e il può, trova più comodo,/più da ber, più da far l’opre di Venere,/e quattro cortesie, con miglior animo/da la festa al suo loco ha da tornarsene” (Leopardi, 1988, I: 605).

42 Alessi di Turio è lo zio del poeta comico Menandro.

43 Riporto i celebri versi lucreziani: “nam [si] grata fuit tibi vita ante acta priorque/et non omnia pertusum congesta quasi in vas/commoda perfluxere atque ingrata interiere;/cur non ut plenus vitae conviva recedis/aequo animoque capis securam, stulte, quietem?” (Lucrezio, 2016: 314, 316).

125 lucreziana che l’idea che la vita sia un piacere è tutto un imbroglio (“son voci che si dicon per nascondere/la vera umana sorte”). In fondo, vivere è una grande “scempiaggine” (“io giudico che il vivere/ sia tutto e in generale una scempiaggine”), cioè, una cosa stupida, e forse è meglio la morte. Così, anche da quello che potrebbe apparire come un semplice invito al godimento traspare la natura illusoria, in senso proiettivo-compensativo, della vita-festa. Questa volgarizzazione mi sembra particolarmente interessante perché, da una parte, ripresenta la co-occorrenza dei termini “festa” e “sollazzo” (“Questa, che chiaman vita sollazzevole”), dall’altra, perché testimonia la pervicace ricerca di Leopardi di una conferma alle proprie concezioni filosofiche e antropologiche nelle parole degli antichi.

Vorrei, pertanto, concludere mettendo in evidenza che anche attraverso la produzione lirica e le scelte di traduzione Leopardi porta avanti la sua personale indagine sulla festa con grande determinazione. Rintracciato il fil rouge di tale ricerca, una lettura antropologica dell’opera leopardiana non ne impoverisce il valore letterario, lirico o astrattamente filosofico, ma contribuisce a restituire l’acutezza dello sguardo leopardiano nel cogliere significati e valenze dell’agire umano di portata universale o, meglio, “universalmente umane”, per dirla con Cirese, o “elementarmente umane”, per dirla con de Martino44. L’analisi antropologica dei testi ci aiuta così a ricollocare l’immagine

della festa evocata nei Canti nel quadro teorico dello Zibaldone, precedentemente delineato, soprattutto ma non solo in quanto sollievo dal male di vivere. Inoltre ci permette di riposizionare Leopardi nella cultura del suo tempo, dove dominano ancora visioni rousseauiane spontaneistiche e intenti pedagogici post-rivoluzionari, ma anche reminiscenze classiche di epicureo godimento. Infine, una decifrazione dei simboli o delle immagini significanti, alla luce delle conoscenze antropologiche e storico-religiose, ci restituisce pienamente la valenza culturale di quelle stesse immagini e la loro “permanenza” all’interno di un immaginario sociale attraverso i secoli, ma ci aiuta anche a comprendere meglio il dialogo interculturale fra testo letterario e cultura, intessuto da Leopardi. Possiamo così cogliere che molte di queste concezioni e di queste immagini influenzano, sì, Leopardi nella sua rappresentazione della festa, ma non lo soddisfano. Pertanto egli le corrode e le demistifica dall’interno, imprimendo nelle pieghe dei suoi mirabili versi la spietata rivelazione della propria inchiesta, come lascito per un lettore ancora intrappolato fra habitus e

44 L’“elementarmente umano” di cui parla de Martino nella sua celebre Terra del rimorso, viene

da Cirese riformulato nel concetto di “universalmente umano”, nel suo articolato saggio Per

126 desiderio. Messi in luce tutti questi aspetti, mi spingo a dire che una lettura antropologica dei Canti riesce a liberare il tema della festa dal mero apparire accidentale di topos stereotipato. Inoltre, fa emergere un Leopardi che, pur conscio del provvidenzialismo della macchina festiva, svela con una presa d’atto ancora più lucida rispetto allo Zibaldone e alle Operette morali l’impossibilità del godimento e l’illusione della festa, che è - sempre e per tutti - festa per l’Altro e mai per sé.

127

III.L

A FESTA FOLKLORICA DELLE

N

OVELLE DELLA

P

ESCARA